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Male fisico e sofferenza

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Academic year: 2021

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Male fisico e sofferenza

La questione riguardante il male fisico non è, nella Teodicea, al centro dell'attenzione di Leibniz. Tuttavia la rilevanza, anche in sede filosofica, di tale questione non era misconosciuta dal filosofo di Lipsia: la legittimazione del disinteresse nei confronti delle tematiche correlate alla questione del male fisico si fonda principalmente sulla sua ascrizione alla naturalità della nostra costituzione. Ad ogni modo, possiamo notare due sensi nei quali Leibniz si riferisce al male: il male fisico propriamente detto e la dannazione, definita come il «più grande male fisico»1. Riguardo al primo Leibniz afferma che «altro non è che il dispiacere, e sotto quest'espressione includo il dolore, l'afflizione e qualsiasi altro genere di malanno»2. Quindi ci si può chiedere se, per contrasto, il bene fisico consisterebbe nel piacere, come voleva Bayle. Tuttavia la risposta è assolutamente negativa perché esistono stati intermedi come quello della salute: «Tutte le sensazioni che non costituiscono per noi fonte di dispiacere, tutti gli esercizi delle nostre forze che non ci incomodano e il cui impedimento, invece, ci incomoderebbe, sono beni fisici, anche quando non ci procurano alcun

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piacere, poiché la loro privazione è un male fisico. Ecco perché ci accorgiamo del bene della nostra salute, e di altri beni simili, solo quando ne veniamo privati»3. Per la seconda tipologia di male fisico, cioè la dannazione, l'autore della Teodicea si esprime in questi termini: «Quando parlo qui della dannazione e dell'inferno, mi riferisco ai dolori, e non a una semplice privazione della felicità suprema»4. In un passo precedente Leibniz si era confrontato con Bayle perché questi aveva sostenuto che i dannati sono infinitamente superiori, numericamente parlando, rispetto ai redenti. L'autore del Dizionario storico-critico aveva utilizzato una sorta di ragionamento per assurdo paragonando Dio a un sovrano che ha appena conquistato una città ribellata: se questo re è giusto e clemente punirà soltanto un piccolo numero di rivoltosi e perdonerà tutti gli altri; ma se è crudele e ingiusto il numero dei condannati sarà di molto superiore a quello dei graziati, le sue punizioni saranno di lunga durata e il suo desiderio di vendetta prevarrà sulla sua esigenza di utilizzare la pena inflitta ai ribelli per educare il resto della popolazione. Bayle era quindi convinto che la morte fosse la pena massima, senza però tener conto della dannazione, e Leibniz, circa queste colpe attribuite alla crudeltà di Dio, ebbe da obiettare proprio per la scarsa considerazione di questa punizione eterna: «La dannazione è un supplizio infinitamente più

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grande della morte. Bisogna però considerare che la dannazione è una conseguenza del peccato; e a un amico, che una volta mi obiettava la sproporzione tra una pena eterna e un crimine limitato, risposi che non c'è nessuna ingiustizia, quando la continuazione della pena non è se non una conseguenza della continuazione del peccato»5. Inoltre, prosegue Leibniz, anche se il numero dei dannati fosse molto più alto rispetto a quello degli eletti, ciò non impedirebbe che, nell'universo, le creature felici superassero in numero quelle infelici. L'esempio di Bayle sul prìncipe che punisce solo i capi dei ribelli non ha alcun risvolto per l'autore della Teodicea, in quanto è nel proprio interesse che il sovrano perdona i colpevoli, anche se questi rimanessero malvagi. Invece Dio «perdona soltanto quelli che divengono migliori. Egli può discernerli; e questo tipo di severità è più conforme alla giustizia perfetta. Ma se qualcuno chiede perché Dio non dà a tutti quanti la grazia della conversione, si va a finire in un altro problema, che non ha alcun rapporto con la presente massima»6.

Leibniz concluderà la questione sulla dannazione nella Parte

terza della propria opera (§ 266) affermando che tutto il problema è da

ridiscutere tenendo conto del fatto che la durata della colpa causa la durata della pena: «I dannati, dato che rimangono malvagi, non possono esser sottratti alla loro miseria. Dunque non è necessario, per

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giustificare la continuazione delle loro sofferenze, supporre che il peccato abbia assunto un valore infinito a causa dell'infinità dell'oggetto offeso, che è Dio»7. La colpa è solo dei dannati, Dio non può che regolare le punizioni di conseguenza. Se Leibniz vedeva il male fisico come la giusta punizione per il male morale, e la dannazione come il grado più alto di questa tipologia di male, Linné dava molta più importanza al male fisico presente su questa terra, come se si trattasse della punizione inflitta dopo una sentenza giuridica, piuttosto che alla dannazione posticipata in un ipotetico aldilà. Come abbiamo appena visto, per Leibniz noi siamo la causa dei nostri mali, «si soffre il male perché si è fatto il male»8; ma nel sistema del filosofo sassone compare molto marginalmente la figura di Dio come giudice di questo mondo, perché non c'è bisogno di un continuo intervento del Creatore per distribuire premi e castighi; il tutto sarà rimandato nell'aldilà.

L'argomento era però visto in maniera diversa da Linné, che riteneva fondamentale l'intervento della nemesi divina nelle questioni umane per assicurare il rispetto delle regole etiche. Secondo l'interpretazione fornitaci da Wolfgang Lepenies9 c'è un background storico-culturale dal quale scaturisce quest'esigenza di ricercare una

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giustizia certa, ed esso venne a crearsi in seguito al clima di incertezza politica nel quale visse la Svezia proprio ai tempi di Linné, il quale dimostrò uno scarso interesse per il dibattito politico preferendo utilizzare i conflitti politici del suo tempo come illustrazione dei princìpi morali. È per comprendere meglio questo background che pare necessario aprire una parentesi sulla storia svedese del XVIII secolo.

La Svezia, come molte altre nazioni europee, all'inizio del 1700 fu teatro dei conflitti tra monarchia e nobiltà, il cui potere, cresciuto di molto nel corso degli anni, venne ridimensionato drasticamente da Carlo XI (1660-1697), mediante le cosiddette “riduzioni”. Già all'inizio del XVIII secolo l'equilibrio tra nobiltà e borghesia era divenuto via via più precario, tanto che molti borghesi, una volta corrisposte alla monarchia prestazioni adeguate, venivano fatti nobili; in questo modo i nobili stessi, per non perdere terreno rispetto alla borghesia, dovettero aumentare il loro impegno negli affari. Nobiltà, clero, borghesia e contadini formavano camere rispettivamente distinte nella Dieta svedese ed è inutile specificare che questi ultimi non parteciparono alla fusione degli altri tre ordini. Per questo i contadini ritennero molto importante l'accesso diretto al monarca ed egli, vedendo questa categoria come antagonista della nobiltà, li tenne sempre in seria considerazione per contrastare la sete di potere della nobiltà. In

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seguito alla morte di Carlo XII (1697-1718) ebbe praticamente fine l'assolutismo della monarchia svedese e l'equilibrio delle forze venne di nuovo messo in discussione: la Dieta del 1719 modificò la costituzione e limitò notevolmente il potere esecutivo della corona. I sovrani persero molti consensi presso gli svedesi anche per il modo disastroso in cui condussero la grande guerra del Nord, che portò la Svezia al limite del collasso economico e dell'insignificanza politica: tutti concordavano sul fatto che la monarchia ormai dovesse essere controllata dai quattro ceti, ma, non appena ne andò della questione del monopolio delle cariche, al quale la nobiltà restava attaccata, questo consenso si ruppe, in quanto era nell'interesse degli altri tre ceti impedire questa esclusività. Infine fu trovato un compromesso secondo la formula per cui, in linea di principio, dovesse risultare decisiva, per la distribuzione delle cariche, una base meritocratica che non tenesse alcun conto dell'estrazione sociale degli individui. Ben presto però divenne chiaro che questo compromesso, anziché impedire il sorgere di discussioni riguardanti le cariche, le suscitasse e le rafforzasse.

In sostanza, con la Dieta del 1719, la corona fu defraudata di ogni potere effettivo, che passò nelle mani del Consiglio di Stato (Riksrådet), un gabinetto costituito da sedici componenti eletti dai ceti, cui spettava promulgare leggi e controllare l'amministrazione pubblica.

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Le questioni particolarmente importanti, e oltretutto segrete, venivano trattate dal cosiddetto Comitato Segreto (Sekreta Utskottet), il quale prendeva decisioni su guerra e pace, affari diplomatici e problemi finanziari. A tale Comitato ovviamente appartenevano cinquanta rappresentanti dell'aristocrazia e venticinque del clero e della borghesia, in quanto i contadini erano ritenuti troppo ignoranti per simili questioni. In questo modo l'aristocrazia conservò un influsso decisivo sulla vita politica svedese.

Carlo XII non si era sposato e sua sorella Ulrika Eleonora non aveva diritto di avanzare alcuna pretesa al trono. Dal momento che ella, un anno dopo la morte del fratello, volle concedere alcuni privilegi alla nobiltà (che vennero contestati sia dal clero che dalla borghesia), il primo ministro Arvid Horn cercò di rinviare la Dieta del 1720 dopo che Federico I, marito di Ulrika Eleonora, ebbe acconsentito ad un'ulteriore diminuzione del potere del re: questo era un prerequisito perché costui potesse salire al trono al posto della moglie, ma i contadini si opposero ai piani di Horn, sapendo di poter trarre solo dei vantaggi dall'isolamento della nobiltà che si stava delineando. Con questo episodio ebbe inizio il cosiddetto “tempo di libertà” della Svezia, che durò fino al colpo di stato di Gustavo III avvenuto nel 1772. Questo periodo sarà descritto in seguito come un'epoca della storia svedese in

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cui la rinascita culturale, scientifica e artistica fece da contraltare alla decadenza politica.

Federico I, comunque, continuò a cercare di migliorare l'intesa tradizionale con i contadini a spese degli altri tre ceti e Horn fu abbastanza abile da assicurarsi un accordo dilatorio coi contadini tanto che, nel 1725, mentre incombeva una nuova guerra del Nord, essi appoggiarono apertamente la sua politica pacifista. Questa linea di pensiero però non piaceva ad una burocrazia aristocratica che puntava ad un ruolo più determinato e aggressivo della Svezia, sia all'interno che all'esterno del paese. L'opposizione, che in seguito a questi fatti si andò formando negli anni trenta, si autoproclamò come il partito dei

Cappelli, affibbiando ai sostenitori di Horn il nomignolo di Berretti (più

precisamente, i berretti da notte delle donne anziane). I Cappelli, che propugnavano un deciso programma economico mercantilistico, controllarono la Dieta del 1738-1739 e ottennero nel dicembre del 1738 le dimissioni di Horn. Si ebbe così una riduzione del potere dell'alta aristocrazia e una parziale democratizzazione del governo. Il lasso di tempo seguente (dal 1739 al 1772) fu segnato dal conflitto sempre più acuto tra le due fazioni e coincise con il periodo di attività di Linné in Svezia, il quale va dal ritorno a Stoccolma nel 1738 (visse i tre anni precedenti in Olanda) fino al suo ritiro da rettore dell'Università di

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Uppsala, avvenuto nel 1772 per motivi di salute.

Il predominio dei Cappelli durò fino al 1765, nonostante fosse rimasto continuamente sotto la minaccia dei Berretti. A seconda dei propri particolari interessi le potenze straniere sostennero ora l'una ora l'altra fazione e lo stesso fece la corona, che da questo conflitto si attendeva un nuovo rafforzamento della monarchia. Nel luglio del 1756 il re Adolfo Federico, spinto dalla regina Luisa Ulrika, sorella di Federico il Grande e appoggiato dai contadini, tentò il colpo di stato, che però fallì miseramente: la conseguenza fu una grandissima umiliazione della famiglia reale. Negli anni tra il 1757 e il 1762 seguì una guerra tanto costosa quanto insensata contro la Prussia, che ebbe due conseguenze: portò in primo luogo alla definitiva trasformazione dei Cappelli in un partito aristocratico e dei Berretti in una fazione borghese; in secondo luogo i contrasti fra i partiti mutarono in misura sempre crescente, fino a diventare dei veri e propri conflitti di classe. Nel 1765 i Berretti presero il potere: la libertà di stampa recentemente acquisita portò i letterati ad esprimere il proprio parere contro la monarchia, mentre il clero arrivò addirittura ad escludere dalla Dieta ogni suo membro cui fosse stata attribuita una carica nobiliare. Ma l'acutizzarsi di questi scontri politico-sociali portò anche a una profonda crisi economica: se i Cappelli avevano condotto una politica

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inflazionistica, con le loro sovvenzioni al commercio e all'industria per i costi di guerra in permanente ascesa, la deflazione del dopoguerra condusse invece ad una serie di bancarotte che colpì in particolare i centri cittadini del paese; difatti nella Nemesis Divina non è insolito imbattersi in esempi di questa insicurezza finanziaria.

Grazie all'aperto sostegno del re i Cappelli cominciarono a sfruttare la situazione economica in stallo per i loro fini politici. Dal momento che questi avevano dalla loro parte la media e bassa borghesia, i Berretti si scontrarono con la difficoltà di far valere le loro scelte politiche anche per via amministrativa. Il rinnovato rafforzamento dei Cappelli e la loro vittoria alle elezioni per la Dieta del 1769 furono la prima conseguenza; dopodiché essi dimenticarono la promessa fatta prima delle elezioni di provvedere ad una revisione della costituzione e di impegnarsi ad un rafforzamento della monarchia: a questo punto l'antico conflitto tra le due fazioni riesplose con rinnovato vigore e quasi tutte le potenze europee, interessate alla debolezza della monarchia svedese, appoggiarono i Cappelli. Solo la Francia, che voleva vedere un regno svedese forte al potere e, soprattutto, indipendente dalla Russia, parteggiò per i Berretti. In questa intricata e delicata situazione Gustavo III riuscì nel colpo di stato incruento del 19 agosto 1772.

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VIII secolo Linné doveva avere i suoi personali motivi per persistere nella redazione della Nemesis Divina, nella cui genesi sicuramente hanno giocato un ruolo fondamentale le sue convinzioni teologiche, non sempre in sintonia con l'ortodossia della chiesa. Gli eventi politici di quel travagliato periodo però hanno fornito il materiale grezzo da cui il botanico di Rashult ha tratto gli esempi attuali per la vendetta di Dio: «l'altalena dei raggruppamenti politici, il conflitto continuo tra Cappelli e

Berretti, così come la decadenza della morale pubblica e privata,

dovevano ulteriormente rafforzare tutto il pensiero di un potere che vendica inesorabilmente tutte le trasgressioni e ristabilisce il giusto equilibrio fra bene e male […] Se ci si trova d'accordo nel definire il “periodo di libertà” in Svezia un'epoca in cui i partiti in lotta dovevano innanzitutto conquistarsi un'etica del comportamento politico, nell'uso che Linné fa del concetto di nemesi si riconoscerà un intento più normativo che descrittivo. Gli appunti sulla nemesi riflettono veramente la realtà politica della Svezia al tempo di Linné, tuttavia vi si esprime non tanto l'interesse del cronista, quanto l'anelito del moralista verso un'istanza in grado di riportare il caos politico all'equilibrio. Linné, la cui intera opera è segnata dal sistema di valori dell'assolutismo pre-borghese, con essa rimane fedele ad una società nella quale regole di comportamento riconosciute fissano rigidamente i limiti dell'agire

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umano e puniscono inesorabilmente ogni deviazione. L'instabilità politica del tempo di libertà ha senza dubbio rafforzato in Linné la fede e il desiderio di una giustizia equilibratrice»10.

Quindi, ciò che portò Linné alla consapevolezza del significato di legge del taglione11 e di giustizia retributiva fu quasi sicuramente l'instabilità del sistema politico e del sistema giudiziario svedese, i quali non avevano il potere per amministrare la giustizia tra gli uomini. Furono quindi l'amarezza e il disincanto per la classe dirigente e per quella giudiziaria a spingere Linné verso la raccolta dei casi storici nei quali egli vedeva la vendetta divina. Inoltre va tenuto conto del fatto che in Svezia il sistema giudiziario si basava su un codice (risalente al 1608) apertamente influenzato dal Luteranesimo del tempo, il quale era a sua volta rigidamente ispirato alla Bibbia. La Riforma aveva lasciato la società svedese senza le consuete leggi basate sulla

10 W. Lepenies, Natura e scrittura, cit., p. 24-25.

11 La legge del taglione indica quell'esperienza giuridica elementare utilizzata presso alcune popolazioni antiche in base alla quale veniva attribuita al soggetto che ha subito un torto la possibilità di farsi giustizia da sé tramite una pena secondo il principio di proporzionalità. Volgarmente il principio veniva espresso dalla locuzione occhio per occhio, dente per dente, che derivava dall'Esodo 21, 23-27: «Ma se segue una disgrazia, allora pagherai vita per vita: occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, livido per livido. Quando un uomo colpisce l'occhio del suo schiavo o della sua schiava e lo acceca, gli darà la libertà in compenso dell'occhio. Se fa cadere il dente del suo schiavo o della sua schiava, gli darà la libertà in compenso del dente». Se questo è quanto veniva affermato nell'Antico Testamento, nel Nuovo Testamento, tale questione si ribalta completamente, come si può evincere da Matteo 5,38-45: «Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l'altra, e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due. Dà a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle. Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei celi; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui i buoni, e fa piovere sui i giusti e sugli ingiusti».

In realtà però questo principio è più antico della Bibbia, come ci dimostra il Codice di Hammurabi: già 1800 anni prima della nascita di Cristo veniva utilizzato un sistema che prevedeva una pena identica al

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tradizione come negli altri stati europei, di conseguenza era naturale che, considerando la propria responsabilità verso la società in generale e verso i nuovi monarchi indipendenti in particolare, i vertici della Chiesa avessero utilizzato le Sacre Scritture come guida. In questo contesto una figura di spicco fu Olaus Petri (1493-1552), traduttore della Bibbia, storico, abile riformatore e fratello maggiore del primo arcivescovo luterano di Uppsala, il quale, verso la fine degli anni '30, completò un importante lavoro intitolato Rules for Judges: per come Petri vedeva la realtà, Dio presiede l'intera creazione e non può non giudicare anche l'operato delle nazioni proteggendo e premiando i giusti e punendo i malvagi. Queste Rules contribuirono perciò a creare una teoria legale che si trovò in difficoltà nella divisione effettiva tra autorità divina, ecclesiastica e civile: nonostante tutti accettassero i fondamentali precetti metafisici come l'autorità della Bibbia e l'assoluta necessità di mantenere l'ordine, non c'erano mezzi pronti per lavorare sui dettagli della legislazione richiesta. Per capire quanto Linné ritenesse insignificante la nostra vita e quanto fossero per lui importanti le decisioni di Dio basta leggere questa affermazione presente nel capitolo intitolato Distributing Wealth: «All we have is lent us by God. We have brought nothing with us and we take nothing away. When God takes things away from us through His executor fate, we bewail

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the loss of what we possessed. Since it was lent, however, it was never ours»12. Ed è proprio in quest'ottica che bisogna leggere i già citati avvertimenti linneani come «Live irreproachably, God is near» e «Nemesis divina is talion, exact retribution».

Tutte le sofferenze inflitte dalla nemesi di Dio hanno un motivo ben preciso, come Linné lascia intendere riprendendo i Salmi e i

Proverbi: «Psalms 119: 137: Righteous art thou, O Lord, and upright

are thy judgements. There is no doing away with the sin, except the deed be undone.

Proverbs 12: 14: The recompence of a man's hands shall be rendered

unto him»13.

Sempre mantenendosi nell'orizzonte della sofferenza è necessario tornare brevemente a Leibniz: tra la concezione del dolore come quantità positiva e la concezione del male fisico come mezzo per raggiungere un fine più alto, secondo quanto affermato nel § 23 della

Parte prima della Teodicea14, sussiste una differenza abissale. Per quale ragione, ci possiamo domandare, se la esatta dimensione del male fisico non era misconosciuta da Leibniz, essa non compare anche nella Teodicea? È possibile che il rapporto tra le tre dimensioni

12 C. v. Linné, Nemesis Divina, cit., p. 162. 13 C. v. Linné, Nemesis Divina, cit., p. 222.

14 «Del male fisico si può dire che Dio spesso lo vuole come una pena dovuta alla colpa, e spesso anche come un mezzo appropriato ad un fine: cioè per impedire mali maggiori, oppure per ottenere

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del male conduca inesorabilmente ad una subordinazione del male fisico alle altre due. Inoltre, la razionalizzazione del male, la riconduzione cioè, anche del male fisico, alla problematica metafisica del male, comporta inevitabilmente l'alterazione del dato originario della sofferenza. Il primo approccio di una teodicea dovrebbe consistere nel cogliere il male nel luogo e nei modi in cui esso si manifesta.

La Parte terza della Teodicea si apre proprio con la spiegazione della vicinanza tra male fisico e metafisico per quanto riguarda le difficoltà che presentano. Entrambi sono accomunati dall'esempio della linea, utilizzato per dimostrare la naturalezza delle irregolarità presenti nell'universo: «Una linea può avere giri e rigiri, alti e bassi, punti di regresso e punti d'inflessione, interruzioni e altre variazioni, in modo tale che non vi si scorge né capo né coda, soprattutto se si considera una parte soltanto della linea; e tuttavia è possibile indicarne l'equazione e la costruzione, nella quale un geometra troverà la ragione e la convenienza di tutte le cosiddette irregolarità. Allo stesso modo vanno giudicate le irregolarità dei mostri e degli altri pretesi difetti nell'universo»15. Tutto si riconduce, come da sempre in questo testo, all'atto di postulare un'armonia generale del nostro mondo, inconoscibile in maniera diretta da noi esseri limitati.

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Questa concezione del male fisico espressa da Leibniz verrà in seguito criticata da Kant nello scritto del 1791 intitolato Sul fallimento di

tutti i tentativi filosofici in teodicea. Il punto di partenza di questo saggio

fa leva sull'importanza dell'esperienza, nell'individuazione e nella constatazione di ciò che è contrario al fine16; quindi tutto inizia con il dato empirico di ciò che è contrario al fine, o, generalmente, male, qualunque forma questa negatività possa assumere. Kant qui rifiuta gli espedienti di minimizzazione del male poiché l'esperienza negativa che si fa nel mondo contrasta con l'ipotesi di un Dio creatore il cui concetto morale è costituito dai predicati della santità, della bontà e della giustizia. Di ciò che è contrario al fine, Kant individua tre forme, di fronte alle quali la ragione che voglia difendere l'operato divino deve riconoscere i propri limiti: «Per teodicea s'intende la difesa della somma saggezza del creatore del mondo dalle accuse mossele dalla ragione per quel che di contrario al fine si riscontra nel mondo. Questo si chiama perorare la causa di Dio, sebbene questa causa altro non sia, in fondo, che quella della nostra ragione che, presuntuosamente, non riconosce in questo caso i propri limiti»17. Queste tre forme contrastano ciascuna con una delle qualità del concetto morale di Dio: il male morale contrasta con la sua santità, il male fisico contrasta con 16 Kant qui usa Zweckwidrig, un termine pensato evidentemente in riferimento diretto (e per contrasto) alla nozione di finalità (Zweckmäßigkeit).

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la sua bontà e l'ingiusto rapporto del secondo con il primo, cioè la difficoltà di poter trovare «una finalità nel nesso che intercorre tra male fisico e dolori in quanto punizioni, da un lato, e male morale in quanto crimine dall'altro»18 contrasta con la sua giustizia. Queste forme di

controfinalità, come le definisce il filosofo di Königsberg, non trovano

giustificazione ed è proprio per questo motivo che Kant può parlare di

fallimento di ogni tentativo di teodicea in questi termini: «Fino ad oggi

nessuna teodicea ha realizzato ciò che aveva promesso, ossia di giustificare la saggezza morale nel governo del mondo di fronte ai dubbi sollevati contro di essa, dubbi ispirati da ciò che ci dà a conoscere in questo mondo l'esperienza: anche se, naturalmente, questi dubbi che si presentano sotto forma di obiezioni non sono in grado neppure di dimostrare [...] che nel governo del mondo saggezza non vi sia»19.

Lasciando momentaneamente da parte la trattazione inerente al male morale, il quale viene dichiarato incomprensibile ed ingiustificabile se ci si mantiene nell'orizzonte di un Dio santo, passiamo al male fisico, anch'esso ritenuto ingiustificabile se si prende come metro di paragone la bontà di Dio. Kant dà un peso notevole al male fisico, sicuramente lo ritiene più importante di quanto non lo avesse ritenuto Leibniz, e rifiuta il classico argomento (sul quale si

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pronunciarono in molti all'epoca) per cui chiunque preferirebbe vivere di nuovo, potendo scegliere, piuttosto che morire: la giustificazione che ci viene fornita a proposito delle sofferenze presenti nel nostro mondo (e quindi anche riguardo al rimprovero mosso alla bontà divina per quanto concerne i mali fisici) consiste nel sostenere che «è sbagliato ammettere che nei destini degli uomini il male fisico ecceda il piacere della vita, visto che ognuno, per male che gli vadano le cose, preferisce tuttavia esser vivo piuttosto che morto, e che quei pochi che decidono per la morte, fintantoché la rinviano non fanno per ciò stesso che riconoscere questo prevalere della vita sulla morte; [..] per rispondere a queste sofisticherie ci si può affidare con sicurezza alle parole che direbbe ogni uomo di buon senso che abbia vissuto abbastanza a lungo e abbia sufficientemente meditato sul valore della vita da poter emettere in merito un giudizio, ove gli si chiedesse se sarebbe disposto a giocare ancora una volta fino alla fine il gioco della vita, non voglio dire alle stesse condizioni, ma alle condizioni scelte da lui (purché si tratti non del mondo delle fate, ma del nostro mondo terreno)»20. Allo stesso modo Kant rifiuta (in maniera molto più radicale: non nominandola nemmeno) la giustificazione della sofferenza fondata sull'idea che essa costituisca la punizione per la malvagità morale degli uomini. La posizione kantiana al riguardo è diventata nel corso del

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tempo sempre più pessimista: già in un importante paragrafo della

Critica del giudizio Kant afferma, a proposito dell'uomo, che «la natura

è tanto lungi dall'averlo adottato come il suo particolare favorito, e d'avergli concesso il benessere a preferenza di tutti gli altri animali, che essa, nei suoi effetti rovinosi, la peste, la fame, l'inondazione e il freddo, l'ostilità di altri animali grandi e piccoli, e simili, non lo risparmia più di qualunque altro animale: e per di più le contraddizioni delle sue d i s p o s i z i o n i n a t u r a l i lo gettano in pene immaginarie, mentre altre tribolazioni proprie della sua specie, con lo spirito di dominazione, le barbarie della guerra, etc., lo riducono in tale miseria, ed egli stesso, per quanto è in lui, si adopera tanto per la rovina della propria specie, che se anche il fine della più benefica natura esterna fosse riposto nella felicità della nostra specie, questa sulla terra non raggiungerebbe un sistema di felicità, perché la sua natura non ne è capace. L'uomo perciò è sempre soltanto un anello nella catena dei fini naturali»21. Questo pessimismo antropologico si fa ancora più netto e tranciante nello scritto di un anno successivo alla terza Critica, dove Kant, oltre all'argomento sulla scarsa convenienza a ricominciare la vita, torna sul tema del calcolo e, menzionando Pietro Verri, si chiede: «come mai l'autore della nostra esistenza ci ha dato la vita, se questa, secondo un nostro preciso calcolo, non è per noi desiderabile? Il

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malcontento ci porterebbe qui a rispondere con le parole di quella donna indiana alla quale Gengis-Khan non poteva garantire nessuna riparazione per la violenza subita, né alcuna protezione per quelle avvenire: Se non vuoi difenderci, perché allora ci conquisti?»22.

La terza soluzione sul male fisico presa in esame da Kant porta immancabilmente alla consapevolezza della limitazione dei mezzi a nostra disposizione per quanto riguarda la conoscenza del nostro destino nell'aldilà: si può sicuramente sostenere che Dio, seguendo la sua bontà, ci abbia creati e posti nel mondo in vista di una felicità avvenire; che il nostro percorso debba necessariamente essere minato da sofferenze e prove di ogni genere per permettere a noi stessi di «renderci degni di quella futura beatitudine»; che «il fatto che questo periodo di prova […] debba senz'altro essere, agli occhi della saggezza suprema, la condizione delle gioie che un giorno ci saranno riservate, e che non si sia potuto far sì che la creatura fosse contenta di ogni epoca della sua vita». Tutte queste tesi si possono appunto sostenere, ma non siamo in grado di comprenderle: «quindi, ricorrendo alla saggezza suprema che così avrebbe disposto, si può bensì tagliare il nodo, ma certo non scioglierlo; proprio questo, invece, la teodicea si era impegnata a fare»23. Qui, in conclusione, l'insufficienza degli argomenti significa ingiustificabilità delle forme di controfinalità e loro insondabilità

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per la nostra ragione.

Un'insondabilità che diventa importante anche in vista della terza forma di controfinalità analizzata da Kant, la giustizia divina. In una nota troviamo un accenno molto significativo alla disputa riguardante l'esistenza o meno di una giustizia divina basata sulle azioni degli uomini: «Tra tutte le difficoltà alle quali si va incontro quando si voglia conciliare il corso degli avvenimenti del mondo con la divinità del suo autore, non ve n'è nessuna che colpisca tanto fortemente la nostra sensibilità quanto quella derivante da un'apparente mancanza di

giustizia nel mondo»; quando però si riesce a trovare il giusto equilibrio

tra i misfatti e la loro punizione, nonostante ciò accada molto raramente, «lo spettatore solitamente imparziale esulta, riconciliatosi, per così dire, col cielo […] si tratta qui d'una finalità morale, l'unica che si possa in certo qual modo sperare di scorgere nel mondo»24. È soprattutto da queste precisazioni che si può capire perché la controfinalità riguardante il rapporto tra l'agire morale e la sua retribuzione abbia una posizione di particolare riguardo nella trattazione kantiana. Ad ogni modo, proseguendo nell'analisi, Kant spiega inizialmente che, secondo la formulazione della terza questione, ogni bene ed ogni male sono da considerarsi «esclusivamente come una conseguenza dell'uso delle facoltà dell'uomo secondo leggi di

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natura […] e non, invece, secondo il loro accordo con i fini soprasensibili; in un mondo futuro, al contrario, si manifesterà un altro ordine delle cose, e a ciascuno sarà riservato ciò che gli varranno le sue azioni quaggiù»25. Ma le cose non stanno proprio così, poiché anche questa ipotesi può essere messa in discussione: la nostra ragione, quando emette un decreto non «in qualità di facoltà legislatrice morale […] deve, attenendosi semplicemente alle regole della conoscenza teoretica, ritenere verosimile che le nostre sorti saranno determinate nell'aldilà, così come avviene in questo mondo, dal corso naturale del mondo secondo l'ordine di natura»26. Infatti, su che cosa si basa la ragione per le sue ipotesi teoretiche, se non sulle leggi naturali? E, anche se questa ragione si lasciasse blandire dalla promessa e dalla speranza di un avvento e di un futuro migliori, ne scaturirebbe un altro problema: dal momento che nella nostra realtà terrena il corso delle cose è considerato saggio di per se stesso in quanto conforme all'ordine della natura, «come può la ragione attendersi che esso diventi in un mondo futuro non saggio, e ciò

seguendo esattamente la stessa legge?»27. La conclusione alla quale

arriva a questo punto Kant è intrisa di scetticismo: siccome aderendo a questa legge dell'ordine naturale non si ottiene alcun nesso «tra i

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moventi interiori della volontà (ossia il modo morale di pensare) secondo leggi della libertà, e le cause (in gran parte esterne) che, indipendentemente dalla volontà, determinano la nostra felicità secondo leggi di natura, permane il sospetto che, per il concetto che riusciamo a farcene, l'accordo del destino degli uomini con una giustizia divina noi dobbiamo tanto poco attendercelo nell'aldilà quanto su questo mondo»28. Per rendere completa e comprensibile la trattazione di questi autori sul male è ora necessario compiere un ulteriore passo, che ci porta ad analizzare il male morale.

Riferimenti

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