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CAPITOLO II

A ORIENTE TRAMONTA IL SOLE DEI DIRITTI CIVILI

II.I Se non sei han, non sei cinese

Il capitolo vuole ricostruire i passaggi che hanno portato alla costruzione della Zhonghua minzu, la nazione cinese pensata come un tutto omogeneo, dal quale ogni differenza poteva e andava eliminata. Per la ricostruzione storica che questo lavoro cerca di offrire è stato seguito il dettagliato articolo di James Leibold, il quale allaccia il discorso cinese sulla nazione a un episodio ben

preciso: l’invasione giapponese della Manciuria nel maggio del 19331. Il Giappone umiliò la Cina e

la Cina si prese la sua rivincita forgiando il proprio profilo di grande stato nazionale. L’umiliazione che la Cina subì la convinse che proprio la sua debolezza come stato-nazione l’aveva portata alla vergogna. E’ a questo senso di rivalsa e dunque a questa voglia di ripresentarsi all’appuntamento con la storia portata dal carro della vittoria che va collegata la scelta del governo nazionalista prima

e di Mao Zhedong poi di edificare una grande, invincibile Zhonghua minzu2.

Questo quadro mostra che la Cina non era poi così distante dall’Europa come la distanza geografica suggerisce. L’Europa degli anni Trenta andò incontro al suo destino di guerra e di morte portata dal vento di un agguerrito nazionalismo che, nella sua versione più estrema e certamente nota qual è quella della Germania nazista, si arrogò il diritto, non umano, di decidere che un intero popolo andasse eliminato. Neanche la Cina fu immune dal virus nazionalistico; negli anni Trenta, come un’epidemia, ne fu a tal punto contagiata che tutt’oggi ne porta i segni evidenti in una politica che con regolarità censura le diversità, nello Xinjiang, come nel resto delle cosiddette “periferie cinesi”3.

I principali assertori del nazionalismo cinese lo considerarono l’arma capace di aiutare il Paese a vincere tutti i suoi nemici, non solo esterni. I loro nomi furono i nomi dei fedelissimi di Sun

1 Per il racconto storiografico degli eventi che generarono una tensione di guerra tra Cina e Giappone si veda J. Baptiste Duroselle, Storia diplomatica dal 1919 ai nostri giorni, LED Edizioni Universitarie, 1998. Cfr. anche G. McCormack,

Chang Tso-Lin in Northeast China, 1911-1928: China, Japan and the Manchurian Idea, California, Stanford, 1977.

2 J. Leibold, Competing Narratives of Racial Unity in Republican China, in “Modern China”, Vol. 32, n. 2, 2006, pp. 181-220.

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In un articolo di qualche anno fa di Limes si sottolineava l’aspetto che ha uno stato pluralistico sottoposto a continue forze centrifughe, come vennero definite le “periferie”. In particolare, se ne individuarono ben undici, ovvero da nord a sud, da ovest a est, Dongbei, Shanghai, il Fujian, il Guangdong, Guangxi, Guizhou, Yunnan, Xinjiang, Tibet, in più Taiwan e Hong Kong, in F. Sisci, Una, Dieci, Mille Cine, in “Limes”, n. 1, 1995, pp. 19-32.

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sen, esponenti del Guomindang o militari del Tongmenghui4. Il fil rouge che ne legò le esperienze ideologiche fu l’idea che il materiale che resiste alle intemperie cui spesso la storia espone fosse l’educazione al senso di nazione che passa per la riscrittura della storia stessa. I manifesti del

movimento, infatti, furono due manuali di storia cinese, ovvero il Dongbei Shigang5 e lo Shiji6

Il Dongbeiera una “sfida” lanciata al modo giapponese di raccontare la storia dei confini orientali

della Cina, ovvero delle zone di confine che chiudevano l’impero Qing. Il Giappone asseriva che queste regioni erano passate sotto il controllo cinese solo dai tempi degli Han e dei Tang ma che fu

un dominio possibile solo in quanto “contrattato” con i governanti locali. Del resto, e questo

interessava maggiormente ai giapponesi, il Giappone aveva ogni diritto sulla Manciuria e sulla

Mongolia; e dunque era pienamente legittimo lo stato protettorato nipponico del Manchukuo7

poiché il suo intervento era stato sollecitato dalle popolazioni locali, stanche dell’oppressione Han. Gli storici nazionalisti cinesi invece volevano dimostrare la legittimità della Wuzu Gonghe, ossia

della cosiddetta repubblica delle cinque razze8 creata dai sovrani Han, e di conseguenza

l’illegittimità dello stato indipendente del Manchukuo e le presunte pretese giapponesi di intervento

umanitario a favore e protezione dei popoli “cinesi” di confine che aspiravano a riprendersi la loro

indipendenza.

Lo Shiji era, invece, un testo ancora più antico, risalente al periodo Han e dunque fonte di ispirazione del più moderno Dongbei. Il libro, prima fonte di ispirazione anche dei nazionalisti del Guomindang, infatti serviva come prova storica dell’unicità della razza cinese, discendente dalla

stirpe comune dell’Impero Giallo, lo shizu (progenitore) comune del popolo sinico9.

L’idea che la fragilità di uno stato si vinca con la forza dell’identità nazionale in realtà era già presente nella testa del “Gigante giallo”, fin da quel lontano 1924 nel quale Sun Yat-sen aveva tenuto un ciclo di lezioni proprio sulla necessità di rispolverare il sentimento di appartenenza con il

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In cinese significa “lega”. Nacque a Tokyo nel 1905 dalla fusione dei diversi gruppi che allora presero a contestare la dinastia mancese dei Qing. Tra i più importanti figuravano la Guangfuhui (Società della Restaurazione ) attiva nel Zhejiang e la Xingzhonghui (Associazione per la Rinascita della Cina) fondata da Sun Yat-sen nel 1894 come corpo militare per restaurare i sovrani cinesi dopo la cacciata degli stranieri (con riferimento ai Qing-Manciù) e instaurare la repubblica. M. Sabattini, P. Santangelo, op. cit., p. 569.Cfr. anche H. Schiffrin, Sun Yat-sen and the Origins of Chinese

Revolution, Los Angeles, Berkley, 1968.

5 Tradotto significa “Bozza della storia della Manciuria”. 6 “Resoconti storici”.

7 Stato fantoccio creato in Manciuria dai giapponesi nel 1932 con a capo l’ultimo imperatore Qing, Puyi. Fu l’inizio della penetrazione militare nipponica in Cina che avrebbe scatenato un vero e proprio conflitto tra il 1938-39.

8 Stato che comprendeva Hui, Han, Manchu, Mongoli e Tibetani.

9 Con lo Shiji Qian cercò di creare una cosmologia che includesse anche i barbari Xiongnu (termine con il quale si soleva indicare i popoli non Han) nella ricostruzione genetica della storia cinese. Infatti, nel capitolo dedicato ad essi scriveva che il loro antenato, lo Shunwei, discendeva dalla dinastia Xia e dunque dai cinesi. Cfr. N. Di Cosmo, Ancient

China and its Enemies: the Rise of Nomadic Power in East Asian History, Cambridge, Cambridge University Press,

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quale ormai la Cina aveva perso confidenza. Tre erano gli elementi base dei quali il Paese doveva tornare in possesso: il minzu jingshen, il minzu sixiang, il minzu yizhi. Spirito, pensiero e coscienza

nazionale, i noti “tre principi del popolo”. Solo così la Cina avrebbe riguadagnato la sua minzu

jiefang, la sua liberazione. Sun riteneva che andasse separato il concetto di nazione da quello di

stato cui in cinese, del resto, ci si riferisce con due termini diversi. La nazione, minzu, è un corpo strutturato su cinque caratteristiche: sussistenza, religione, usanze e tradizione, lingua e sangue. Tra tutte, è il sangue la caratteristica predominante in quanto xiantian (innata nell’uomo); le altre, invece, vanno soggette alla contaminazione della società e i suoi movimenti. Lo stato, guojia, a differenza della nazione, non è opera della natura ma dell’uomo e delle convenzioni sociali dalle quali si lascia dirigere. Per far incastrare col suo pensiero l’idea che la Cina, prima ancora che uno stato, fosse una nazione opera della natura e quindi per non far cadere il castello ideologico che studiatamente aveva messo in piedi, Sun Yat-sen asserì che «è vero che i popoli cinesi di frontiera mostrano delle differenze di costume o di religione o di lingua rispetto ai cinesi Han ma che essi costituiscono una minoranza talmente insignificante dal punto di vista numerico da poter essere tutti chiamati Hanzu, popolo cinese». Del resto, come abbiamo già sottolineato, «in Cina una sola nazione ha creato un unico stato mentre nel resto del mondo una sola nazione ha creato una

molteplicità di stati diversi»10.

Negli anni Trenta i suoi fedelissimi fornirono una base scientifica al discorso del maestro Sun yat-sen attraverso quella distorsione ad hoc della storia che il Dongbei e lo Shiji potevano veicolare. Un passaggio necessario per mettere a tacere i caldi animi dei popoli di frontiera che, sebbene poco numerosi rispetto alla maggioranza Han, tuttavia vivevano in un punto vitale per la Cina per il suo approvvigionamento energetico e dunque per il suo futuro sviluppo come nazione emergente e dominante sul teatro geopolitico internazionale. Se poi la geografia da sola non poteva dimostrare il carattere cinese anche delle terre di frontiera, allora interveniva il legame di sangue che faceva dei

vari popoli “cinesi” un solo, unico, grande popolo, quello che il leader nazionalista aveva definito «a

sheet of a loose sand».

In sintesi, solo la consapevolezza di discendere da un antenato comune e pertanto solo la conoscenza del passato comune può far sviluppare la coscienza di popolo che rende invincibile una nazione, quella Zhonghua minzu, figlia delle tre dinastie gialle cui, fino a un parossismo senza

10 J. Leibold, op.cit. Cfr. M. Esposito, Teorie dello Stato in Cina e in Germania all’inizio del secolo, in “Mondo Cinese”, n. 86, 1994, p. 31ss. Cfr. anche E. Bottazzi, La posizione di Sun Yat-sen di fronte al marxismo e al socialismo, in “Cina 12”, Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente, Roma, 1975.

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limiti, per i cinesi tutta l’umanità è debitrice. Ideologia che, dalla prima repubblica alla PRC maoista, restò un segno distintivo della cultura cinese.

Tuttavia, come sempre accade, ogni ideologia ha bisogno di costruire la sua identità attraverso la

creazione di un nemico; e il nemico dei nazionalisti fu il “Movimento del 4 maggio”11 che con il suo

spirito “individualista” ritardava la catarsi del popolo cinese. Quella catarsi, secondo uno dei principali esponenti del nazionalismo degli anni Trenta, Shao Yuanchong, era la chiave che consentiva alla Cina di aprire tutte le porte del mondo futuro. Ciò che avrebbe fatto grande la nazione cinese, seguendo lato sensu il discorso di Shao, era la ricerca di quel quid che rende unica una nazione rispetto a un’altra; e ciò che avrebbe reso indistinguibile quella cinese sarebbe stato lo

spirito confuciano profuso dalle quattro virtù12. Ma come si arriva alla conquista di questo spirito?

Educando il popolo alla ricerca che porta alla sua conoscenza, per ottenerne coscienza; dunque, il

minzu jiaoyu era il primo passo che avrebbe insegnato alla Cina a camminare da grande potenza; e

pertanto, un passo che essa di certo non poteva dimenticarsi di compiere.

Uguale intento, per mezzi diversi. Se Shao puntò tutto sulla minzu jiaoyu, il suo compagno di partito, Dai Jitao, fu convinto che la partita si giocasse sulle zone di frontiera; è da qui che andava ricostruito il perduto spirito nazionale del tempo delle grandi dinastie; e da qui, dunque, che la nazione cinese andava rimessa in piedi e resa pronta per la resistenza alle potenze straniere che su questo lembo di terra giocavano il loro Grande Gioco imperialistico. Le sue idee costituirono

l’anima del gruppo Xin Yaxiya xuehui, “New Asia Study Society”, del quale fu il fondatore e il cui

organo di punta fu il giornale Xin Yaxiya banyuekan (New Asia Bimonthly), pensato per raggiungere il Nordest cinese partendo dalle idee.

A supporto della storia arrivò l’archeologia. Era il 1929 quando l’archeologo Pei Wenzhong ritrovò i fossili del Sinanthropus pekinensis, un ominide ancora più antico rispetto ai due già noti, ovvero il

Pithecanthropus, ritrovato sull’isola di Java, e l’Homo di Neanderthal, entrambi considerati i

progenitori della stirpe umana. La scoperta fu molto importante dal punto di vista scientifico- e quindi vale la pena di inserirla nella nostra ricerca- poiché veicolò l’idea che proprio il Pekinensis

11 Movimento studentesco che nel 1919 a Pechino radunò una folla di giovani antimperialisti i quali chiedevano che venisse rivisto il Trattato di Versailles, in particolare l’articolo 156 che aveva passato al Giappone le concessioni tedesche sullo Shandong. L’episodio viene considerato la fase iniziale del movimento nazionalistico cinese. V. C. Tse-tsung, The May Fourth Movement, Cambridge, Harvard University Press, 1960.

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fosse il progenitore dell’Homo sapiens e dunque di tutto il genere umano; come a dire, tutti

deriviamo dai cinesi13.

Sulla scia delle scoperte cui si giunse, il processo ideologico subì una nuova accelerazione attraverso il Zhongguo zhi mingyun, noto come China’s Destiny, la Bibbia degli studenti, dei militari e la voce ufficiale di Chiang Kai-shek, modellato attorno al concetto cardine di zhongzu

(razza comune). Di questa Xiong Shili14 ricostruì l’albero genealogico. Nella sua visione i cinesi

erano il frutto di una fusione non violenta tra Han, Manciù, Mongoli, Tibetani e Hui; più precisamente Manciù, Tibetani, Mongoli e Hui erano fenzhi (branche, ossia declinazioni etnologiche) di un progenitore comune, gli Han. Ciò significava che tutti derivavano dal Pekinensis che visse sulle rive del Fiume Giallo circa un milione di anni fa. Tuttavia, come si giustificavano le differenze nei costumi (xi) e nel temperamento (xing) tra queste cinque wuzu (stirpi)? Xiong risolse il problema sfoderando l’asso nella manica di ogni discorso nazionalista, ovvero la spiegazione che «anche da una madre e da un padre nascono figli diversi tra loro, ciascuno con una dotazione naturale diversa. Ciò nonostante oggi l’uomo ha sviluppato le capacità per retroagire sull’ambiente che lo circonda, perciò dalle differenze si può generare un popolo uguale, ossia una solo nazione». A questo punto Leibold fa notare che Xiong tentò un approccio diverso rispetto ai predecessori e costruì una vera e propria cosmologia che si basava proprio sulla scoperta archeologica del Pekinensis. Nello schema del lignaggio cinese egli incluse sei tipi di discendenti: lo shenzhou, cioè quelli rimasti nella terra divina; gli hanzu, cioè l’etnia Han; i manzu, ovvero la linea manchu o hu della discendenza; i mongoli del nord; gli huizu, noti anche come di dello Xinjiang, del Gansu e

dell’Asia centrale; e infine gli zangzu, abitanti del Tibet e del Qinghai15.

Il movimento nazionalistico subì un’evoluzione ideologicache lo portò all’elaborazione di un concetto di minzu meno rigido rispetto a quello di Sun Yat-sen. Con Fei Xiaotong, seguace di Gu

Jiegang16, il movimento nazionalistico è approdato a un concetto di minzu meno rigido rispetto a

13 Leibold, seguendo lo studio di Dikotter, invita a notare la differenza nell’uso dell’Imperatore Giallo come progenitore comune a tutta la Cina tra il movimento Quattro Maggio (che fu il primo a tradurlo al servizio della storia) e l’era repubblicana. Il Quattro Maggio esclude che i Manchu, principale bersaglio dei contestatori, siano parte della nazione, mentre i nazionalisti repubblicani vi includono sia questi che le altre minoranze di frontiera che costituivano il grande Impero cinese, in F. Dikotter, The Discourse of Race in Modern China, California, Stanford University Press, 1992. 14 Xiong Shili, A Hypothesis on the origin of the Zhonghua race, in “Lectures on Chinese History”, Mingwen shuju, 1984, pp. 1-35.

15 J. Leibold, op. cit., pp. 203-205. L’importanza dell’uso dell’archeologia quale argomento sul quale fondare la retorica politica della costruzione della nazione tra Ottocento e Novecento è stata insistita dagli studiosi Kohl e Fawcett. V. P. Kohl, C. Fawcett, Archeology in the service of the State: theoretical considerations, in Nationalism, Politics and the

Practise of Archeology, Cambridge, Cambridge University Press, 1996.

16 Gu fu uno dei principali intellettuali del movimento Quattro Maggio e uno dei primi a mettere in dubbio la ricostruzione ufficiale della storia cinese contenuta nello Shiji, ovvero che i cinesi provengano da uno stesso

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quello elaborato da Sun. Lo si ritiene l’ideatore della zutuan, unità etnica. Lo zutuan, preso in prestito dal linguaggio politico russo, disegnò una figura dinamica dello stato-nazione, nel quale la

comune identità travalicava i confini geografici17. Da Fei fu ispirato un altro affiliato del gruppo di

ricerca di Gu Jiegang, Lu Simian il quale, anziché procedere per sostituzione come Fei, andò per distinzione, tenendo infatti separati i concetti di minzu ( che si costruisce per differenza di costumi sociali e dunque è l’insieme degli aspetti acquisiti dall’uomo) e di zhongzu (razza, che si costruisce per differenza di caratteristiche naturali e dunque innate). Lo stato ideale non è né troppo omogeneo

né troppo eterogeneo ma un corpo etnico- politico che egli definì di “eterogeneità integrata” (heji

cuoza zhi zu), di cui gli Han rappresentano il gruppo dominante18. La dicotomia natura/società-stato che in Europa ha da sempre animato le dottrine politiche non fu estranea, come si vede, nemmeno alla filosofia politica cinese. Questa, nella sua coniugazione ai tardi anni Trenta, restituì l’immagine di uno stato che è sì un’entità omogenea ma anche un corpo forgiato dal lavoro congiunto della natura e della società che con i suoi movimenti crea un mosaico di etnie e popoli e che ciò nonostante può sentirsi nazione perché la nazione va al di là di ogni limite geografico o territoriale. Negli anni del comunismo maoista l’enfasi sulla predominanza dell’etnia Han venne sottolineata e fu sulla base di questo assunto che si procedé all’assorbimento delle minoranze etniche nel regime, dentro il sistema. Per i maoisti, degni epigoni della scuola di Gu Jiegang, la nazione era il prodotto di connessioni e interrelazioni tra etnie ma c’era un passo in più che Gu non aveva compiuto: l’incarnazione dei valori borghesi di cui il capitalismo si alimenta. Mao non parlò solo di minzu, come Sun Yat-sen; sorpassò il concetto di “eterogeneità integrata” di Simian; legò la sua idea di nazione a quella marxista riproposta da Stalin nella vicina Urss, ma nulla cambiò nelle premesse: le minoranze sono tutte cinesi.

storia che erodesse secoli e secoli di stratificazione leggendaria e mitologica. Da qui la sua teoria è anche conosciuta come “teoria della stratificazione” ed eloquente è il titolo della sua opera principale, Gushibian, che in cinese significa “Critica della storia antica”. Per approfondimenti si veda J. Leibold, op. cit., pp. 193-201.

17 F. Xiaotong, The Organization of Hualan Yao Society: a preliminary experiment in social anthropological field of

research, Fuzhou xinhua shudian, 1936, in J. Leibold, op. cit. p. 207.

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II.II L’inossidabile Grande Muraglia giuridica?

Il discorso sulla nazione cinese non si esaurisce nelle asserzioni ideologiche che costituirono propaganda tanto dei nazionalisti quanto dei comunisti maoisti. La presente ricerca, senza pretese di esaustività, prova ad attraversare questa “Grande Muraglia” legale. Una descrizione, sia pur breve, del quadro giuridico si presenta quanto mai utile al fine di costruire una conoscenza che sia il più possibile completa della vicenda dello Xinjiang che qui si vuole raccontare. Non si esporranno i testi costituzionali o quelli delle leggi ordinarie nel dettaglio della lettera normativa ma si porrà l’attenzione esclusivamente sulla parte che in essi è dedicata ai diritti fondamentali, costituendo questi, e non altro, l’aspetto che più interessa le minoranze etniche e lo spazio loro concesso nella

“Terra di Mezzo”19.

Prima di procedere a un esame contenutistico pare opportuno fornire una scheda temporale delle Costituzioni che hanno scandito il percorso normativo cinese dall’epoca maoista ai giorni nostri. La prima Carta costituzionale risale al 1954 e fu seguita da altri tre esperimenti della stessa natura, ovvero quelli del 1975, del 1978 e del 1982 (cui seguirono tre importanti revisioni tra il 1998 e il 2004), tutti in continuità con il primo e rappresentanti stadi diversi di socialismo. La Costituzione del 1982 è quella che in questa sede interessa prendere in considerazione, essendo il testo attuale che regge l’impalcatura giuridica cinese dei diritti elementari; tuttavia, un veloce excursus su ciascuno dei testi su menzionati consentirà di leggere più agevolmente l’evoluzione che la tutela dei medesimi ha avuto.

L’impostazione generale del testo costituzionale del 1954 ricalcò il modello socialista sovietico, nonostante le differenze evidenti nella scelta di alcune formule propriamente cinesi piuttosto che

russo ispirate20. Il Preambolo21 definiva la Cina «una grande famiglia di nazionalità libere ed

eguali» ed era seguito da quattro capitoli, uno dei quali dedicato a “Diritti e doveri fondamentali dei

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In cinese è questo il nome con il quale ci si riferisce allo Stato che noi comunemente chiamiamo Cina, traduzione di Zhongguo. In origine il termine indicava gli stati centrali sviluppatisi attorno al Fiume Giallo; l’uso per definire la Cina risale al periodo dell’unificazione della zona che va dal deserto del Gobi al Mar Giallo, in F. Sisci, Una, Dieci, Mille…, cit.

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L’allusione è alla Costituzione socialista dell’URSS del 1936 che instaura la peculiare forma di Stato della “dittatura del proletariato”. Nella Costituzione cinese per connotare la dittatura socialista la si definì popolare democratica diretta. Una delle differenze di fondo riguardò, dunque, la reinterpretazione del marxismo-leninismo in chiave smaccatamente cinese, con una lenta socializzazione della proprietà privata e di quella agricola attraverso le cooperative. Pertanto, prima del ripudio del principio di legalità avvenuto con la Rivoluzione culturale, le trasformazioni economiche non ebbero lo stesso impatto radicale che avevano avuto, per esempio, sui kulaki ucraini. Si veda Associazione Italiana dei Costituzionalisti, www.aic.it.pdf.

21 «Tutte le etnie del nostro paese sono unite in una grande famiglia di nazionalità libere ed eguali. Questa unità continuerà a rafforzarsi, fondata così com’è su amicizia e mutuo aiuto sempre crescenti e sulla lotta contro l'imperialismo, i nemici pubblici del popolo all'interno delle minoranze e lo sciovinismo sia Han che locale. Nel corso dello sviluppo economico e culturale lo Stato si preoccuperà dei bisogni delle diverse etnie e dedicherà la massima attenzione alle peculiari caratteristiche dello sviluppo di ognuna».

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cittadini”22, il primo vero habeas corpus della storia cinese23. Una certa attenzione merita l’articolo 77 sulla tutela giuridica delle minoranze, le quali avevano diritto a partecipare a processi giudiziari che si svolgessero nella loro lingua, che doveva essere usata per ogni atto relativo al processo, come

ad esempio le sentenze24. Dopo l’infelice parentesi di regressione giuridica operata dalla Legge

fondamentale del 1975, che condensò le libertà fondamentali in due soli articoli25, nel 1978 la

rinnovata élite del PCC considerò indispensabile recidere il cordone ombelicale con il passato; e quest’operazione non avrebbe avuto credibilità se non si fosse intervenuti a sanare gli errori

compiuti nella precedente redazione26, «ricercando la verità», come disse lo stesso Deng Xiaoping.

Il regime iniziò a convincersi che la sua stabilizzazione andasse affidata a un consono e strutturato sistema giuridico di sostegno; e in questa prospettiva il processo costituzionale rappresentò una novità nella tradizione giuridica cinese. Nel 1982 innovativa fu soprattutto la decisione di rovesciare la struttura che aveva contraddistinto le versioni precedenti, anteponendo la parte sui diritti fondamentali a quella relativa all’organizzazione dello Stato. Deng puntò a svecchiare il progetto

socialista fino ad allora seguito27, presentando un socialismo “liberale” che si attagliasse a

quell’incontro con l’Occidente che la politica del gaige kaifang28 aveva accuratamente preparato.

Con in tasca un programma per “quattro modernizzazioni” 29e una Costituzione che avrebbe dovuto

convincere della bontà politica di rompere per sempre con il periodo maoista, Deng trasformò la

Cina dall’ormai fuori moda “dittatura del proletariato” in una “dittatura popolare” più di buone

maniere30. Nessun dettaglio fu trascurato. La nuova Cina non era solo una dittatura che cambiava

nome; insieme alla forma, cambiava la sostanza e così diventava democratica. Stessa forma di Stato servita in salse diverse per quei partner commerciali che il rinnovato PCC desiderava attirare,

vecchi eredidi quella cultura liberale che sosteneva diritti e libertà. In realtà di democratico restò

22 Gli altri erano: 1)Principi generali; 2)Struttura dello Stato; 3)Bandiera nazionale e Capitale. Nel complesso erano quattordici gli articoli relativi alle libertà fondamentali. La Costituzione garantiva inoltre la rappresentanza delle minoranze presso l’ANP, ossia l’Assemblea Nazionale del Popolo, organo supremo dello stato cinese, e presso gli organi di autogoverno nelle aree di autonomia dei gruppi etnici (articoli 54-72).

23 Il Programma Comune del 1949 riconosceva i diritti civili e politici del popolo ma non dei cittadini. 24

A esso corrisponde, nella Costituzione del 1982, l’articolo 134.

25Per una lettura approfondita si veda C. Donati, F. Marrone, F. Misiani, Stato e Costituzione in Cina, Mazzotta, Milano 1977.

26 In questi anni il popolo cominciava a chiedere che fosse realizzata la “quinta democratizzazione, ossia un sistema più democratico. Questa, come altre richieste, venivano affidate ai dazibao, ovvero i manifesti murari su cui il popolo stesso esprimeva le proprie opinioni politiche e giudicava l’operato del governo. Tra i più noti ci sono quelli del cosiddetto Muro della Democrazia a Pechino. Si rimanda al sito www.aic.it.pdf.

27 «In molte parti è inadeguata rispetto alle esigenze della gente riguardo alla modernizzazione», affermò il Comitato Permanente per la revisione della Costituzione del 1978.

28 “Apertura e riforme”. Si scelse un approccio più occidentale alla questione giuridico-costituzionale. 29 In agricoltura, industria, tecnologia e difesa nazionale.

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solo l’ossimoro che si venne a creare. Una dittatura è pur sempre una dittatura e le dittature sono la negazione dei diritti per antonomasia.

Questa è la matassa che la nostra trattazione vuole provare a dipanare. Analizzare l’evoluzione dei diritti fondamentali per comprendere se e in che misura ne fu data garanzia alle minoranze che affollano il variegato panorama etnico cinese. La pertinenza di un discorso sulle varie Costituzioni che hanno guidato la Cina nel suo cammino storico è pertanto presto giustificata. Tuttavia il de iure non viaggia quasi mai in armonia col de facto. Il testo costituzionale per la prima volta definì l’inviolabilità di alcuni diritti, come la libertà personale (art.37) e ne riconobbe altri considerati fondamentali. Tuttavia, accordò la precedenza a taluni trascurandone altri, fondamentali per il sistema giuridico liberale occidentale. Poco importante fu ritenuto quello di associazione e riunione; per esempio non compariva un diritto di sciopero vero e proprio ma solo la possibilità di proporre critiche a qualsiasi organo dello stato o suo funzionario (art.41). Di fatto poi, il godimento di questi diritti non era assoluto; infatti se il superiore interesse dello Stato lo avrebbe richiesto, essi potevano

andare soggetti a sospensione. Nel diritto comparato si usa il termine “modello asiatico” di tutela31,

un modello che configura una dimensione collettiva di diritti e doveri e che deriva perlomeno da due elementi tradizionali della cultura sinica:

• il confucianesimo, impostato su una visione rigida dei rapporti sociali nei quali l’individuo

vale solo in relazione con l’altro, poiché è attraverso questo scambio sociale che egli può migliorare le proprie virtù; perciò prima ancora che avere dei diritti, l’individuo ha dei doveri sociali che non può rifiutarsi di adempiere;

• la società feudale: corrisponde a una configurazione gerarchica dei rapporti sociali che stride

con il principio di eguaglianza che imposta le democrazie liberali32.

Il principio guida di tutte le Costituzioni cinesi è stato il Tian Ming33 che ancora oggi giustifica e

legittima la sovranità e il potere e che corrisponde alla vecchia categoria politica del mandato divino. Senza perdere di vista il tema centrale di questo lavoro, si presenta di seguito un elenco dei

principali diritti la cui mancanza di garanzia viene oggi denunciata a livello internazionale34. Nello

specifico l’assenza di una adeguata tutela viene lamentata circa il diritto di espressione, artt. 35 e 41, e quello di libertà religiosa, art. 36. Si sottolinea che quando si parla di “tutela inadeguata” ci si

31 web.jus.unipi.pdf.it.

32 La Conferenza regionale asiatica di Bangkok del 1993 ne è stata la cassa di risonanza: disciplina, armonia sociale, governo come promotore dello sviluppo economico, insomma il bene comune, il buon governo e l’unità nazionale hanno la precedenza sull’individuo, poiché tutti questi elementi conducono all’armonia che deve dominare il caos. 33 Significa “mandato celeste”. URL: http://www.acmuller.net/con-dao/analects.html.

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riferisce al campo giuridico del de facto, nel senso che a essere problematico è l’esercizio effettivo di tali libertà. Dal punto di vista formale l’impalcatura costituzionale è ben costruita, se si prendono a riferimento i criteri dell’ingegneristica giuridica occidentale. Il leitmotiv delle Costituzioni cinesi, dalla nascita della Repubblica Popolare in poi, infatti è l’uguaglianza fra i gruppi etnici, principio che nella Carta fondamentale che stiamo esaminando (quella del 1982) è sancito dall’articolo 4 dei

Principi Generali35. Tale assioma giuridico si trova declinato in varie forme, cioè l’uguaglianza

davanti alla legge (articolo 33), i diritti politici e di conseguenza la partecipazione su un piano egualitario di tutti i gruppi etnici all’ amministrazione degli affari di Stato, la tutela dell'inviolabilità della libertà personale e una serie di libertà accessorie ma non meno importanti, quali quella di preservare o riformare i propri usi e costumi, di usare e sviluppare le proprie lingue scritte e parlate o di scegliere la propria religione. Però concretamente questo uguale peso all’interno della

Repubblica Popolare Cinese dipende dalla regola della “ragionevolezza” che, se si sceglie come

parametro di ragionamento, può ammettere e giustificare una discriminazione, qualora sia percepita

come “necessaria”. In altre parole la discriminazione è lecita, se dovessero esserci “ragionevoli

motivi” per ritenere che sia giusto applicarla; per esempio per tutelare l’unità dello Stato. Passiamo ora brevemente in rassegna i diritti la cui tutela sostanziale viene internazionalmente contestata. Nel proclamare la libertà di espressione la forma è usualmente impeccabile. Nessun riferimento alla censura e lo Stato non pare attribuirsi questo diritto speculare. Tuttavia, c’è tutto un elenco di disposizioni che presto ne annullano ogni valore. E allora va bene la censura se può preservare «

l’unità della nazione»36, che si conserva e tutela attraverso il «segreto di Stato»37, la cui

divulgazione è pertanto severamente punita dal diritto penale cinese38.

35 «Tutte le nazionalità della RPC sono eguali; lo Stato ne protegge i legittimi diritti e interessi; proibisce qualunque forma di discriminazione e oppressione nei confronti di ciascuna nazionalità e qualsiasi atto che rechi danno all'unità o che istighi alla secessione; si impegna ad aiutare le aree abitate dalle minoranze a velocizzare il proprio sviluppo economico e culturale tenendo conto delle caratteristiche e delle esigenze specifiche di ciascuna di esse. Lo Stato, inoltre, riconosce l’autonomia regionale e la libertà di tutte le nazionalità di impiegare e sviluppare le proprie lingue e di preservare o riformare i propri usi e costumi».

36

Art. 52. 37 Art. 53.

38 Si riporta il testo completo degli articoli 40 e 41. L’articolo 40 sancisce che : «La libertà di corrispondenza e il segreto di corrispondenza dei cittadini della Rpc sono protetti dalla legge. Tranne l’ispezione della corrispondenza per esigenze di sicurezza dello stato o di indagini su reati criminali da parte degli organi di sicurezza o degli organi di procura, secondo le procedure prescritte dalla legge, nessuna organizzazione e nessun individuo deve violare, per qualsiasi motivo, la libertà di corrispondenza e il segreto di corrispondenza». L’articolo 41 stabilisce invece che «I cittadini della Rpc hanno il diritto di proporre critiche e suggerimenti riguardo a qualsiasi organo statale o membro del personale statale, hanno il diritto di ricorrere, e di accusare o denunciare, agli organi statali attinenti, gli atti di illegittimità e inadempienza da parte di qualsiasi organo statale o membro del personale statale; tuttavia non si deve accusare falsamente, inventando o stravolgendo i fatti. Gli organi statali competenti devono accertare i fatti riguardanti ricorsi, accuse o denunce dei cittadini, e devono provvedere con responsabilità. Chiunque non deve soffocare tali

(11)

Uno dei diritti centrali nella questione delle minoranze, e dello Xinjiang a maggioranza musulmana, è certamente quello relativo al credo religioso che, come tutti quelli su esposti, non ha un carattere assoluto. Può infatti essere sospeso se costituisce minaccia all’unità dello stato o se si intromette nell’educazione statale, perché allora in ciascuno di questi e altri simili casi non ha più diritto di essere un diritto. Per lo Stato la libertà religiosa è una di quelle che più vanno controllate per evitare il pericoloso separatismo delle zone di confine; uno dei “tre mali” assieme a terrorismo ed estremismo che Pechino teme proprio perché potrebbero far saltare il fragile equilibrio su cui l’unità dello stato cinese si regge. Infatti se da un lato viene ribadita la non interferenza dello Stato nella fede personale che ciascuno è libero di scegliere, dall’altro però viene sottolineata la legittimità dell’azione statale contro tutte le attività religiose «non normali» e contro l’ingerenza dei poteri stranieri. Il testo dell’articolo, riportato in nota, aiuterà a comprendere meglio il ruolo che in questo

modo lo Stato si ritaglia nel delicato affare religioso39.

Ai fini dell’osservazione del trattamento riservato alle minoranze e della dignità di popolo che a esse viene o meno riconosciuto è utile fare cenno alle revisioni costituzionali che hanno preceduto l’ultima e più importante del 2004. Nel 1988 furono introdotti alcuni diritti reali a tutela della proprietà privata ma il sistema economico venne perfezionato dalla successiva riforma del 1993. Tuttavia bisognò attendere ancora sei anni perché si potesse iniziare a parlare di stato di diritto, anche se in forma molto embrionale. Nel 1999 infatti un nuovo progetto di riforma sembrò mettere

la Cina sulla strada verso l’Occidente40 sancendo il principio del «governo della legge». La

revisione del 2004 sembrò finalmente la meta del viaggio della PRC sulla strada dei diritti. In realtà, il IV emendamento non ha mai preso il binario giusto. Ha riconosciuto l’esistenza di diritti inviolabili (la Costituzione parla di shen sheng sacri bu ken) ma non il valore che questi diritti hanno. Il senso di nazione cinese è ancora molto forte per rincorrere un diritto che sia anche sostanziale. A incarnare la nazione, l’unica, integra nazione cinese è ancora il Partito Comunista, in

ricorsi, accuse o denunce, e vendicarsi con rappresaglie. Coloro che hanno subito perdite per violazioni ai diritti dei cittadini da parte di organi statali o di membri del personale statale hanno diritto al risarcimentoۚ».

39 Articolo 36: «I cittadini della Rpc hanno libertà di credenza religiosa. Nessun organo statale, nessuna organizzazione sociale e nessun individuo deve costringere i cittadini ad avere una credenza religiosa o discriminare tra cittadini che hanno una credenza religiosa e cittadini che non hanno una credenza religiosa. Lo stato protegge le attività religiose normali (zhengchang). Nessuno deve usare la religione, e danneggiare l'ordine sociale, nuocere alla salute dei cittadini, ostacolare l'ordinamento educativo dello stato. Le associazioni (tuanti) e gli affari religiosi non vengono manovrati (zhipei) da influenze straniere».

40

Zheng Dejiang, Presidente del Comitato Permanente dell’Assemblea Popolare Nazionale, nel 2013 affermò che andava promosso lo stato di diritto e l’attuale presidente della PRC, Jinping, allora parlò di realizzazione di una vita migliore per tutti all’interno della Cina. Entrambi i discorsi furono riportati dall’Agenzia Xinhua, http://news.xinhuanet.com/english cui rimanda www.aic.it.pdf.

(12)

virtù della teoria della “rappresentanza tripartita o delle tre rappresentanze” di Jiang Zemin (2000)41. Leggendo il testo riformato si potrà notare come non sia occorso alcun cambiamento rispetto alla redazione del 1982; e ciò né dal punto di vista formale, essendo rimasta identica la struttura e il numero di articoli, né dal punto di vista sostanziale, poiché la politica etnica cinese ha mantenuto il profilo delineato nella versione precedente. Nonostante l’approccio più universalistico ai diritti

umani42, niente di nuovo è accaduto sotto il sole d’Oriente. I diritti umani sono diritti universali ma

per la Cina, purtroppo, spesso sono solo uno strumento che può essere smontato e ricostruito a seconda dell’uso che bisogna farne oppure libertà troppo larghe che vanno tenute sotto stretto controllo per preservare il futuro di potenza della nazione, figlia dell’intramontabile Impero di

Mezzo43. Comunque va dato atto alla Carta costituzionale del 1982 di aver ulteriormente allargato i

diritti previsti da quella del 1954, della quale ha ricalcato l’impostazione generale, aprendosi con un

Preambolo44 che ribadisce l’uguaglianza tra le varie nazionalità cinesi. La parte relativa alle libertà

è il Capitolo II, “Diritti e Doveri fondamentali dei cittadini”. Di questa fanno parte gli articoli 33 e 34 che potremmo paragonare all’articolo 3 della nostra Costituzione quanto alla portata del concetto di uguaglianza, sebbene quest’ultima vada intesa più in senso meramente formale che sostanziale. Infatti l’articolo 33 recita sì che «i cittadini della RPC sono uguali davanti alla legge» ma il successivo è scarsamente leggibile come impegno reale alla rimozione degli ostacoli che impediscono di esercitare un “diritto pieno” (l’articolo 34 in questione disciplina il diritto di voto,

essenza di ogni democrazia)45. L’uguaglianza viene ribadita anche dall’articolo 37 sull’inviolabilità

della libertà personale, con cui lo Stato s’impegna ad assicurare i diritti delle minoranze e a

41

«Il partito comunista interpreta le istanze di forze produttive, popolo e cultura». 42 http://www.studiperlapace.it/view_news_html?news_id=20060816174038.

43 Anche nella giustizia la Cina si caratterizza per avere un approccio peculiare in cui i rapporti con gli altri non si regolano attraverso i tribunali ma attraverso la conciliazione confuciana che deve impostare le relazioni sociali. Non ha ancora ammesso le colpe per la strage di piazza Tienanmen, come le è stato ripetutamente chiesto di fare dall’ONU. Per una conoscenza approfondita del sistema cinese si suggeriscono R. David, I grandi sistemi giuridici contemporanei, Cedam, Padova, 1980 e M. Miranda, La democrazia in Cina, le diverse formulazioni dagli anni ’80 a oggi, Orientalia, Roma, 2013

44

«La Cina è uno dei Paesi con la più lunga storia nel mondo. I popoli di tutte le nazionalità in Cina hanno contribuito alla creazione di una straordinaria cultura e hanno una gloriosa tradizione rivoluzionaria. La vittoria della rivoluzione di una nuova democrazia e i successi del socialismo sono stati ottenuti dal popolo cinese di ogni nazionalità, sotto la guida del partito comunista, attenendosi alla verità e correggendo gli errori per costruire il nostro Paese, affinché diventi uno stato socialista prospero, democratico e culturalmente avanzato». Cfr. www.aic.it.pdf.

45 L’articolo 33 sancisce che «Sono cittadini della Rpc tutte quante le persone che possiedono la cittadinanza della Rpc. I cittadini della Rpc sono tutti allo stesso modo uguali davanti alla legge. Qualsiasi cittadino gode dei diritti determinati dalla Costituzione e dalle leggi; allo stesso tempo deve adempiere ai doveri determinati dalla Costituzione e dalle leggi». L’articolo 34 precisa che «I cittadini della Rpc che hanno compiuto i 18 anni hanno il diritto di voto attivo e passivo, senza distinzione di nazionalità, razza, sesso, occupazione, origine familiare, credenza religiosa, livello educativo, situazione patrimoniale, limiti temporali di residenza; ma sono esclusi quanti sono privati dei diritti politici in conformità alle norme di legge».

(13)

proteggere e sviluppare l’uguaglianza e l’aiuto reciproco tra le nazionalità46. Infine una ulteriore espansione legale rispetto alla Costituzione del 1954 è costituita dagli articoli dal 112 al 122 (sezione VI, capitolo III) sugli “Organi di Autogoverno delle Aree Autonome Nazionali” (cinque articoli in più in confronto alla Carta del 1954). Dopo aver stabilito che «assemblee popolari e governi popolari di regioni, prefetture e contee autonome sono gli organi di autogoverno delle aree autonome nazionali» (articolo 112), la Costituzione procede stabilendo che tutte la nazionalità

devono esservi rappresentate47 e che in linea di massima tali organi «esercitano il diritto

all'autonomia» (che consiste, stando alla lettera degli articoli seguenti, in potere di amministrare autonomamente la finanza, lo sviluppo economico locale in linea con i piani di sviluppo economico statale, gli affari relativi ad istruzione, scienza, cultura, sanità pubblica ed educazione fisica), organizzano e proteggono l'eredità culturale delle minoranze e lavorano per lo sviluppo e la prosperità delle proprie culture; inoltre essi possono impiegare la lingua o le lingue di uso comune nella propria località»; hanno diritto di implementare leggi e politiche statali alla luce della situazione locale esistente ma sempre entro i limiti di autorità prescritti dalla Costituzione stessa, dalla Legge per l'Autonomia Regionale Nazionale e da altre leggi statali (articolo 115). Pertanto pare logico concludere che, se

da una parte lo Stato sostiene lo sviluppo delle aree abitate da minoranze etniche48, tutelandone

sulla carta alcuni diritti importanti, dall’altra sottolinea con forza che «tutte le località ad autonomia etnica (minzu) sono parti della PRC e che non possono secedere (buke fenli)», ovvero che lo Stato è uno ed è la Repubblica Popolare Cinese.

46

«La libertà personale dei cittadini della Rpc è inviolabile. Nessun cittadino viene arrestato se non interviene l'approvazione (pizhun) o la decisione (jueding) della procura del popolo, oppure la decisione della corte del popolo, e inoltre (l'arresto) è eseguito dagli organi di sicurezza. Le nazionalità (minzu) della Rpc sono tutte quante uguali. Lo Stato assicura (baozhang) i diritti e gli interessi legittimi di ciascuna minoranza etnica (shaoshu minzu), protegge (baohu) e sviluppa l'uguaglianza, l'unità, l'aiuto vicendevole tra le nazionalità. È vietato discriminare e opprimere qualsiasi nazionalità, è vietata qualunque azione che saboti l'unità delle minoranze e che fomenti divisioni tra le nazionalità».

47 Articolo 113: «All'interno delle assemblee popolari di regioni, prefetture e contee autonome, oltre ai deputati della nazionalità o delle nazionalità che esercitano l'autonomia regionale, anche le altre nazionalità abitanti nell'area hanno diritto ad un'adeguata rappresentanza. La presidenza e la vice-presidenza del comitato centrale dell'assemblea popolare di una regione, prefettura o contea autonoma dovrà includere uno o più cittadini della nazionalità o delle nazionalità che esercitano l'autonomia regionale nell'area interessata».

48

«Lo Stato, secondo le caratteristiche e le esigenze di ciascuna minoranza etnica (genju), aiuta ogni area (diqu) di minoranze etniche ad accelerare lo sviluppo economico e culturale. In ogni località (difang) dove una minoranza etnica dimora compatta si attua l'autonomia del territorio (diyu), si istituiscono gli organi di autonomia, si applicano i poteri di autonomia».

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Che posto ha il mio Dio? La libertà di religione.

La Cina è un Paese con grandi differenze per quanto riguarda le fedi religiose. Le principali sono il Buddismo, il Taoismo, l'Islam, il Cattolicesimo e il Protestantesimo. Il governo cinese sostiene e incoraggia i circoli e le confessioni religiose a unirsi nella partecipazione attiva alla costruzione del Paese nell’ottica che ciascuna possa servire la società e promuovere il benessere del popolo. Perciò non esiste una religione che abbia più diritti di un’altra; in altre parole, non esiste religione di stato. Sappiamo che non c’è diritto nominale che possa dirsi effettivo se non passa per l’esercizio della relativa libertà; e in uno Stato non c’è tutela più grande per questa libertà di quella garantita dalla

sua Legge suprema, la Costituzione. L’articolo 36 sulla libertà di religione recita: I cittadini della

Repubblica popolare cinese godono del diritto alla libertà religiosa. Nessun organo di Stato, organizzazione pubblica o individuale può costringere i cittadini a credere o a non credere in una religione; né può fare discriminazioni nei confronti dei cittadini che credono o che non credono in una religione. Lo Stato protegge le normali attività religiose.

Fermandoci alla lezione di civiltà dell’articolo sembrerebbe che la Cina sia equiparabile ai più illuminati stati di diritto del nostro secolo. L’ultima parte tuttavia restituisce una natura di stato più imbarbarita e semina il vulnus che contamina ogni programmatica intenzione. Infatti essa ricorda che la religione è una “proprietà” della quale lo Stato può disporre e che essa sarà trattata da nemico qualora sconfinasse in un territorio che lo stato medesimo ritiene non attraversabile, come il sistema educativo. Perciò «nessuno può fare uso della religione per svolgere attività che disturbino l'ordine pubblico, danneggino la salute dei cittadini o interferiscano con il sistema educativo dello Stato. Le organizzazioni religiose e gli affari religiosi non sono soggetti a nessun controllo straniero». L’articolo 28 chiarisce la natura relativa della libertà religiosa nella misura in cui prevede che possa essere sospesa per «turbamento dell’ordine pubblico o attentato alla sicurezza nazionale».

Un elenco di leggi perfezionano tale disegno: il codice civile, la legge sull’istruzione obbligatoria, la legge elettorale e quella sulle autonomie regionali. Ognuna pone attenzione al concetto di non discriminazione in ragione della fede professata, sancendo per esempio che l’istruzione è parimenti un diritto di tutti, sciolto da ogni legame con il proprio credo religioso; oppure che ogni gruppo etnico deve rispettare le lingue, i costumi, le abitudini e le convinzioni religiose degli altri. Perfino la legge che regola la pubblicità stabilisce che nessuna pubblicità abbia un contenuto tale da poter ledere la sensibilità di un gruppo etnico o religioso. Resta il fatto, tuttavia, che sia il governo cinese a regolare in concreto l’attività religiosa, compresa quella degli stranieri, «liberi di professare la fede che vogliono ma sottoposti alle regole giuridiche cinesi».

(15)

Molto utile al fine di farsi un’idea quanto più possibile completa sul trattamento che lo stato cinese

riserva alla categoria religiosa è l’analisi di tre direttive emanate da Jiang Zeminnegli anni Novanta.

In ordine,

-“Procedura di registrazione per le sedi di attività religiose”, emanata dall'ufficio affari religiosi del Consiglio di Stato il 1 maggio 1994. In base a essa, una volta che il luogo sia stato registrato conformemente alla legge, i suoi diritti e interessi devono essere protetti dalla legge e possono essere fatti valere in giudizio in caso di lesione. Le assemblee del popolo coadiuvano i vari dipartimenti nella gestione dell’agenda religiosa.

-“Supervisione delle attività religiose di stranieri in Cina”, provvedimento n. 144 del Consiglio di Stato del 31 gennaio 1994;

- “Gestione dei luoghi per le attività religiose”, provvedimento n. 145 del Consiglio di Stato del 31 gennaio 1994.

Il ruolo che il governo cinese si ritaglia è quello di un tutore che deve guidare positivamente le religioni per adattarle alla società socialista. Ruolo paternalistico confermato in una recente dichiarazione (non succedeva dal 1990) con la quale sembra essersi sentito in dovere di ribadire che «la religione è un importante elemento del partito e della nazione; che il nostro Paese conduce una politica di separazione fra politica e religione; e che se le materie e le attività religiose sfiorano l'interesse nazionale o l'interesse pubblico, allora è necessario che esse siano condotte sotto la

supervisione della legge»49. L’intento del lavoro presente non è certamente giuridico, benché

l’ambito di legalità all’interno del quale è concesso alle minoranze di muoversi non possa rimanere inesplorato, qualora ci si voglia addentrare in una realtà complessa come quella dello Xinjiang. L’analisi non sarà esaustiva se non accennando brevemente al codice penale, dal momento che la religione può addirittura essere punita con l’arresto. La religione imputata dall’articolo 300 del codice penale cinese è la fede a uso di «attività superstiziosa o segreta» e dunque sediziosa; tale attività è punibile con l’arresto dai tre ai sette anni (come sanzione ordinaria), fino a un minimo di sette anni ( nei casi più gravi)

Tra i casi più gravi spiccano:

1. collaborazione con gruppi stranieri,

2. istigazione dei fedeli alla sottrazione agli obblighi nei confronti dello stato:

3. proselitismo anche a mezzo stampa;

(16)

Tali attività sono oltremodo considerate gravi- e dunque sanzionabili- se svolte nelle province e nelle regioni autonome direttamente controllate dallo stato.

L’approccio cinese alla religione non è quello tipico e usuale degli Stati di diritto. E’ corrotto dall’ossessione maniacale del controllo e dalla convinzione che dietro il culto possa mascherarsi quel pericoloso settarismo che minaccia di dividere la Cina. Tollerare le varie fedi religiose altro non è che stare continuamente esposti al rischio di sovvertimento dell’ordine socialista, rischio

insito in ogni possibile «falsa credenza», come spesso la religione viene valutata50. Una paura

talmente grande che nemmeno l’attività religiosa degli stranieri sul territorio cinese può andare esente dall’avere un certo ordine. L’arma di ogni religione che spaventa la Cina, qualunque essa sia, di cittadini o di stranieri, è il proselitismo; perché la Cina deve restare una incrollabile grande Nazione. Il sospetto rende inquieta l’anima del “Gigante giallo”, come ben dimostra il “Regolamento per gli affari religiosi” del 7 luglio 2004. Anche qui lo Stato, rimessa la maschera paternalistica di protettore dei diritti umani, sale sul palcoscenico a ricordare che l’ordine pubblico, il sistema educativo, l’interesse generale, in una parola lo Stato stesso viene prima di qualsiasi diritto fondamentale. Perché i cinesi sono un popolo solo che la religione non può far sentire diviso. Perciò, un conto è concedere l’autonomia, un altro riconoscere l’indipendenza. L’autonomia fa ancora lega con il controllo statale; non così l’indipendenza, perché essere indipendenti significa

essere liberi e la libertà è un lusso che le minoranze cinesi, chissà quando, potranno permettersi51.

50 L’art. 300 del codice penale cinese in talune circostanze parifica la religione a “falsa credenza”. 51 http://blog.giuri.unibo.it/ecclesiastico/wp-content/uploads/2012/11/situazione-cina.pdf.

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