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Capitolo 3 Matrici culturali e filosofiche 3.1 L’avanguardia e la filosofia

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Capitolo 3

Matrici culturali e filosofiche

3.1 L’avanguardia e la filosofia

Gli Indiani Metropolitani rappresentarono, secondo alcuni studiosi come, ad esempio, Umberto Eco, l’ultimo baluardo di una nuova avanguardia culturale, anche se nata dall’intersecarsi delle avanguardie storiche dell’inizio del Novecento con la controcultura della seconda metà del Novecento. Essi combinarono svariate forme di creatività, definita di massa e per la massa e che si propose direttamente come modalità di vita: l’arte è vita, la vita è arte. Il risultato dell’addizione di avanguardie storiche, controcultura americana, schizoanalisi, situazionisti francesi, teorie marxiste-leniniste, letteratura e poesia si trasformò in una scossa che attraversò tutto il 1977, che sconvolse le vite sia di chi la produsse sia di chi invece solo assistette dall’esterno all’invettiva degli “artisti” del Movimento. Ci fu un atteggiamento di completa indifferenza nei confronti delle regole di contestazione e comunicazione e nei confronti di chi queste regole le aveva enunciate; scardinare tutte le pratiche che fino a quel momento avevano gestito la vita sociale, culturale ed educativa della gioventù per trasformarle in un qualcosa di incomprensibile (nonsense) e irriverente.

Claudia Salaris nel libro Il movimento del settantasette1 ha analizzato le interferenze che hanno subìto le giovani generazioni della seconda metà degli anni ’70, con n focus sugli incroci con l’arte del passato che hanno determinato una scelta di contestazione creativa e culturale. La Salaris ha ricondotto le esperienze vissute dai creativi Indiani Metropolitani alle indicazioni dell’inizio del ventesimo secolo date da personaggi quali Filippo Tommaso Marinetti, Tristan Tzara (alias Samuel Rosenstock) e André Breton, individuando dei punti di incontro nell’utilizzo e nelle pratiche comunicative di illogicità, sintesi, automatismi e spontaneità. L’ala creativa del Movimento del ’77 basò i suoi principi sul cambiamento di vita riguardo tutti gli aspetti sociali, combattendo l’obiettivo della liberazione individuale e collettiva. Le pratiche artistiche rappresentarono uno dei punti salienti e distintivi del Movimento andandosi a configurare come massimo tentativo di eliminare il livello di separazione tra il piano della creatività e il piano dell’esistenza. Protagonista principale della forte volontà di questo mutamento fu un nuovo proletariato che sentiva centrale la liberazione del tempo umano dal lavoro industriale attraverso lo sviluppo dell’automazione2

.

Maurizio Calvesi nel saggio Marinetti, inventore dell’avanguardia3 sosteneva che alcuni slogan e alcune delle tecniche della contestazione studentesca e giovanile

1 Salaris, Claudia, Il movimento del settantasette. Linguaggi e scritture dell’ala creativa, Bertiolo, AAA,

1997.

2

Ivi, pp. 11-15.

3

Calvesi, Maurizio, Marinetti, inventore dell’avanguardia in Marinetti e il futurismo, Roma, De Luca, 1994, pp. 11-27.

(2)

2 derivassero dal dadaismo e dal surrealismo, dunque indirettamente anche dal futurismo. Marinetti nel 1920 nel testo Al di là del comunismo4 declamò la necessità di una rivoluzione dell’arte e degli artisti che conquistasse il potere; sulla stessa lunghezza d’onda si collocò il concetto espresso da André Breton nel primo manifesto del surrealismo nel 1924 dove l’immaginazione liberava la parte nascosta dell’essere umano (secondo l’interpretazione che Breton diede al lavoro di Sigmund Freud sull’inconscio) e che durante le contestazioni del ’68 si tramutò nel motto «L’immaginazione al potere» apparso sui muri della Sorbona a Parigi. A ciò Claudia Salaris5 aggiunse la concezione che il situazionismo ebbe riguardo la filosofia del futurismo, del dadaismo e del surrealismo e la applicò alla realtà delle metropoli contemporanee, rivendicando la necessità di un potere gestito dall’immaginazione e dall’arte. Per la Salaris la rivisitazione delle avanguardie storiche e la scoperta del pensiero situazionista, attraverso le esperienze del ’68 francese, svolsero un ruolo preminente nel Movimento del ’77 che convogliò in sé anche l’underground e il “negazionismo”6

, rivisitati dagli Indiani Metropolitani negli slogan ironici e nel gusto per il paradosso, denunciando il mondo illusorio decantato dai mass-media. Comunque, Calvesi, nel saggio su Marinetti, sosteneva che i comportamenti dei contestatori creativi del ‘77 neanche con il senno di poi potrebbero essere definiti spettacolari senza l’apporto dei precedenti futurista, dadaista e surrealista in ambito politico ed estetico che considerarono anche l’esaltazione della rivoluzione: «Canteremo le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne»7. I movimenti degli anni ’60 e ’70, in generale, ripresero dalle avanguardie storiche opposte all’istituzione culturale il disprezzo dell’accademismo, inserendosi in una concezione dell’arte contro la retorica, la monumentalità e l’eccezionalità delle opere, puntando a un maggior senso di democrazia e a nuovi modelli comportamentali, nel presente con le giovani generazioni8.

Più che l’intera attività artistica del futurismo, di particolare rilievo per gli Indiani Metropolitani furono le teorie di Filippo Tommaso Marinetti. Calvesi ha individuato nella figura di Marinetti non solo l’inventore del futurismo ma in generale dell’avanguardia, perché è stato colui che diede vita a un «modo radicalmente rivoluzionario di guardare ai fenomeni creativi anche nella loro interconnessione “totale”»9

. Una delle intuizioni di Marinetti fu la necessità di una comunicazione pubblica come fulcro dal quale potesse partire il cambiamento dell’esistenza di tutta la società. Tutto ciò venne esplicitato nei manifesti che, anche per le avanguardie successive, concentrarono i dettami dei modelli

4

Marinetti, Filippo Tommaso, Al di là del comunismo, Milano, Edizioni de La testa di ferro, 1920.

5 Salaris, Claudia, op cit., p. 14. 6

Da non intendersi con la corrente negazionista dell’Olocausto, ma semplicemente come negazione delle etichettature culturali che da sempre hanno relegato determinati modi e atteggiamenti in determinate correnti culturali.

7 Filippo Tommaso Marinetti, Manifesto del futurismo, 1909 da Salaris, Claudia, Le opere, in Marinetti e il

futurismo, op cit., p. 31.

8

Marinetti e il futurismo, op cit. pp. 25-26

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3 organizzativi di vita per tutti e non solo per gli artisti10. Per quanto riguarda gli Indiani Metropolitani, questi non redassero dei veri e propri manifesti contenenti regole da seguire per essere un buon Indiano, a causa sia dell’estremo rigetto verso tutto ciò che potesse sembrare un’imposizione, sia perché bisognava sentire da sé che era giunta l’ora del cambiamento e che questo doveva essere affrontato con ironia, nonsense e follia. Comunque anche gli Indiani produssero forme “precettistiche” che per la maggior parte si tradussero in volantini, tatzebao, scritte murali e nelle famose fanzine che comunicavano, ma non imponevano, un nuovo modo di vivere11.

Ritornando al futurismo e alle innovazioni di Marinetti, si possono individuare anche altri modelli che riguardarono le pratiche degli Indiani, sia relativamente alla comunicazione sia alle modalità creative. Marinetti oppose al razionalismo l’elogio della “pazzia”, che consistette in un’eliminazione delle categorie morali e sistematiche; la pazzia segnò la via per la disgregazione di forze vitali, in un clima ribelle e di provocazione all’intero universo. Intendendo la pazzia (o follia) come genialità creatrice, essa si manifestò specialmente nelle spettacoli teatrali dove coesisté con l’inverosimile e l’assurdo traducendosi in aspetti giocondi ed esaltanti. Questo venne continuato (o ripreso) dalla pratica beffarda del teatro dadaista, che segnò anche l’apertura agli orizzonti del surrealismo in cui assunse importanza il ruolo creativo attribuito all’inconscio. Tutto ciò venne incrementato anche dalla visione che sia nel futurismo sia nella neo-avanguardia del 1977 si ebbe per il nuovo ruolo del pubblico degli spettacoli teatrali, cioè il coinvolgimento che fu riservato agli spettatori nella realizzazione della performance artistica stessa. Marinetti scrisse nel manifesto Il teatro di varietà del 1913 che questo genere teatrale era l’unico a poter usufruire dell’intervento del pubblico, quindi non inteso più solo come spettatore passivo ma come componente attivo all’azione; per Marinetti bisognava provocare uno shock nello spettatore per trasmettergli folle dinamismo da intraprendere nella propria quotidianità. Per quanto riguarda le nuove strutture del linguaggio introdotte da Marinetti e dal futurismo, le “parole in libertà” ma anche l’utilizzo di alcune figure retoriche come l’analogia o le onomatopee trovarono particolare risonanza negli slogan e nelle modalità di scrittura degli Indiani Metropolitani12.

Tristan Tzara nel Manifesto Dada del 1918 elencò dove DADA fosse presente, in quali aspetti della vita; tra questi, molti vennero ripresi dall’atteggiamento dei contestatori del ’77 e dagli scritti e murales degli Indiani Metropolitani, come l’abolizione della logica con una propensione per il nonsense, “l’abolizione del futuro” che si rispecchiò nella volontà di avere tutto e di averlo subito, e nel rifiuto del lavoro che prospettava proprio una

10

Salaris, Claudia, Le opere, in op cit., pp. 29-36.

11

Quello che forse più si avvicina a una regolamentazione nelle modalità di convivenza si trovò specialmente circoscritta all’esperienza della “comune” a Roma in Via dell’Orso, 88. Qui, sui muri della casa, spesso apparvero dei comunicati o degli avvisi che servirono per la gestione della vita insieme e per il mantenimento della casa stessa. Cfr. Echaurren, Pablo, La casa del desiderio. ’77: indiani metropolitani e altri strani, Lecce, Manni, 2005; Id., Il mio ’77, Gussago, L’Arengario, 2013.

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4 negazione della possibilità di futuro13. La negazione dadaista consistette nel rigetto della società del proprio tempo, rovesciando il linguaggio e la logica a favore di un mondo immerso nel caos attraverso la derisione e l’humour. Inoltre la negazione della società dei dadaisti trasformò le pratiche artistiche in una profonda gioia di vivere dove il piacere della creazione veniva considerato non solo come privilegio di un singolo (dell’artista) ma di tutti gli uomini, prospettando la costituzione di un’umanità migliore14. L’obiettivo fu dare libera esplosione alla follia e alla rilevanza dei poteri dell’uomo; il dadaismo considerò le proprie pratiche di vita come tempo di espressione anarchica che rigettava ogni metodo morale e sociale già dato. Ciò si vide sia negli spettacoli che nella stampa dadaista; negli spettacoli del Cabaret Voltaire a Zurigo nel 1916 i dadaisti instaurarono un rapporto diretto con il pubblico invitato ad uscire dal silenzio passivo per farsi trasportare della propria spontaneità, che diventava creatività. Contemporaneamente l’utilizzo delle parole in libertà e della grafica confusa della rivista “Dada” servirono a comunicare la rottura degli schemi (riferimento diretto al futurismo). Da tutto ciò gli Indiani Metropolitani attinsero gesta e modalità che poi contribuirono alla nascita della propria identità15.

Il surrealismo fu l’avanguardia che si sviluppò verso una volontà organizzatrice e meno verso una violenza sovversiva tipica dello spirito dadaista. Lo spirito surrealista si collocò comunque in un atteggiamento ostile nei confronti della società borghese, secondo idee di emancipazione non solo nel campo dell’arte e della letteratura, ma anche a livello politico. Inoltre il surrealismo si aggregò maggiormente alle concezioni del proprio tempo storico cogliendo motivazioni dal marxismo e dalla psicanalisi: ciò si esplicò nella disapprovazione della ragione borghese e nella coesistenza di sogno e realtà. A questo punto, tenendo in considerazione proprio i principi del marxismo e della psicanalisi, è necessario sottolineare come il primo si prospettasse l’obiettivo della liberazione del proletariato in base all’analisi della condizione alienante in cui questo versava; mentre la psicoanalisi, secondo una concezione analitica, fondò le basi della stessa liberazione dell’uomo sulla consapevolezza intima del proprio desiderio. Tutto ciò confluì per i surrealisti nel loro concetto di autonomia, nel modo per poter evadere dai comportamenti sociali tramandati; però nel passaggio dal primo al secondo manifesto (dunque dal 1924 al 1929), i surrealisti si accorsero anche che la visione marxista e psicanalitica li ingabbiava in dettami dai quali loro volevano fuggire e questa fu la caratteristica che si può accomunare agli Indiani Metropolitani e alla loro visione del mondo. Infatti, per gli Indiani Metropolitani bisognava disconoscere tutti quei precetti che costituivano il background culturale di una persona (o meglio di un artista consapevole del proprio tempo storico) che, comunque, illusoriamente dirottavano le operazioni di vita/arte quotidiana in schemi comuni (borghesi e accademici, secondo la visione degli Indiani Metropolitani e dei giovani in rivolta nel 1977). Gli appelli presenti nel Secondo Manifesto del Surrealismo

13

De Paz, Alfredo, Dada, surrealismo e dintorni, Bologna, CLUEB, 1979, p.13.

14

Ivi, pp. 17-18.

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5 rinnegavano le idee di famiglia, di patria e di religione; ma parallelamente alla crescita della propria volontà di autogestione anarchica si collocò anche l’allontanamento dal partito comunista francese, perché, in sostanza, l’iscrizione a un partito comportava la privazione del progresso individuale ed interiore. La ricerca dell’effettivo assetto in un mondo libero passò per i surrealisti attraverso la manifestazione umoristica e poetica, con cui l’anima attestava una sua indipendenza rispetto la società, e a cui si aggiunse anche l’opinione che la follia fosse un ottimo coadiuvante nella propagazione dell’origine del piacere, perché la follia rappresentò per i surrealisti l’ultimo ostacolo al pensiero razionale, e cioè rappresentava quella parte di umanità non sottomessa alla società e desiderosa di esprimere la propria particolarità sfuggendo dalle regole della realtà quotidiana16.

Gli Indiani Metropolitani, insieme a tutta l’ala creativa che si sviluppò prima e durante il Movimento del ’77, filtrarono le avanguardie storiche attraverso i pensieri politici marxisti-leninisti, tra cui maoismo e situazionismo, che si battevano contro il “revisionismo”17

del Pci.

Il pensiero di Mao Zedong rinforzava il ruolo centrale della rivoluzione della classe contadina in antitesi al proletariato cittadino, collocandosi come una prosecuzione delle teorie di Marx, Engels, Lenin e Stalin e in opposizione alla direzione che negli anni ’50 il partito comunista russo stava intraprendendo (revisionismo). In Italia il maoismo non era conosciuto fin quando nelle Università di Milano, Venezia, Roma e Napoli venne introdotto l’argomento nelle lezioni di Storia a partire degli anni ’60. Ma la maggiore spinta alla proliferazione della politica di Mao nel nostro paese si ebbe con la traduzione dei libri di Edgar Snow e di William Hinton18, ad esempio, ma anche con la pubblicazione di libri sul tema da parte di autori come Renata Pisu, Enzo Biagi, Maria Antonietta Maciocchi, Alberto Moravia e altri. La scoperta quindi della rivoluzione cinese condotta da Mao caratterizzò la filosofia della lotta di classe di quei gruppi della sinistra extraparlamentare che accusavano il Pci di “revisionismo”.

Il maoismo venne introdotto come prassi rivoluzionaria nel movimento studentesco già durante le contestazioni del 1968; questa visione si catalizzò nelle esperienze di comunicazione alternativa, a partire dalla rivista “Re Nudo”19

. In questa rivista la politica di massa venne commentata in tono ludico, integrando le tematiche scaturite dal movimento contestativo della fine degli anni ’60 con gli obiettivi politici della sinistra extraparlamentare e con le battaglie per i diritti civili.

16De Paz, Alfredo, op cit., pp. 39-69.

Il pensiero surrealista sulla follia fu echeggiata da una disciplina che negli anni ’60 venne definita antipsichiatria, e che per alcuni aspetti si collocò al fianco delle teorie di Baudrillard e di Deleuze-Guattari.

17

http://www.treccani.it/enciclopedia/maoismo_%28Dizionario-di-Storia%29/ consultato il 17 marzo 2015.

18 Snow, Edgar, Stella rossa sulla Cina, Torino, Einaudi, 1965; Hinton, William, Fanshen. Un villaggio

cinese nella rivoluzione, Torino, Einaudi, 1965.

19

Fondata a Milano nel 1970 da un gruppo di artisti e intellettuali, tra cui Andrea Valcarenghi. La rivista si occupò di controcultura e controinformazione, inoltre la redazione di “Re Nudo” fu tra le organizzatrici dei Festival del Proletariato Giovanile.

(6)

6 L’immagine di copertina del libro di Andrea Valcarenghi, Underground: a pugno

chiuso!20, fornì un esempio del maoismo rivisitato attraverso il patrimonio della controcultura americana (fig. 93). Raffigura un Mao capellone, un ready-made che coniugava neodadaismo e pop art; «È finalmente venuto il giorno in cui a Mao sono spuntati i capelli. E gli sono cresciuti subito. Dopo tutti questi tentativi di appiccicargli i baffoni del defunto papà sovietico, abbiamo finalmente un Mao capellone! Noi diciamo: Mao non ha i baffi, ma i capelli lunghi»21. Tale stile irriverente fu tipico anche della successiva ala creativo-contestativa che infatti confluì nella pratica dei trasversalisti22 di Bologna della rivista “A/traverso”23

. In questa rivista a conclusione dell’articolo in prima pagina del numero 6, intitolato Informazioni false che producono eventi veri, il collettivo A/traverso dichiarava di voler «Costruire le cellule d’azione mao dada»24 per la gestione della nuova comunicazione25. «Ripartiamo dalla lezione del dadaismo; ma quella separazione fra arte e vita che il dadaismo vuole abolire nel regno (illusorio) dell’arte, il trasversalismo la abolisce sul terreno pratico dell’esistenza, del rifiuto del lavoro, dell’appropriazione. Trasformazione del tempo, del corpo, del linguaggio […] dichiariamo la nascita del Mao-Dadaismo»26.

L’assimilazione tra l’avanguardia dadaista e il pensiero politico maoista consisteva proprio nella compatibilità tra il linguaggio della prima e la filosofia rivoluzionaria del secondo. Ovviamente fu una rivisitazione di entrambi: il dadaismo voleva rompere la separazione tra linguaggio e rivoluzione, o meglio tra arte e vita, ma non comprendeva una adesione diretta dal “basso” della popolazione; il maoismo prevedeva l’approvazione sociale dell’individuo attraverso la gratificazione dei suoi bisogni e dei desideri nel lavoro e nella vita. La nuova ricerca comunicativa degli anni ’70 in Italia sbocciò dall’idea di rendere reale l’utopia dadaista di annullare la disgiunzione tra arte e vita quotidiana, quest’ultima che a sua volta non doveva avere separazioni con la politica.

20

Valcarenghi, Andrea, Underground: a pugno chiuso!, Roma, Arcana, 1973.

21 Ivi, op cit., p. 117. 22

Trasversalismo: nel linguaggio politico e giornalistico, è la tendenza a superare le tradizionali divisioni tra partiti e schieramenti diversi, per favorire la convergenza su temi o iniziative di interesse più generale che “attraversano” le loro strutture e i loro programmi particolari. Da http://www.treccani.it/vocabolario/trasversalismo/ consultato il 17 marzo 2015.

23

Scrittura trasversale e fine dell’istituzione letteraria, in “A/traverso”, giugno 1976, n. 3, p. 6; Mercanti

oche felici e pratica trasversale della scrittura, in “A/traverso”, dicembre 1976, n. 5, p. 7; Dada in carta lucida antibatteriologica, in “A/traverso”, febbraio 1977, n. 6, p. 2; La scrittura trasversale come percorso di ricomposizione, in “A/traverso”, febbraio 1977, n. 6, p. 3.

24

Informazioni false che producono eventi veri, in “A/traverso”, febbraio 1977, n. 6, p. 1.

25 Echaurren, Pablo e Claudia Salaris, Controcultura in Italia 1966-1977. Viaggio nell’underground, Torino,

Bollati Boringhieri, 1999, pp. 174-175.

26

Scrittura trasversale e fine dell’istituzione letteraria, in “A/traverso”, giugno 1976, tratto da Mariscalco, Danilo, «A/traverso» la transizione. Le pratiche culturali del movimento del’77 e il paradigma artistico, in “Enthymema”, 2012, n. 7, p. 397.

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7 Fig. 93

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8 Tra gli altri riferimenti, diretti e indiretti, che accomunarono le attività degli Indiani Metropolitani alle esperienze culturali, politiche e artistiche degli anni precedenti, non solo in ambito italiano, gli storici dell’arte fanno riferimento anche all’Internazionale Situazionista, e, come abbiamo visto nel discorso di Gandalf il Viola alla Stampa Estera nel marzo del 1977, richiamata dagli Indiani nella loro versione della neo-avanguardia denominata Internazionale Schizofrenica.

L’Internazionale Situazionista nacque a Cosio d’Arroscia (IM) nel luglio 1957 dalla fusione del Movimento per un Bauhaus Immaginista, del Comitato Psico-Geografico di Londra e dall’Internazionale Lettrista27

. L’obiettivo fu quello di infrangere l’eclettismo culturale, e di oltrepassare l’arte attraverso una critica e un rifiuto dello stato attuale. Tutto ciò a sua volta si edificò sulla realizzazione di “situazioni”: momenti di vita costruiti per mezzo dell’organizzazione collettiva di una condizione sociale armonica e per mezzo di intrattenimenti. Per i situazionisti la vita quotidiana28 era contrassegnata dalla lotta di classe e dalla soggettività, condizioni che autonomamente non potevano determinare lo scatenarsi della rivoluzione, la quale, invece, si sarebbe dovuta concretizzare dall’incontro cosciente tra i due punti. Soggetto della lotta sociale era il proletariato, cioè chiunque fosse consapevole della propria individualità spossessata dalla società neocapitalista (gli impiegati, gli intellettuali che vedevano il loro lavoro e la loro vita assimilarsi sempre più alla condizione operaia, il sottoproletariato che praticava il rifiuto del lavoro, gli studenti). La teoria critica alla società comprendeva una divisione organica tra significato e realtà, se si fosse realizzata la concomitanza tra le due parti si sarebbe prodotto un significato senza realtà (traducibile in una società fondata sull’arte) o, viceversa, si sarebbe prodotta una realtà senza significato (che invece sarebbe stata traducibile in una società basata sull’economia). Il superamento della società capitalista risultava, per i situazionisti, in una creatività social-rivoluzionaria, in una rinuncia al modernismo e in un bisogno di saldare le teorie delle avanguardie al processo di autoemancipazione del proletariato29. Raoul

27 L’Internazionale Lettrista fu un collettivo di teorici e artisti attivo a Parigi dal 1952 al 1957. Dal 1954

venne pubblicato il bollettino “Potlatch” che veniva inviato gratuitamente a chi ne faceva richiesta e a famiglie scelte a caso dalla redazione. Così il bollettino lettrista rispettava in pieno il senso di potlatch praticato «presso alcuni Indiani d’America come forma precommerciale di circolazione dei beni, fondata sulla reciprocità di beni suntuari. I beni non vendibili [del bollettino erano] i desideri e i problemi inediti, [dove] il loro approfondimento da parte di altri poteva costituire un dono di ritorno» da Debord, Guy, Il ruolo

di Potlatch, un tempo e ora, su “Potlatch – Informazioni interne dell’Internazionale Situazionista”, n. 1 (n.

30), 15 luglio 1959, tratto da Potlatch. Bollettino dell’Internazionale lettrista 1954-1957, Torino, Nautilus, 1999, p. 94. L’intento fu di creare un nuovo movimento sulla base di una riunificazione della creazione culturale d’avanguardia e della critica rivoluzionaria della società; da qui nel 1957 si costituì l’I. S. «Noi […] siamo nel contempo una presenza e una contestazione nelle arti attualmente chiamate moderne. Dobbiamo conservare e superare questa negatività, […] verso un terreno culturale superiore», ibidem.

28 Al concetto di vita quotidiana si opponeva il concetto di sopravvivenza. Quest’ultima era definita «come

pura negazione, come riduzione all’imperativo economico e come subordinazione psicologica alla società dello spettacolo», da Perniola, Mario, I situazionisti. Il movimento che ha profetizzato la Società dello

Spettacolo, Roma, Castelvecchi, 1998, p. 49.

(9)

9 Vaneigem nel libro Trattato di saper vivere30 del 1967 accostava la proposta di libertà

proletaria alla soggettività artistica che determinava la difformità tra la vita quotidiana e la sopravvivenza; la prima consisteva nell’arte, mentre la seconda nella sua opposizione31

. Chi apportò il maggior contributo alla teoria situazionista fu Guy Debord che, nel suo libro La società dello spettacolo32 del 1967, analizzò lo squilibrio sociale contemporaneo che colpiva gli individui a causa dello forzato stato di passività prodotto dal neocapitalismo33. La dimensione spettacolare con la quale Debord spiegò la vita consisterebbe nella dimostrazione “funzionale” di quest’ultima che si basava sulla produzione economica; cioè per Debord ormai tutta la vita sociale era sostentata dalla necessità consumistica. Lo spettacolo era il corrispondente immateriale delle merci, «è il denaro che si guarda soltanto, perché in esso è già compresa la totalità dell’uso che è scambiata con la totalità della rappresentazione astratta. Lo spettacolo non è soltanto il servitore dello pseudo-uso della vita, è già in se stesso lo pseudo-uso della vita»34. Per Debord l’arte (o meglio la cultura) descriveva, così come veniva praticata e comunicata, una immobilizzazione della soggettività creatrice e una pseudo-comunicazione tra gli individui; a ciò bisognava rispondere con una realizzazione e progettazione di strumenti e di prospettive che si ponessero al di là dell’arte. Ecco dunque le creazioni di “situazioni” che possiamo confrontare con le rappresentazioni degli Indiani Metropolitani; ma ecco soprattutto l’utilizzo del détournement, ossia la perdita del significato posseduto di un oggetto sostituito dalla creazione di un altro insieme espressivo in grado di dare allo stesso oggetto una nuova dimensione. Cambiare le parole di citazioni famose o mescolare piani culturali restituiva testi e immagini inattesi e confusionari per chi non fosse abituato alla pratica. Uno scioglimento dal contesto storico-culturale e mediatico della “società dello spettacolo” che, riprendendo il ready-made o il collage delle avanguardie, perveniva a un effetto che raffigurasse una negazione attraverso quella che per i situazionisti fu una comunicazione istantanea, di cui un esempio furono i fumetti35.

Analizzando le pratiche comunicative della protesta artistica degli fine degli anni ’70, Claudia Salaris ha messo in evidenza l’attività di una corrente “negazionista” che derivava appunto dalle teorie dell’Internazionale Situazionista. Questa corrente si appariva come la critica allo spettacolo di una società fragile rispetto alla società governante, dunque gli emarginati (dei quali volevano fare le veci i gruppi extraparlamentari), e di una creatività distinta dalla tradizione che generava “opere” filtrate attraverso quelli che Salaris

30

Veneigem, Raoul, Trattato di saper vivere. Ad uso delle giovani generazioni, Bolsena, Massari, 2004 [ed. orig.: Traité de savoir-vivre à l’usage des juenes générations, Paris, Gallimard, 1967].

31 Perniola, Mario, op cit., p. 50. 32

Debord, Guy, La società dello spettacolo, Roma, Stampa Alternativa, 1977 [ed. orig.: La Société du

Spectacle, Buchet/Chastel, 1967].

33 In riferimento al Movimento del ’77: «I gruppi del ‘proletariato giovanile’ vivono la metropoli come un

universo ostile, una società dello spettacolo e del simulacro, dove essi si muovono come allogeni», da Salaris, Claudia, Il movimento del settantasette, op cit., p. 28.

34

Debord, Guy, op cit., p. 75; vedi anche Perniola, Mario, op cit., pp. 50-53.

(10)

10 definiva «fumetti fuori schema»36. La combinazione delle tecniche del falso e del

détournement fu sviluppata in Italia già dai trasversalisti e poi adoperata

dall’Internazionale Schizofrenica (che appunto parafrasava L’internazionale Situazionista), cioè una delle tante sfaccettature degli Indiani Metropolitani. Falso e détournement erano strumenti per la creazione di contesti avanguardistici, come ad esempio la diffusione della notizia di un incontro (mai avvenuto) tra Papa Paolo IV e il critico d’arte Giulio Carlo Argan il giorno 8 dicembre 1976, che, uniti, denunciavano la politica del compromesso storico tra Andreotti e Berlinguer37. Dello stesso stampo fu l’interpretazione maodadaista data all’intervento di Lama alla Sapienza comparso nel marzo 1977 sul foglio settimanale “Finalmente il cielo è caduto sulla terra: la rivoluzione è a metà”; e inoltre un esempio direttamente dall’esperienza degli Indiani Metropolitani fu fornito nel foglio “Il complotto (di Zurigo)” dello stesso marzo, che nacque proprio per denunciare le politiche discriminatorie nei confronti dei collettivi creativi, in Italia così come in Svizzera, inventando e “détournando” l’esperienza di un Cabaret Voltaire a Zurigo nel 1977.

Maurizio Calvesi, nel saggio Avanguardia di massa38, poneva alla base della contestazione divulgativa e linguistica le tre avanguardie analizzate sopra con le loro derivazioni neoavanguardistiche. Riconosceva soprattutto nel surrealismo lo svincolo e l’incontro per le pratiche artistico-letterarie che i giovani contestatori utilizzarono, e per il pensiero enunciato di Foucault e dei teorici del desiderio e della schizo-analisi. Il surrealismo, secondo Calvesi, aveva portato l’attività artistico-letteraria verso un proposito extra-estetico, combinato alla infrazione del segno e della “scrittura”39. «Avanguardia diventa, dopo il surrealismo, scrittura trasgressiva a livello di arte (o anti-arte) come di pensiero (ovviamente anti-sistematico e anti-filosofico)»40. Attraverso la “nuova filosofia” i giovani nel Movimento del ’77 considerarono il pensiero di Marx e Freud in senso

negativista, cioè applicandolo per negare la repressione e l’emarginazione a favore della

riaffermazione del corrispondenza personale-politico. Questo pensiero si tradusse nell’autodistruzione violenta e nella concessione al consumismo per l’affermato diritto al soddisfacimento dei desideri e dei bisogni primari41.

Gilles Deleuze e Felix Guattari con l’anti-Edipo e con l’immagine del rizoma; Jean Baudrillard con la sociologia; Michel Foucault con l’opposizione tra lingua della ragione e lingua della follia; il problema della metropoli con l’immaginario sociale policentrico e polimorfo, l’emarginazione, la soggettività: questi furono tutti appigli teorici di cui beneficiarono le pratiche comunicative e artistiche degli Indiani Metropolitani e dell’ala

36 Salaris, Claudia, op cit., p. 26. 37

Collettivo A/traverso, Alice è il diavolo. Storia di una radio sovversiva, Milano, Shake, 2002, p.15; cfr. Echaurren, Pablo, Parole ribelli. I fogli del movimento del ’77, Roma, Stampa Alternativa, 1997, p. 21; vedi anche Mariscalco, Danilo, op cit., p. 394.

38 Calvesi, Maurizio, Avanguardia di massa, in Avanguardia di massa, Milano, Feltrinelli, 1978, pp. 55-94. 39

Ivi, p. 64.

40

Ibidem.

(11)

11 creativa che gravitò attorno al Movimento del ’77. Nello specifico dell’esperienza dell’ala creativa, inserita nel mondo delle contestazioni, divenne fondamentale l’affermazione di una cultura metropolitana esito dell’alterazione della città in “fabbriche” sperimentali di cultura e socialità: le “merci rare” della produzione nelle città divennero gli individui riuniti in gruppi sociali non più mossi dal lavoro ma dal piacere, non più dalla produzione ma dal consumo. L’ideologia del rifiuto del lavoro stabilì la perdita di senso dell’agire umano nel lavoro salariato, un lavoro inteso prima solo come occupazione del proprio tempo, a cui venne sostituito il concetto di rifiuto del lavoro inteso come un’occupazione dello spazio (la metropoli) in cui si poteva essere liberi di divulgare i desideri individuali42. Alla liberazione degli spazi metropolitani (conquistata con l’occupazione delle università, della case e delle città intere), si affiancò la consuetudine della riappropriazione delle merci secondo la logica di ottenere delle comodità, a cui le giovani generazioni non volevano rinunciare, un altro modo per opporsi al governo dell’austerità e per rivendicare un’eguaglianza sociale.

Il fallimento della parità tra le classi sociali creò un nuovo individuo desiderante, sovversivo e antagonista che si sentì incompreso e discriminato dalla società claustrofobica rappresentata dalla famiglia, dall’economia e dalla politica43

. Enrico Palandri ha raccontato così le esperienze di un giovane bolognese, Boccalone: «La mia macchina di desideri non è sincronizzata con la macchina del lavoro, non è sincronizzata con la macchina dei biglietti dell’autobus, non è sincronizzata con la macchina sociale del giusto e dell’illegale, produce diecimila comportamenti ogni giorno, diecimila domande; sono la sola macchina di cui abbia rispetto, la sola a cui chiedo rispetto, la sola a cui chiedo di vivere meglio, […] tutto ciò che faccio e vivo è oltre la regola, […] la mia vita e la mia città mi appartengono, ché non sono ospite del vostro sistema, ma ché sono derubato del mio, e ché questo vostro modo di morire ogni giorno, scientificamente, davanti e dentro la macchina della tristezza e della repressione, non ha possessori, ma solo posseduti, ché non venderò la vita per un pezzo di pane, ché romperò le vostre macchine, […] inventerò me stesso […] nel linguaggio che ancora ci appartiene, che non è quello dello scambio, il desiderio non conosce scambio, conosce solo il furto e il dono»44.

Gilles Deleuze e Felix Guattari con il libro L’anti-Edipo45 tracciarono il concetto di desiderio, o meglio di macchina desiderante, che nella concezione dell’area della nuova comunicazione e creazione artistica (dal collettivo A/traverso agli Indiani Metropolitani) caratterizzò la cultura del Movimento del ’77. Nel libro l’analisi del desiderio, che veniva soffocato dalla morale e inserito nelle strutture istituzionali e familiari, andava oltre gli studi dello psicanalista Sigmund Freud che, invece, lo includeva nel triangolo

42

Bascetta, Marco, op cit., pp. 102-119.

43 Grispigni, Marco, op cit., pp. 81-84. 44

Palandri, Enrico, Boccalone. Storia vera piena di bugie, Milano, L’erba voglio, 1979; tratto da Ivi, pp. 84-85.

45

Deleuze, Gilles e Felix Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Torino, Einaudi, 1975 [ed. orig.: L’anti-Œdipe, Parigi, Les editions de miunit, 1972].

(12)

12 madre-figlio del complesso edipico. Per Deleuze e Guattari il desiderio era una forza propulsiva che non ammetteva limiti; gli uomini per loro erano macchine desideranti che producvano energia positiva. Questa energia, se oppressa, dà vita allo schizofrenico, così come stava succedendo alla società loro contemporanea; quindi la positività desiderante degli schizofrenici si convertiva in attività rivoluzionaria per affrontare le ideologie e le macchine paranoiche e sociali del capitalismo e delle istituzioni repressive46. L’anti-Edipo segnò il momento di sviluppo completo del pensiero disubbidiente e fu una riproposta umanistica dell’immaginazione, intrecciata con il futurismo e con il surrealismo. Infatti, per Calvesi il legame tra i protagonisti delle avanguardie storiche e gli studenti contestatori fu il senso di demoralizzazione della propria professionalità, una crisi intellettuale che li considerava inutili nel miglioramento nel campo della comunicazione e della produzione. Questa cognizione venne sfidata con l’apporto di nuove funzioni e di nuove identità per gli ideatori comunicativi e figurativi che lavoravano con l’immaginazione proprio in funzione di opposizione al razionalismo scientifico e tecnologico47.

L’opposizione ai metodi borghesi e capitalistici della società moderna venne rilevata anche in un altro libro della coppia Deleuze-Guattari, Rizoma48, dove si affrontava ancora la nozione di inconscio come qualcosa di interpretabile ma che veniva prodotto direttamente dal soggetto (macchina) desiderante secondo un modello a rizoma49 che attecchiva nella società (terreno vitale). Opponendosi alla psicanalisi, che interpretava l’inconscio come una struttura arborescente in cui qualcuno o qualcosa che domina sempre, Deleuze-Guattari immettevano la schizoanalisi l’inconscio in un sistema a-centrico, un rizoma e cioè, per i due, un sistema di macchine autonome50. Questo veniva applicato anche al linguaggio e alla comunicazione51: non era necessario moderare e definire il desiderio inconscio per “creare e vivere”, bensì erano i desideri e l’inconscio stessi a dare forma alla comunicazione linguistica e artistica, e diventavano un tutt’uno con la vita quotidiana, ripudiando l’albero (la norma) e le radici (l’origine)52

.

«Anche il soffiare del vento, un vetro rotto, una frenata brusca, un grido isterico, basterà per scatenare noi pazzi, folli, isterici, ultimi veri metropolitani»53. Il matto, il folle dalla schizoanalisi venne considerato un eretico rispetto all’ordine sociale, soprattutto

46 Salaris, Claudia, op cit., p. 23. 47

Calvesi, Maurizio, Avanguardia di massa, in op cit., pp. 82-84.

48

Deleuze, Gilles e Felix Guattari, Rizoma, Parma-Lucca, Pratiche editrice, 1977 [ed. orig.: Rhizome.

Introduction, Parigi, Les editions de minuit, 1976].

49

«Caratteristiche principali del rizoma: a differenza degli alberi o delle loro radici, il rizoma collega un punto qualsiasi con un altro punto qualsiasi, e ciascuno dei suoi tratti non rimanda necessariamente a dei tratti dello stesso genere, mette in gioco regimi di segni molto differenti ed anche stati di non-segni», in ivi, p. 55.

50 Ivi, p. 49. 51

«All’opposto della grafia, del disegno o della foto, all’opposto dei calchi, il rizoma si riferisce ad una carta che deve essere prodotta, costruita, sempre smontabile, collegabile, rovesciabile, modificabile, ad ingressi e uscite multiple, con le sue linee di fuga» in ivi, p. 56.

52

Ivi, p. 50; vedi anche Salaris, Claudia, op cit., p. 23.

53

Stralcio dal foglio “Finalmente il cielo è caduto sulla terra: la rivoluzione” del marzo ’77; tratto da Calvesi, Maurizio, Avanguardia di massa, in op cit., p. 77. Cfr. Berardi, Franco, Finalmente il cielo è caduto sulla

(13)

13 perché rappresentò un soggetto che non si conformava alla mercificazione dei bisogni umani. Qui si collocava l’antipsichiatria, che considerava la malattia mentale come una scelta dell’individuo per opporsi alla società capitalista, ed ebbe un importante antesignano in Michel Foucault con il libro Storia della follia nell’età classica54 che analizzò le forme dell’inibizione psichiatrica a partire dal Medioevo. La cultura e la pratica della psichiatria fu citata dall’underground e dai movimenti controculturali, e nel ’77 in Italia divenne uno strumento di liberazione individuale e collettivo attraverso la contestazione creativa55.

3.2 L’underground

Le influenze più recenti e probabilmente meno mediate per le pratiche creative e di modalità di vita degli Indiani Metropolitani giungevano da forme culturali “underground” degli Stati Uniti dalla metà degli anni ’50, proprio della beat generation. La cultura underground fu un coacervo di attività ed esperienze creative che si fondò sul rifiuto dell’accademismo e dell’istituzionalizzazione. Forme artistiche come l’happening (che conteneva in sé principi dadaisti, surrealisti, richiami all’action painting e alla pop art) e la poesia divennero modi di adesione collettiva dove la partecipazione del pubblico era fondamentale, sottraendolo alla passività di spettatore/lettore. Esse attivarono l’abolizione delle qualificazioni in campo creativo, e della distinzione tra intellettuale e lavoratore, conferendo all’arte (e in generale alla cultura) un connotato di rivelazione quotidiana e collettiva tale da renderla un costitutivo attivo nella vita di ognuno56. Negli anni ’70 la “nuova” cultura si antepose alla politica dando vita al “movimento”, cioè un corpo creativo e comunicativo con svariati indirizzi, nuovo fronte del dissenso57. Rappresentando forme di malessere ed allontanamento dalla vita politica americana, alcuni gruppi di giovani volevano rinnovare le consuetudini delle società primitive, l’utopia di un’economia comunitaria, la libertà sociale e privata (ad esempio nella riscoperta della cultura delle tribù nativi americani). Mario Maffi nel libro La cultura underground ha tracciato le caratteristiche dell’underground americano che, a sua volta, poi ha esercitato influenze sui movimenti degli anni ’7058 inclusi gli Indiani Metropolitani nelle loro pratiche sovversive di comunicazione e nella liberazione dall’oppressione capitalistica e familiare, intrapresa sia in senso di “fuga” verso lidi estranei alle regole morali ed economiche borghesi (intesa

54

Foucault, Michel, Storia della follia nell’età classica, Milano, Biblioteca universale Rizzoli, 1976 [ed. orig.: Folie et deraison. Histoire de la folie a l’age classique, Parigi, Plon, 1961].

55 Balestrini, Nanni e Primo Moroni, L’orda d’oro 1968-1977. La grande ondata rivoluzionaria e creativa,

politica ed esistenziale, Milano, Feltrinelli, 1997, pp. 599-601.

56

Maffi, Mario, op cit., pp. 27-36.

57

«Si passa dalla politica riformista e settoriale delle organizzazioni studentesche e dalla apoliticità appartata degli hippies, al caotico e frenetico impegno politico su basi che vengono mutuate un po’ da tutto il panorama e da tutta la storia della sinistra: anarchismo, Wobblies, Ho Chi Min, Thoreau, Frederick Douglass e John Brown, Malcom X, Che Guevara, Marx, Lenin, Kim Il Sung, situazionismo, Rosa Luxemburg, Cohn Bendit, Mao Tse Tung […]» da Maffi, Mario, op cit., p.p. 41-42.

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14 come una rifondazione della società in cui vivevano), ma anche in senso di appropriazione dei prodotti del benessere (autoriduzioni, spese proletarie, diritto al lusso).

Dall’inizio degli anni ’60 le neo-avanguardie si estendevano alla massa giovanile attraverso i mass-media utilizzando comportamenti pre-contestativi e di comunicazione già esplorati dalle avanguardie storiche, di cui un esempio lo fornì la cultura hippy59. Mario Maffi ha mostrato che nel giro di quattro anni (1968-1971) negli Stati Uniti ci fu una alterazione nell’ambito del conflitto sociale che assimilò varie forme di politicizzazione favorevoli alla sommossa. Il “Movement” divenne l’aspetto caratteristico di un paese in crisi e in lotta contro il sistema, e che anche senza una guida e obiettivi unitari, si fondò principalmente sull’esperienza comunitaria: gli hippy si trasformarono in yippie60

. Youth

International Party (Yippie!) nacque nel 1967 dalla genialità provocatoria degli attivisti

Abbie Hoffman, Jerry Rubin e Stew Alpert, e dello scrittore Paul Krassner, con l’aggiunta nel tempo di cantanti, poeti, giornalisti e artisti. Gli yippies si dilettarono specialmente nella controcomunicazione, manipolando i messaggi dei mass-media e creando nuovi miti da sostituire a quelli della cultura mainstream: «I miti offrono ai ragazzi un modello con cui identificarsi. I miti dell’Amerika – da George Washington a Superman a Tarzan a John Wayne – sono morti. La gioventù amerikana deve crearsi da sola i propri miti»61. La comunicazione alternativa che negli anni ’70 venne introdotta dai movimenti controculturali, e che venne ripresa nel ’77 dagli Indiani Metropolitani, cominciava proprio da una questione “grammaticale”. Proprio gli yippie introdussero la sostituzione della lettera C velare con la lettera K (secondo l’uso che se ne faceva nella lingua latina e greca): questo fu il primo passo per la denuncia sociale, in senso ostile e dispregiativo della politica e dalla struttura economica della società di allora62. Nel casi degli Indiani Metropolitani, ad esempio, la sostituzione della lettera K fu utilizzata anche per la QU, ma il compito da assolvere nel cambio delle lettere era sempre quello di denuncia alla normalità egemonizzata dal capitalismo e veniva compiuta attraverso forme semplici proprio per arrivare il più velocemente possibile e in maniera netta alla massa. Per ritornare all’esperienza degli yippie, questa fu una un’azione di agitazione quotidiana che ebbe come scopo la comunanza tra la vita di tutti i giorni e l’azione teatrale frutto di una creatività intensa che rinnegò la razionalità e i modelli stabili dalltia società63. Egeria Di Nallo, in

Indiani in città, annotò alcune similitudini tra l’underground americano e la rivoluzione

sociale degli Indiani Metropolitani, facendo riferimento agli aspetti della vita civica e pratiche culturali che nella seconda metà degli anni ’70 in Italia attrassero le nuove generazioni: la politica, la droga, i desideri personali che trovavano il loro scopo nella propulsione comunitaria, l’avanguardismo culturale, il cinema underground, l’ironia.

59

Calvesi, Maurizio, op cit., p. 67.

60

Ivi, pp. 45-46.

61 Rubin, Jerry, Do it. Sceneggiatura per la rivoluzione, [in copertina Do it! Fallo!], Milano, Milano libri

edizioni, 1971, p. 82 [ed, orig.: Do it. Scenarios of the devolution, New York, Simon and Schuster, 1970] ; tratto da Maffi, Mario, op cit., p. 115.

62

http://www.treccani.it/vocabolario/k-k/ consultato il 23 marzo 2015.

(15)

15 Inoltre Di Nallo evidenziò parallelismi anche nel look e nell’abbigliamento dei giovani Indiani del ’77 rispetto agli yippies descritti da Jerry Rubin in Do it! del 1970, oltre i parallelismi di pensiero e pratica di vita, sia come arte e come teatro, sia come accesso gratuito a tutto ciò che si desiderava. In Italia l’ala creativa del Movimento del ’77 denunciava il logoramento della “politika” (intesa come parlamentarismo e gioco di potere) e lo faceva attuando l’immaginazione al potere auspicato dal ’68 francese. Gli spunti immaginifici, creativi, di riappropriazione dell’individualità rivoluzionaria caratterizzarono quel fenomeno culturale che furono (anche) gli Indiani Metropolitani la cui espressività era tipica degli insoddisfatti, dei disadattati e dei dropouts64. Come nell’underground, anche durante il Movimento fu di particolare rilevanza il richiamo alle tradizioni tribali che abolivano i concetti di individualismo e di privatizzazione del fatto politico: la “tribù” degli Indiani Metropolitani travalicò i confini spaziali e linguistici accomunandosi secondo caratteristiche politiche, comportamentali e sociali65.

Il ’77 italiano non solo catalizzò in sé altre culture che fornirono la base per una nuova avanguardia, ma assimilò anche alcune pratiche diffuse dal genere musicale del punk inglese. Band come i Sex Pistol sfidavano la polizia e la monarchia con i loro concerti provocatori; volevano riappropriarsi della musica stonando e abolendo i miscelatori del suono; si autoproducevano per non soccombere alla politica delle case di produzione. Come gli Indiani Metropolitani, il punk declamava il “no future”: non bisognava attendersi nulla dal futuro perché la lotta per la libertà e per il piacere di vivere sarebbe stata soppressa dal capitalismo66.

3.3 Avanguardia di massa

Umberto Eco nell’articolo Come parlano i «nuovi barbari». C’è un’altra lingua:

l’italo-indiano, apparso il 10 aprile 1977 su “L’Espresso”, affrontò la questione di un

nuovo genere di comunicazione nato durante quei mesi che era basato su un nuovo linguaggio non codificabile dai non iniziati. Eco evidenziava che questo linguaggio fosse il fondamento anche di una nuova cultura compresa da pochi giovani, e non inquadrabile da chi deteneva i saperi della cultura “alta”. Il semiologo individuava nella generazione dell’Anno Nove (denominazione che stava a significare un continuo tra le contestazioni del 1968 e quelle del 1977) una modalità di comunicazione e di comportamento che agli occhi di sociologi, politologi, accademici e anche di politici e sindacalisti sembrava un mondo oscuro. Eco si riferiva a tutto ciò che riguardava la nuova “massa” giovanile proveniente dalle assemblee svolte nelle aule universitarie fino alla pratica dell’ironia degli Indiani Metropolitani, al loro linguaggio dissociato, all’impiego di mezzi di comunicazione di massa, alle scritte sui muri, agli slogan o alla musica. L’arte in quel momento non si

64

Di Nallo, Egeria, Indiani in città, Bologna, Cappelli, 1977, pp. 23-25.

65

Ivi, p. 27; vedi anche Maffi, Mario, op cit., pp. 194-195.

(16)

16 formava più nei ristretti ambienti degli artisti – osservava Eco – bensì per strada e così veniva offerta a tutti, discriminando le gallerie, i musei e l’accademia. Artisti divennero coloro che prefiguravano uno stato di crisi totale e mettevano così in discussione le certezze dell’essere umano producendo forme d’arte avanguardistiche, che, per Eco, si avvicinavano al livello di confusione provocato dalle avanguardie storiche. La differenza però qui consisteva nella domanda che ci si poneva di fronte alle rappresentazioni; se all’inizio del Novecento, ad esempio davanti un quadro di Pablo Picasso, i cultori dell’arte (che allora rappresentavano il pubblico) non capivano cosa l’artista volesse rappresentare ma l’opera era decifrata solo da altri artisti d’avanguardia (dunque una sorta di élite); nel 1977 erano gli intellettuali del mondo accademico incapaci di comprendere il linguaggio dei giovani, . mentre questi ultimi erano intellegibili alla massa giovanile A fronte di tutto ciò Eco interpretava la nuova pratica dei creativi del Movimento del ’77 come il progetto di sovversione espressiva dei giovani dell’Anno Nove; la nuova comunicazione divenne praticabile grazie alla proliferazione dei mass-media che produssero altre forme di informazione, specialmente di denuncia, derivate dal malcontento rispetto alla situazione storica ed economica di quel momento. In quest’ultima, specialmente, si collocava una gran parte delle masse giovanili che non si identificava nella società borghese e si sentiva dissociata e divisa dalla realtà che la circondava67.

Calvesi in Avanguardia di massa68 affrontava le tematiche introdotte da Eco, focalizzandosi sulla questione della massificazione della cultura un tempo d’avanguardia, che sarebbe servito come processo oppositore alla società consumistica. In un periodo in cui la vita collettiva veniva guidata dallo sviluppo esponenziale e in tutti i campi della tecnologia, ritornava in auge, grazie agli Indiani Metropolitani, l’utopia artistica delle avanguardie con il loro linguaggio libero, dissociato e provocatorio. Lo storico dell’arte nel saggio confrontava due eventi che si registrarono il 1° febbraio 1977: l’apertura del Centro Pompidou a Parigi e le prime avvisaglie della contestazione studentesca in Italia. Il primo venne definito da Calvesi come l’inaugurazione di un «“supermarket” dell’avanguardia», mentre il secondo venne associato alla comparsa degli Indiani Metropolitani che furono in grado di sviluppare una forte capacità provocatoria. Insieme, Pompidou e Indiani Metropolitani, rappresentarono il connubio tra consumo e ribellione che instaurò un concetto diverso di avanguardia fornendo un nuovo modello da seguire. L’apparente diversità tra Le Centre Pompidou e gli Indiani Metropolitani si dissolveva però considerando che il primo offriva il consumismo come forma di partecipazione culturale massificata (nel senso della partecipazione di un ampio pubblico, non più piccole élite) alla cultura, includendo in questo anche le forme di arte di ribellione. Invece, gli Indiani Metropolitani, anche se individuarono nel superamento delle avanguardie storiche e rivoluzionarie il vero esito della loro comunicazione, promossero il “negazionismo” di

67

Balestrini, Nanni e Primo Moroni, op cit., pp. 608-612. Sulla tematica della liberazione dell’individuo per una società di massa vedi anche Occhetto, Achille, Dialogo sul movimento. I comunisti e l’università dopo i

fatti del marzo ’77, Bari, De Donato, 1978, pp. 72-80.

(17)

17 stampo situazionista e capirono che la forma diretta di esperienza viva dell’arte nella società sarebbe stata la strada giusta da seguire per coadiuvare la ribellione69.

La visione di un’avanguardia di massa doveva considerare specificatamente cosa e chi rappresentasse il termine “massa”. Umberto Eco identificò come “massa” i giovani contestatori; ma la “massa” giovanile che utilizzava l’arte (il nonsense, il gioco, l’ironia) come modalità di contestazione non coincideva nella totalità dei giovani studenti, disoccupati e lavoratori del 1977, bensì indicava coloro che basavano il proprio bagaglio culturale su visioni politiche e intellettuali, a cui si univa la gioventù istruita che nell’ultimo decennio si era sempre più allargata comprendendo anche classi sociali meno abbienti. Inoltre l’argomento affrontato da Calvesi nel saggio Avanguardia di massa sulla nuova comunicazione artistica presupponeva lo sviluppo di una maggiore trasmissione dell’arte, perché i vari strumenti di informazione avrebbero trasformato tutti gli eventi artistici e culturali in canali mass-mediatici. I mass media, appunto mezzi di comunicazione di massa consentivano, allora come oggi, quello che il sociologo della comunicazione Denis McQuail70 considerò una struttura di comunicazione aperta e in grado di raggiungere larghe porzioni di pubblico. Esempi di mass media sono anche tutti quegli strumenti utilizzati dagli Indiani Metropolitani (i fumetti, i giornali, i manifesti murali, tatzebao, scritte, murales, radio e libri) come opere artistico-ribellistiche e mezzi di partecipazione e comunicazione alla portata della collettività. Franco Berardi, detto Bifo, uno degli intellettuali del Movimento del ‘77 che fu tra i fondatori nel 1975 della rivista “A/traverso” e dell’emittente libera “Radio Alice”, riconosceva in uno dei suoi tanti articoli71 proprio come i mezzi di comunicazione alternativa e controculturale rappresentassero i germi dell’ideologia artistica dell’ala creativa del ’77.

69

Naturalmente una differenza sostanziale ci fu successivamente, quando il Pompidou mantenne il suo ruolo di “supermarket” dell’arte contemporanea, mentre il fenomeno degli Indiani Metropolitani si affievolì all’interno dell’arco stesso del 1977.

Calvesi, Maurizio, op cit., pp. 55-56.

70

McQuail, Denis, Sociologia dei media, Bologna, Il Mulino, 2007, 5° edizione

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