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1.1 Fattori innati e fattori ambientali del comportamento 1. INTRODUZIONE

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1. INTRODUZIONE

1.1 Fattori innati e fattori ambientali del comportamento

Il comportamento emerge in maniera graduale durante lo sviluppo cerebrale che è in gran parte controllato dal corredo genetico. Le influenze ambientali cominciano ad esercitare i propri effetti nel corso della vita intrauterina e assumono un ruolo fondamentale soltanto dopo la nascita. Per una piena comprensione del comportamento è quindi necessario conoscere sia i fattori innati (genetici ed evolutivi), sia i fattori ambientali che possono modificare il comportamento con l’esperienza.

Il comportamento viene tradizionalmente suddiviso in istintivo ed acquisito con l’apprendimento. Il comportamento istintivo è quella componente del comportamento che è in diretto rapporto con il corredo genetico e oggi viene spesso chiamato comportamento specie-specifico perché ereditato come caratteristica della specie analogamente alle proprietà morfologiche e fisiologiche. Gli etologi definiscono i comportamenti specie-specifici come risposte caratteristiche per ciascuna specie e indipendenti da esperienze specifiche di apprendimento. Questi comportamenti sono costituiti da risposte relativamente stereotipate, evocate dalla presenza di stimoli specifici che vengono detti stimoli-segnale (o stimoli scatenanti). Le sequenze comportamentali specie-specifiche hanno inizio con una fase di comportamento di ricerca, che consiste in una serie di risposte altamente variabili che aiutano l’animale a trovare gli stimoli ambientali opportuni

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o un obbiettivo che li soddisfi (per esempio un partner per l’accoppiamento, cibo, acqua ecc), seguito da una fase di comportamento consumatorio che consiste invece in una serie di movimenti relativamente stereotipati, (sequenze motorie stereotipate). Tali movimenti assomigliano ai riflessi in quanto sono provocate da uno stimolo specifico e la loro espressione non richiede un previo apprendimento, ma differiscono da esso in quanto sono più complesse e sono precedute dalla fase del comportamento di ricerca. Rispetto ai riflessi, queste risposte motorie possono essere indotte anche spontaneamente (fixed action pattern).

I comportamenti specie-specifici si possono osservare con maggior evidenza negli Invertebrati ma anche nei Vertebrati, compreso l’Uomo. Negli animali inferiori è possibile dimostrare l’influenza di geni specifici sul comportamento e vi sono le prove che anche alcuni comportamenti degli animali superiori siano sotto controllo genetico. Ovviamente i geni non codificano direttamente il comportamento. Il comportamento prende origine da circuiti nervosi che comportano la presenza di molti neuroni, i quali necessitano per il loro sviluppo e funzionamento di numerose proteine, sia con funzione strutturale, trofica ed enzimatica, codificate da diversi geni. Il fatto che siano necessari diversi geni, non significa tuttavia che ogni singolo gene non sia fondamentale per l’espressione di un comportamento ma una mutazione di uno di essi può determinare un’alterazione dei comportamenti innati, così come di quelli acquisiti. I geni sono quindi indispensabili sia per la formazione dei circuiti nervosi ma anche per la regolazione dell’espressione del comportamento nel soggetto adulto in quanto codificano anche per proteine regolatrici quali gli enzimi necessari alla sintesi dei neurotrasmettitori. Altri geni ancora,

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infine, codificano per ormoni peptidici che possono modulare l’espressione del comportamento, potenziandola o inibendola.

Nonostante le molte limitazioni di natura etica, si è potuto constatare, anche nell’Uomo, che molti comportamenti sono mediati da fattori il cui sviluppo e la cui organizzazione sono controllati da geni i quali, quindi, hanno un carattere universale. Tutti gli uomini hanno comportamenti simili indipendentemente dall’ambiente che li circonda o dal loro substrato culturale. Questi comportamenti comprendono ad esempio, i riflessi tendinei profondi, il riflesso di ammiccamento, l’atto di trasalimento, le espressioni mimiche di rabbia, paura, disgusto, gioia, o ancora impulsi e necessità comuni, come la fame, la sete e l’appetito sessuale.

Non esiste in realtà una distinzione netta fra comportamenti innati ed acquisiti ma una gradazione quasi continua che va dalle risposte stereotipate, quasi del tutto indipendenti dalla storia pregressa dell’animale, alle risposte fortemente sensibili ai fattori ambientali.

1.2 Apprendimento e memoria

Il principale fattore ambientale capace di modificare il comportamento dell’Uomo è l’apprendimento. L’apprendimento è l’insieme di quei processi che portano ad acquisire conoscenze relative al mondo che ci circonda mentre la memoria è la facoltà di trattenere o custodire queste conoscenze. Gli studi sull’apprendimento ci hanno fornito molte informazioni sugli aspetti cognitivi del cervello (nell’acquisire e immagazzinare informazioni) e costituiscono un efficace mezzo per valutare le attività mentali.

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L’apprendimento viene comunemente suddiviso in due forme principali: l’apprendimento non associativo e l’apprendimento associativo. L’apprendimento non associativo (relativo a forme elementari di apprendimento), si ottiene quando l’organismo viene esposto, una o più volte, ad un unico tipo di stimolo e permette di apprendere unicamente le proprietà relative a quello stimolo. Nell’apprendimento associativo gli organismi imparano, invece, le relazioni che intercorrono fra due stimoli (condizionamento classico, CC o pavloviano) o quelle che intercorrono fra gli stimoli e le risposte (condizionamento operante o skinneriano). Le forme più comuni di apprendimento non associativo comprendono: l’abitudine, che consiste nella riduzione di una risposta comportamentale in seguito alla presentazione ripetuta di uno stimolo non nocivo e la sensitizzazione che, al contrario, si realizza con un aumento della risposta comportamentale a stimoli precedentemente considerati neutri in seguito alla presentazione di stimoli nocicettivi.

L’apprendimento associativo viene ulteriormente suddiviso, tramite le tecniche utilizzate per determinare l’apprendimento stesso, in condizionamento classico e condizionamento operante.

Lo studio del condizionamento classico fu introdotto per la prima volta da Ivan Pavlov il quale dimostrò che l’apprendimento consiste nell’acquisire la capacità di rispondere ad uno stimolo inizialmente inefficace (Pavlov, 1927). L’essenza del CC risiede nell’associazione o nell’accoppiamento di due stimoli, uno stimolo incondizionato (US, rappresentato dalla vista di cibo o da una scossa elettrica agli arti inferiori) e uno stimolo condizionato (CS, rappresentato da un stimolo sonoro o visivo). Il CS può non essere in grado di produrre alcuna risposta apprezzabile o determinare deboli risposte che non hanno relazione con quelle che devono venire apprese. Invece US determina

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sempre una risposta incondizionata apprezzabile (RIC), come ad esempio la salivazione quando corrisponde alla vista di cibo o la flessione della gamba quando corrisponde alla somministrazione di una scossa elettrica. La ragione per cui la risposta viene detta incondizionata è che essa è innata e viene prodotta dallo stimolo scatenante (incondizionato) senza alcun apprendimento. Quando il CS viene seguito ripetutamente dall’US con una sequenza temporale precisa comincia ad evocare delle risposte, dette risposte condizionate (RC), anche se il CS poi non è più fornito in stretta associazione con l’US. Il CC può essere ulteriormente suddiviso in condizionamento appetitivo (se US è costituito da una ricompensa come cibo o acqua) e condizionamento difensivo (se US è di tipo nocivo come una scossa elettrica). Dopo una serie di prove in cui CS viene costantemente accoppiato ad US, il solo CS diventa il segnale anticipatorio della comparsa di US e l’animale vi risponde come se si apprestasse a ricevere US. Il CC rappresenta quindi, il paradigma attraverso cui un animale apprende a prevedere le relazioni che intercorrono fra i diversi stimoli ambientali. Un importante caratteristica del CC è rappresentato dalla estinzione, ossia dalla diminuzione dell’intensità della risposta condizionata o dalla sua minore probabilità di manifestarsi. L’estinzione si verifica quando CS viene presentato ripetutamente in assenza di US. Entrambi i meccanismi adattativi del condizionamento e della estinzione sono di fondamentale importanza biologica per tutti gli organismi. La capacità di scoprire, apprendere e prevedere i rapporti di causa-effetto che esistono fra gli eventi ambientali e la capacità di smettere gradualmente di rispondere a stimoli che non hanno più significato rappresentano una soluzione adattativa importante e sono presenti in tutti gli organismi animali.

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Il condizionamento operante (definito anche condizionamento strumentale o apprendimento per prova ed errore) comporta invece l’associazione di un comportamento proprio dell’organismo con un evento ambientale successivo di rinforzo. Se un ratto affamato è inserito in una camera test, nella quale è collocata una leva attraverso cui è possibile ottenere cibo, l’animale può premere la leva e ottenere cibo grazie ad una risposta innata, ad un precedente apprendimento o in seguito ad attività casuale. Successivamente la frequenza con cui esso premerà la leva tenderà ad aumentare rispetto alla frequenza casuale e possiamo dire che l’animale abbia appreso che un certo tipo di risposta (la pressione sulla leva, anziché altre azioni) venga ricompensata con del cibo. Così tutte le volte che il ratto sarà affamato probabilmente eseguirà l’azione appropriata (Skinner, 1938). Chiaramente un’osservazione di carattere generale è che i comportamenti che ricevono una ricompensa tendono ad essere ripetuti, a scapito di quelli cui non segue una alcuna ricompensa, mentre quelli seguiti da conseguenze avversative, non vengono in generale ripetuti. Sia nel CC che in quello operante esiste un intervallo ottimale tra la presentazione dei due stimoli per quanto riguarda il CC e l’azione e la ricompensa per quanto riguarda il condizionamento operante.

Oltre alla classificazione dell’apprendimento in base alle tecniche sperimentali usate (approccio definito “riduzionistico”), è possibile utilizzare schemi alternativi di classificazione basati invece sul tipo di conoscenza che il soggetto acquisisce prendendo in considerazione il fatto che un certo tipo di procedimento può determinare forme diverse di apprendimento a seconda della modalità con cui il soggetto codifica e richiama l’informazione appresa. L’apprendimento viene così suddiviso in due categorie: la memoria riflessiva (non-dichiarativa o implicita o

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“working memory”) e la memoria dichiarativa (esplicita), (Fig.1) (Squire

and Zola-Morgan, 1991; Squire, 1992).

La formazione o espressione della memoria riflessiva non dipende dalla consapevolezza, dalla coscienza o da processi cognitivi come il confronto o la valutazione, ma possiede proprietà automatiche o appunto riflessive. Questo tipo di memoria, si accumula lentamente, con la ripetizione di numerose prove successive, si esprime particolarmente attraverso il miglioramento delle prestazioni relative a certi compiti, non viene espressa con affermazioni dichiarative e riguarda forme di apprendimento percettivo e motorio che spesso non si possono esprimere verbalmente. Alcuni esempi di memoria riflessiva comprendono le abilità percettive e motorie e l’apprendimento di tecniche e di regole come quelle grammaticali. Inoltre anche certi compiti di apprendimento verbale se ripetuti abbastanza spesso, assumono le caratteristiche dell’apprendimento riflessivo. Una volta appresi, questi compiti possono poi venir eseguiti automaticamente senza la partecipazione di altri processi cognitivi.

La memoria dichiarativa dipende dalla riflessione conscia e la sua acquisizione e il suo richiamo si basano su processi cognitivi quali la valutazione, il paragone e l’inferenza. Questo tipo di memoria codifica in particolare le informazioni relative a particolari eventi autobiografici e alle associazioni personali e temporali riferite a quegli eventi. In genere questo tipo di memoria si stabilisce nel corso di un’unica esperienza e viene espressa con affermazioni concise e riferite verbalmente. La memoria dichiarativa può comportare l’analisi di elementi frammentari e utilizzarli per ricostruire episodi o eventi pregressi. Infine può essere trasformata in riflessiva. Questo accade ad esempio per quanto riguarda le abilità che inizialmente richiedono tutta una serie di processi cognitivi

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consci, mentre alla fine la loro esecuzione diviene automatica ed inconscia, come nel caso di apprendere a guidare l’automobile.

Per quanto riguarda la classificazione sopra descritta, è da precisare che in realtà molte esperienze posseggono sia elementi di apprendimento riflessivo che di apprendimento dichiarativo.

Recenti studi hanno dimostrato che il condizionamento classico, forma elementare di apprendimento che coinvolge soprattutto forme implicite di memoria, può interessare in alcuni casi anche la memoria esplicita in modo che l’acquisizione delle risposte risulta essere mediata almeno in parte da processi di tipo cognitivo.

Fig.1: Classificazione dei sistemi dei memoria a lungo termine e relative aree cerebrali

coinvolte (tratto da Squire and Knowlton, 1994).

Per quanto riguarda le modalità con le quali viene conservata la memoria risultano molto interessanti studi effettuati utilizzando vari approci sperimentali: dalle analisi comportamentali condotte in seguito a lesioni

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cerebrali ad analisi elettrofisiologhiche e farmacologiche. Gli studi clinici dimostrano infatti che un’amnesia dovuta ad un trauma, ad esempio, risulta particolarmente evidente per gli eventi avvenuti entro pochi giorni dal trauma e risultano infatti alterate le tracce mnemoniche acquisite di recente, mentre quelle più vecchie sono mantenute inalterate. Questo ha portato alla formulazione del seguente modello, ormai comunemente usato, che spiega il motivo di questa alterazione: l’afferenza cerebrale viene trasformata in una traccia che viene custodita in un magazzino di memoria a breve termine, tale magazzino però ha una capacità molto limitata e, se la traccia mnemonica non viene consolidata, persiste al massimo per qualche minuto. In seguito, l’informazione appresa viene trasformata attraverso qualche altro processo nervoso, in una traccia di memoria più persistente, la quale viene conservata in un magazzino di memoria a lungo termine. Talvolta la memoria a lungo termine viene ulteriormente suddivisa in una forma intermedia (che può essere persa con maggiore facilità) e una forma a lungo termine vera e propria (perduta con maggior difficoltà). Oltre a questo il modello prevede anche un sistema deputato alla ricerca delle tracce mnemoniche e all’ espressione dell’informazione quando necessaria ad effettuare compiti specifici. E’ proprio un’alterazione di quest’ultimo meccanismo che, a volte, determina una perdita soltanto momentanea della memoria in soggetti colpiti da amnesia di origine traumatica. Infatti, se ad essere compromesse fossero anche le tracce mnemoniche, queste non potrebbero più essere recuperate. Chiaramente può avvenire che anche le tracce vengano danneggiate in seguito a trauma e l’amnesia risulta allora irreversibile. Un’interpretazione di queste osservazioni può essere che l’espressione della memoria a breve termine può venire facilmente alterata fino a che le tracce mnemoniche non siano state trasformate in

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memoria a lungo termine. Una volta trasformate, le tracce diventano relativamente stabili, ma a mano a mano che passa il tempo, anche in assenza di traumi esterni, si ha una perdita graduale di queste informazioni immagazzinate o una difficoltà nel rintracciarle, perciò il processo di memoria va sempre e comunque incontro a continui rinforzi e/o modificazioni nel corso del tempo.

1.3 Modelli sperimentali per lo studio dei meccanismi

molecolari alla base dell’apprendimento e della memoria

La maggior parte delle conoscenze sui meccanismi alla base dell’apprendimento e della memoria sono state ottenute tramite lo studio delle forme più elementari di questi processi sia sul sistema nervoso degli Invertebrati che di Vertebrati. Gli Invertebrati costituiscono modelli sperimentali particolarmente utili in quanto presentano un sistema nervoso semplice e di facile accesso per il ricercatore ma anche atti comportamentali le cui reti neurali sono ben identificabili, che vanno incontro a forme di apprendimento elementare. Il più noto invertebrato usato come modello sperimentale è il gasteropode marino Aplysia

californica grazie ai brillanti risultati ottenuti dalla scuola di Eric Kandel

(premio Nobel per la medicina nel 2000). Aplysia mostra tutta una serie di riflessi difensivi di retrazione della coda, delle branchie e del sifone che in seguito a stimolazione tattile ripetuta vanno incontro alle varie forme di apprendimento non associativo e associativo. I neuroni sensoriali, che ricevono la stimolazione, determinano l’insorgenza di potenziali postsinaptici eccitatori negli interneuroni e nei motoneuroni responsabili della retrazione. Se lo stimolo non nocivo viene presentato

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ripetutamente, l’informazione trasmessa dai neuroni sensoriali a quelli motori diventa sempre meno consistente perché i potenziali sinaptici si riducono progressivamente di ampiezza, riducendo la forza della risposta riflessa.

Tutto questo dipende da una diminuzione del rilascio del neurotrasmettitore a livello delle terminazioni presinaptiche ad ogni potenziale d’azione. Tale depressione sinaptica risulta essere un meccanismo di carattere generale nella genesi dell’abitudine. Un’unica seduta di addestramento produce in Aplysia un’abitudine a breve termine che dura alcuni minuti, ma con quattro o più sedute, l’abitudine diventa a lungo termine e permane fino a tre settimane.

Anche la sensitizzazione può essere studiata in Aplysia sia nella forma a breve termine che nella forma a lungo termine (Castellucci, Frost, Goelet, Montarolo, Schacher, Morgan, Blumenfeld and Kandel, 1986). Per indurre sensitizzazione è necessario stimolare la cute dell’animale con uno stimolo potenzialmente nocivo (un pizzicotto ad esempio) così che la lumaca ritragga ogni volta la branchia in modo molto vigoroso. L’animale si sensitizza a tal punto che poi basterà sfiorare appena sulla cute del sifone o della testa, per provocare un’energica reazione. Il motivo di tale comportamento consiste nel fatto che per Aplysia il pizzicotto sulla coda è pericoloso in quanto anche l’aragosta, suo predatore naturale, l’aggredisce proprio colpendola sulla coda. Anche la sensitizzazione è stata studiata a livello cellulare ed è stato osservato che numerose sinapsi del circuito nervoso del riflesso di retrazione delle branchie e del sifone, comprese quelle formate dalle cellule sensoriali con i motoneuroni e con gli interneuroni, risultano essere modificate. Quindi, un unico gruppo di sinapsi è in grado di prender parte ad almeno due forme di apprendimento diverse: la loro funzione viene depressa con

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l’abitudine e viene esaltata con la sensitizzazione. La sensitizzazione comporta una modificazione plastica delle sinapsi che collegano il neurone sensoriale al neurone motore. Quest’effetto è innescato, al contrario dell’abitudine, da un aumento dei livelli di serotonina (5-HT), neurotrasmettitore prodotto e rilasciato da specifici interneuroni in risposta allo stimolo doloroso. La 5-HT innesca una cascata di reazioni all’interno dei neuroni sensoriali che si traduce sia in una modulazione della permeabilità agli ioni potassio (KS) (Klein, Camardo and Kandel, 1982; Dale, Schacher and Kandel, 1988), sia in un maggiore rilascio di neurotrasmettitore e quindi in un allungamento delle durata del potenziale d’azione e in un aumento dell’eccitabilità pre-sinaptica. In questo modo viene potenziata la comunicazione fra cellule sensoriali e motorie (Brunelli, Castellucci and Kandel, 1976). Gli studi cellulari indicano che il processo di apprendimento a lungo termine sembra essere un’estensione graduale di quello a breve termine. I due processi hanno infatti molteplici punti in comune in quanto sia la sensitizzazione a breve che a lungo termine vanno a modificare l’efficacia delle stesse connessioni sinaptiche, cioè le connessioni tra neuroni sensoriali e motoneuroni; in entrambi l’esaltazione dell’efficacia sinaptica è dovuta ad un aumento della liberazione del neurotrasmettitore ma non vi sono variazioni nella sensibilità del recettore postsinaptico; è sempre lo stesso neurotrasmettitore 5-HT che induce i due processi. Il secondo messaggero AMPC è coinvolto sia nella facilitazione a breve che a lungo

termine. Nonostante questa serie di somiglianze a livello cellulare, vi sono importanti differenze che possono essere messe in evidenza quando si analizza questi processi a livello molecolare. In particolare, mentre la facilitazione a breve termine della sinapsi interposta fra i neuroni sensoriali e motoneuroni comporta una modificazione di tipo covalente

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di proteine già preesistenti nel neurone e non viene modificata dagli inibitori della sintesi proteica e dell’RNA, la facilitazione a lungo termine richiede invece la trascrizione genica e la sintesi proteica (Fig.2). Tecniche di biologia molecolare più precise applicate a colture cellulari di neuroni di Aplysia, hanno portato alla scoperta che, durante l’apprendimento in un singolo neurone di Aplysia sono attivi oltre 10.000 geni (Moroz, Edwards, Puthanveettil, Kohn, Ha, Heyland, Knudsen, Sahni, Yu, Liu, Jezzini, Lovell, Iannucculli, Chen, Nguyen, Sheng, Shaw, Kalachikov, Panchin, Farmerie, Russo, Ju and Kandel, 2006).

Questa scoperta suggerisce che gli atti di apprendimento, così come la progressione dei disordini cerebrali cognitivi, non abbiano mai una struttura puntiforme, ma che coinvolgano ampi cluster di geni in moltissime cellule. E’ stata quindi fornita per la prima volta una ‘dissezione’ genomica della rete neuronale per la formazione della memoria. Sono stati identificati migliaia di geni che sono attivi in un singolo neurone e per ogni singolo evento correlato alla formazione di una memoria esiste una differenza di espressione in almeno 200-400 geni (Moroz, Edwards, Puthanveettil, Kohn, Ha, Heyland, Knudsen,

Sahni, Yu, Liu, Jezzini, Lovell, Iannucculli, Chen, Nguyen, Sheng, Shaw, Kalachikov, Panchin, Farmerie, Russo, Ju and Kandel, 2006).

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Fig.2: Eventi molecolari alla base della formazione della memoria in Aplysia e nei neuroni

ippocampali. Questi modelli mostrano e mettono a confronto 11 punti critici dei meccanismi molecolari e cellulari nell’ immagazzinamento della memoria che sono stati identificati sia nei neuroni sensoriali di Aplysia (a) che nei neuroni piramidali dell’area CA1 dei mammiferi (topo) (b). (tratto da Barco, Bailey and Kandel, 2006). (1) Rilascio del neurotrasmettitore e consolidamento a breve termine delle connessioni sinaptiche; (2) equilibrio tra le attività della chinasi e della fosfatasi nella sinapsi; (3) trasporto retrogrado dalla sinapsi al nucleo; (4) attivazione dei fattori di trascrizione nucleare; (5) induzione attività-dipendente dell’espressione genica; (6) alterazione della cromatina e cambiamenti epigenetici nell’espressione genica; (7) captazione sinaptica dei prodotti genici neo-sintetizzati; (8) sintesi proteica locale nelle sinapsi attive; (9) crescita sinaptica e formazione di nuove sinapsi; (10) attivazione delle sinapsi silenti pre-esistenti e (11) auto-perpetuamento dei meccanismi e delle basi molecolari per la persistenza della memoria. La collocazione di questi eventi va dalla sinapsi (1-2) al nucleo (3-6) e poi torna indietro alla sinapsi (7-11).

Le ricerche condotte su Aplysia continueranno ad ampliare le conoscenze sui meccanismi fisiologici e molecolari alla base dei fenomeni di apprendimento e di memoria ma a riguardo risultano interessanti anche

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le ricerche condotte sui Vertebrati, in particolare a livello di specifiche strutture cerebrali del loro sistema nervoso. L’ippocampo assume un’importanza fondamentale nell’immagazzinamento delle tracce della memoria dichiarativa e i suoi neuroni vanno incontro a modificazioni plastiche, necessarie la formazione e il consolidamento della memoria dichiarativa stessa. L’ippocampo possiede tre vie eccitatorie principali (Fig.3): la via perforante che proviene dal subiculum fino alle cellule granulari dell’ilo del giro dentato. Gli assoni dei granuli formano le fibre muscoidi (seconda via) che entrano in connessione con le cellule piramidali della regione CA3 dell’ippocampo. Infine le cellule piramidali del campo CA3 inviano collaterali eccitatorie, o collaterali di Schaffer (terza via), alle cellule piramidali del campo CA1.

Fig.3: Principali vie eccitatorie nell’ippocampo di ratto.

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potentation, LTP) ossia un aumento della forza della trasmissione sinaptica che si verifica con l'uso ripetitivo della stessa. L’applicazione di una breve scarica di stimoli ad alta frequenza ad una qualunque delle vie afferenti ippocampali determina un aumento dell’ampiezza dei potenziali postsinaptici eccitatori nei neuroni postsinaptici dell’ippocampo. Tale aumento dura ore o addirittura giorni e settimane. Nel campo CA1, l’LTP presenta tre caratteristiche fondamentali: cooperatività (per ottenere un LTP devono essere attivate più di una fibra), associatività (le diverse fibre che determinano l’LTP e la cellula postsinaptica devono essere attivate contemporaneamente e in forma associativa. Questa proprietà non vale nel campo CA3) e specificità (l’LTP è specifico per la via attivata). La cooperatività ed associatività differenziano l’LTP dal potenziamento tetanico (il quale necessita soltanto di una stimolazione ad alta frequenza) e in particolare l’associatività non è altro che la necessità, per l’instaurarsi del potenziamento delle afferenze deboli (che sono quelle afferenze che di per se non sono in grado di generare LTP), dell’arrivo simultaneo sulla stessa regione dendritica di afferenze eccitatorie deboli e forti. A livello molecolare questo eccitamento simultaneo è necessario perché gli assoni che provengono dal campo CA3 e terminano sulle cellule piramidali del campo CA1, attraverso le collaterali di Scheaffer, impiegano come neurotrasmettitore il glutammato (principale neurotrasmettitore eccitatorio del sistema nervoso centrale). Il glutammato si lega, sulle cellule bersaglio del campo CA1, sia a recettori NMDA (recettori per N-metil-D-aspartato) che a recettori non-NMDA (o AMPA, acido aminoidrossi-metilisossazol-propionico). Entrambi i recettori sono ionotropici. I recettori NMDA si localizzano preferenzialmente all’apice delle spine dendritiche e non sui rami dendritici principali e sono

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particolari perché possiedono un doppio controllo d’accesso, per funzionare hanno bisogno sia del legame sul recettore con glutammato che della depolarizzazione che rimuove lo ione Mg2+ liberando il canale.

Tale depolarizzazione della membrana viene ottenuta normalmente mediante l’attivazione di molti recettori non-NMDA in seguito all’attivazione di parecchi neuroni presinaptici. Lo sblocco del canale consente infine l’ingresso di Na+ e Ca2+ nella cellula. L’ingresso di Ca2+ attraverso i canali NMDA è particolarmente critico per lo stabilirsi dell’LTP. Vi sono prove infatti che per la genesi dell’LTP questi ioni entrino esclusivamente attraverso i recettori-canali NMDA e non attraverso i normali canali Ca2+ voltaggio-dipendenti. L’ingresso di calcio dà inizio ad una durevole esaltazione della trasmissione sinaptica attivando persistentemente due protein-chinasi Ca2+-dipendenti: la

chinasi Ca2+/calmodulino-dipendente e la protein-chinasi C. Quindi l’induzione dell’LTP dipende dalla depolarizzazione post-sinaptica, dall’ingresso di Ca2+ e dall’attivazione (tramite il Ca2+) di sistemi di secondo messaggero (fattore postsinaptico). Il mantenimento dell’LTP richiede invece anche l’aumento della liberazione presinaptica di neurotrasmettitore cioè all’aumento di liberazione di glutammato (fattore presinaptico); ne discende la conclusione obbligatoria che il neurone postsinaptico deve inviare un messaggio al neurone presinaptico. Si pensa che il secondo messaggero attivato dai Ca2+ o forse i Ca2+ stessi operino la liberazione di un fattore di plasticità retrograda o messaggero retrogrado dalle spine dendritiche delle cellule postsinaptiche in attività, il quale diffonde poi verso le terminazioni presinaptiche attivando al loro interno uno o più secondi messaggeri nucleotidici (cAMP) che determinano l’aumento della liberazione del neurotrasmettitore, mantenendo in questo modo l’LTP.

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Tutte le osservazioni sopra riportate, ottenute da studi condotti su vari modelli animali, dimostrano come l’apprendimento e la memoria, a breve e a lungo termine, trovino una precisa corrispondenza nei fenomeni di plasticità sinaptica. La memoria a breve termine comporta la modificazione di proteine preesistenti, tramite meccanismi di fosforilazione, quella a lungo termine, invece, è associata a modificazioni strutturali e a variazioni nel numero e nell’organizzazione delle sinapsi coinvolte ed è supportata dall’attivazione di specifici programmi di espressione genica e sintesi di nuove proteine (Barco, Bailey and Kandel, 2006). Per tanto le tecniche di trascrittomica e proteomica assumono una funzione sempre più importante nell’indagine sui meccanismi molecolari alla base di forme di plasticità sinaptica.

1.4 Condizionamento alla paura (fear conditioning)

Tutte le specie animali assumono atti comportamentali simili in situazioni che provocano paura. Questo ha spinto i ricercatori ad indagare i circuiti neurali della paura molto più in profondità rispetto a quelli delle altre emozioni (Le Doux, 1995). Tramite il CC è possibile studiare le risposte di paura in molti modelli animali che sono quindi definite risposte condizionate di paura o fear conditioning responses. Come tutte le altre risposte apprese, anche quelle di paura si basano su meccanismi neurali di apprendimento e memoria e consentono agli individui di rispondere nella maniera più efficace, a stimoli indicanti la presenza di un pericolo e di associare queste risposte agli stimoli stessi. Questa possibilità è indispensabile per la sopravvivenza. Il condizionamento alla paura viene appreso dagli animali molto rapidamente ed è mantenuto a lungo. Le risposte alla paura possono

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essere facilmente indotte sperimentalmente: se ad un ratto viene fornito uno stimolo sensoriale neutro (come una luce o un suono) che funziona da CS in stretta associazione temporale con uno stimolo avversivo (come una scossa elettrica dolorosa alle zampe) che funziona da US, la successiva presentazione del CS indurrà nell’animale la risposta di paura, anche senza la presenza dell’US. Come in natura, queste risposte possono instaurarsi in seguito a pochi o ad un solo accoppiamento CS-US (Fanselow, 1980; 1990; Muller, Corodimas, Fridel and LeDoux, 1997), e possono essere ritenute per lungo tempo (Kim and Fanselow, 1992; Sacchetti, Ambrogi Lorenzini, Baldi, Tassoni and Bucherelli, 1999a). Tale tipo di condizionamento dipende in gran parte dall’attivazione dell’amigdala (LeDoux, 2000; Maren, 2001). Il complesso amigdaloideo si trova nella parte anteriore della porzione mediale di ogni lobo temporale ed è costituito da quattro regioni distinte: Amigdala Laterale, Basolaterale, Centrale e Mediale. Ciascuna regione ha caratteristiche sia funzionali che fisiologiche simili nel ratto e nei primati. L’amigdala, nel suo complesso, rappresenta un punto di connessione tra le aree sensoriali corticali e sottocorticali e le strutture sottocorticali connesse con risposte endocrine e comportamentali. Numerosi studi hanno evidenziato il ruolo dell’amigdala nei fenomeni di apprendimento e memoria nel condizionamento alla paura. Lesioni bilaterali della stessa nei roditori determinano amnesia sia anterograda che retrograda per le risposte di paura condizionata e i soggetti risultano incapaci anche di apprenderne di nuove (LeDoux, Cicchetti, Xagoraris

and Romanski, 1990; Phillips and LeDoux, 1992; LeDoux, 1995;

Maren, Aharonow and Fanselow, 1996; Roozendaal, Sapolsky and Macgaugh, 1998). In particolare il condizionamento contestuale alla paura o contextual fear conditioning (CFC) richiede l’attivazione sia

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dell’amigdala che dell’ippocampo (Rodrigues, Schafe and LeDoux, 2001). Nel CFC il CS è rappresentato dall’apparato sperimentale di condizionamento, mentre l’US, come per il condizionamento classico alla paura, è rappresentato da una scossa elettrica alle zampe (LeDoux, 1995). Dopo il condizionamento, la sola presentazione dell’ambiente sarà in grado di determinare risposte di paura.

Fig.4: Protocollo per i due tipi di fear conditioning (tratta da “Memory: from mind to

molecules”, Squire and Kandel, Scientific American Library, 1999).

Le ricerche sul condizionamento della paura tramite stimolazione acustica (Fig.4) hanno dimostrato che l’amigdala svolge un ruolo centrale nel mediare le informazioni associate a questo stato emozionale. Come si vede dalla figura 5, lo stimolo emozionale raggiunge il talamo e da qui viene proiettato alla corteccia sensoriale primaria e al nucleo laterale dell’amigdala. Quest’ultimo, tramite i nuclei basolaterali e basomediali, invia l’informazione al nucleo centrale, che, a sua volta, lo

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proietta alle seguenti aree cerebrali: al nucleo della stria terminale, al nucleo parabrachiale, al grigio centrale, all’ipotalamo laterale, al nucleo

reticolaris pontis caudalis e al nucleo basale.

Ognuna di queste aree produce una particolare componente della risposta emotiva alla paura con risposte comportamentali, risposte neurovegetative e risposte ormonali (Fig.5).

Fig.5: Pathways del fear conditioning (tratto da Le Doux and Muller 1997).

Un altro aspetto importante di questo circuito del condizionamento della paura riguarda la modalità con cui le informazioni riguardanti uno stimolo, o uno stimolo condizionato, arrivano all’amigdala. Uno stimolo, infatti, può raggiungere l’amigdala attraverso due vie distinte e simultanee: la via extralemniscale (detta anche via “bassa”) e una via lemniscale (detta anche via“alta”) (LeDoux, 1992; Doron and LeDoux

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2000). La prima è una via subcorticale che trasferisce le informazioni sensoriali, in modo rapido ma grossolano, al talamo che a sua volta invia segnali direttamente all’amigdala. Il talamo trasmette all’amigdala un segnale non elaborato, perché non è in grado di produrre un’analisi fine delle informazioni sensoriali trasferite. Allo stesso tempo, però, l’informazione sensoriale relativa allo stimolo viene proiettata all’amigdala attraverso la seconda via (via corticale), che risulta meno rapida ma più specializzata nell’effettuare l’analisi infomazionale (Fig.6). Tramite la via alta l’informazione sensoriale viene così proiettata al talamo, poi alla corteccia sensoriale e infine alla amigdala. L’esistenza di queste due vie può apparire ridondante ma, quando si tratta di rispondere ad uno stimolo potenzialmente minaccioso, la velocità e la certezza della risposta assume un valore adattativo fondamentale per la sopravvivenza. Infatti, la via bassa permette all’amigdala di ricevere l’informazione rapidamente, così da preparare l’amigdala a rispondere immediatamente se le informazioni che arrivano dalla via alta confermano che lo stimolo è minaccioso. La via alta è quindi più “riflessiva” e permette di valutare le situazioni di pericolo in modo migliore. Infatti, nel ratto, occorrono circa dodici millesimi di secondo per percorrere la strada bassa e il doppio del tempo per percorrere quella alta. Pertanto, dal punto di vista della sopravvivenza, è meglio reagire a delle circostanze potenzialmente pericolose come se lo fossero davvero piuttosto che non reagire affatto.

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Fig.6: Schema rappresentativo delle vie di elaborazione delle informazioni sensoriali durante

l’apprendimento alla paura (tratto e modificato da LeDoux, 1992).

Numerosi studi hanno cercato di chiarire il ruolo dell’ippocampo nel CFC. Questa struttura cerebrale gioca un ruolo fondamentale nella formazione e nel consolidamento delle relazioni tra diversi stimoli o eventi (Rudy, Huff and Matus-Amat, 2004; Anagnostaras, Gale and Fanselow, 2001). L’ippocampo sembra essere necessario soprattutto nell’associare più stimoli quindi proprio durante l’addestramento. Lesioni all’ippocampo prima o subito dopo il condizionamento comportano perdita delle risposte di paura, mentre lesioni eseguite parecchi giorni dopo l’addestramento non compromettono l’acquisizione di tali risposte (O’Keefe and Nadel, 1978; Morris, Anderson, Lynch and Baudry, 1986; Squire, 1992; Young, Bohenek and Fanselow, 1994; Mc

Nisch, Gewirtz and Davis, 1997; Burgess, Jeffery and O’keefe, 1999).

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nell’acquisizione e nel mantenimento temporaneo della rappresentazione del contesto (CS), mentre l’amigdala nell’associazione US-CS, nell’elaborazione e nell’attribuzione alle entrate sensoriali di un significato emotivo e infine nella produzione delle risposte di paura (Maren and Fanselow, 1996; Lee, Walker and Davis, 1996). Ratti sottoposti a CFC mostrano di associare l’ambiente in cui si trovano agli stimoli avversivi (US). Infatti, ogni volta che vengono reinseriti nell’apparato di condizionamento (retrieval test), questi mostrano la tipica riposta di paura o freezing. La risposta di freezing è definita come la completa assenza di mobilità del corpo ad eccezione dei movimenti respiratori ed oculari (Fanselow, 1990; LeDoux, 1995; Milanovic, Radulovic, Laban, Stiedel, Henn and Spiess, 1998; Sacchetti, Ambrogi Lorenzini, Baldi, Tassoni and Bucherelli, 1999a; 1999b). Tale effetto non è rilevabile quando gli stessi soggetti sottoposti a CFC, sono inseriti in un ambiente diverso da quello in cui sono stati forniti gli stimoli avversivi. Pertanto il freezing osservato durante il retrieval test rappresenta una risposta condizionata dovuta all’associazione tra quello specifico ambiente e gli stimoli avversivi. Inoltre il freezing non è rilevabile neanche in quei soggetti che esplorano l’apparato di condizionamento senza che siano forniti loro stimoli avversi (exploration

procedure) (Fanselow, 1990; Milanovic, Radulovic, Laban, Stiedel,

Henn and Spiess, 1998) oppure quando gli animali vengono inseriti nell’apparato di condizionamento e sono loro forniti stimoli avversi di pari intensità ma in un intervallo di tempo minore, rispetto al protocollo del CFC, così da impedire l’associazione fra questi stimoli e il nuovo ambiente (shock-only procedure) (Fanselow, 1990; Milanovic, Radulovic, Laban, Stiedel, Henn and Spiess, 1998). Sebbene le vie neuroanatomiche e gli eventi sinaptici che ne stanno alla base siano stati

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ben caratterizzati (Davis, 1992; Le Doux, 1992; 1995), le conoscenze dei meccanismi molecolari su cui si fonda la memoria alla paura sono ancora scarse eframmentarie. Tuttavia negli ultimi anni sono stati fatti notevoli progressi nell’interpretazione dei fenomeni molecolari alla base dell’LTP, che sembra rappresentare il più importante modello cellulare per il consolidamento delle memorie nel cervello dei mammiferi (Kandel, 1997; Milner, Squire and Kandel, 1998). Numerosi ricerche hanno dimostrato che l’LTP avviene nelle vie neurali coinvolte nel condizionamento alla paura e che questa forma di apprendimento associativo dà origine a modificazioni dell’attività neurale in modo simile all’induzione dell’LTP. Infatti fenomeni di potenziamento dell’efficacia sinaptica si sono ritrovati nelle vie che trasferiscono input sensoriali all’amigdala, le stesse che sono essenziali per il condizionamento alla paura.

Analogamente, data la correlazione esistente tra memoria a lungo termine e L-LTP, la somministrazione di inibitori della trascrizione e della sintesi proteica in slices di ippocampo prima della stimolazione tetanica prevengono l’induzione della fase tardiva dell’LTP senza aver alcun effetto su quella precoce. Studi farmacologici hanno dimostrato che è la PKA a svolgere un ruolo critico nell’induzione della fase tardiva dell’LTP. Infatti uno dei bersagli nucleari di questa chinasi è il fattore di trascrizione CREB che si lega agli elementi di risposta al cAMP (CRE) e l’espressione genica CRE-mediata è indotta da stimoli che generano poi L-LTP. Da questi risultati si evince che la PKA gioca un ruolo fondamentale nel consolidamento delle memorie a breve termine in memorie a lungo termine dipendenti dalla sintesi proteica, in quanto induce la trascrizione di geni che codificano per proteine richieste nel

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potenziamento sinaptico di lunga durata. Il deficit a livello dell’L-LTP può essere paragonato a deficit comportamentali nella memoria spaziale e nella memoria a lungo termine correlata all’apprendimento alla paura contestuale. Ulteriori studi hanno dimostrato come meccanismi biochimici che sono alla base dell’LTP sono anche necessari per il consolidamento della memoria alla paura nell’amigdala. Infatti, infusioni intraamigdaloidee di inibitori della sintesi di mRNA, di inibitori della sintesi proteica o della PKA distruggono la memoria a lungo termine, danneggiano il consolidamento della memoria alla paura uditiva e contestuale e compromettono quindi la memoria a lungo termine risparmiando quella a breve termine (Bailey, Kim, Helmstetter, Sun and Thompson, 1999). Con altri esperimenti sui ratti è stato osservato che l’iniezione a livello del nucleo laterale dell’amigdala (intra-LA), subito dopo il paradigma del FC, di inibitori delle protein-chinasi A come Rp-cAMPS (che determina anche blocco dell’LTP ippocampale), determina dopo 24 h il danneggiamento della memoria a lungo termine legata al condizionamento alla paura; invece se le infusioni sono effettuate 6 h dopo il condizionamento non determinano alcun effetto. Il consolidamento della memoria emozionale, in particolare della paura, richiede dunque espressione genica PKA-dipendente e sintesi proteica nell’amigdala. Un altro interessante studio è stato svolto somministrando ai ratti intraventricolarmente (con iniezioni), anisomicina, Rp-cAMPS o pd098059 (inibitore delle MAPK) prima del condizionamento e poi saggiandoli per la ritenzione della memoria 1 h o 24 h dopo. Ciascuno di questi composti sono in grado di bloccare l’L-LTP, mentre hanno effetti irrilevanti sull’E-LTP. Anche in questo caso l’effetto dei tre inibitori è rivolto a distruggere la memoria a lungo termine correlata alla paura senza avere effetti su quella a breve termine. Dai risultati è emerso che i

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ratti saggiati dopo un’ora mostrano freezing associato al suono o all’ambiente in cui è avvenuto il condizionamento e quindi hanno la capacità di percepire il suono e di creare una rappresentazione del contesto. Tutto ciò ci dimostra che queste sostanze non determinano distruzione delle sedi cerebrali implicate nell’apprendimento e che la via delle MAPK e del cAMP sono indispensabili per le modificazioni a lungo termine e per l’attivazione della sintesi proteica, alla base del consolidamento della memoria alla paura (Schafe, Atkins, Swank, Bauer, Sweatt and LeDoux, 2000). Tutti questi risultati suggeriscono che l’L-LTP e il consolidamento della memoria alla paura condividano meccanismi molecolari comuni. Anche da studi elettrofisiologici è emerso il ruolo centrale dell’ippocampo nell’acquisizione e nel consolidamento delle risposte condizionate alla paura da contesto. Infatti è stata dimostrata una chiara correlazione tra l’aumento dell’eccitabilità a livello delle sinapsi tra collaterali di Schaffer e i dendriti dei neuroni del campo CA1 e il consolidamento della risposta di freezing nel ratto (Sacchetti, Ambrogi Lorenzini, Baldi, Bucherelli, Roberto, Tassoni and Brunelli, 2001).

I ratti sono stati divisi in 4 gruppi: animali condizionati (sottoposti a CFC), exploration group (ratti che avevano esplorato liberamente l’apparato), naïve group (ratti mai entrati nell’apparato di condizionamento) e shock-only group ( ratti che avevano ricevuto lo stesso numero di scosse di intensità pari a quella degli animali condizionati, ma compresse temporalmente così che i ratti non potevano associare US al contesto). I ratti condizionati esibivano freezing duraturo quando posti nuovamente nello stesso apparato di condizionamento (retrieval test) 10 minuti, 1, 7 e 28 giorni dopo il condizionamento

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mentre agli stessi intervalli di tempo, i soggetti sperimentali appartenenti agli altri gruppi non esibivano la risposta condizionata di freezing. Sono quindi state misurate le modificazioni dell’eccitabilità ippocampale applicando un singolo stimolo di bassa intensità su fettine di cervello (slices) preparate ai diversi intervalli di tempo dal condizionamento. Dopo la seduta di addestramento (all’inizio del periodo di post-acquisizione), si è osservato un aumento dell’eccitabilità sinaptica e questo è stato riscontrato anche un giorno e 7 giorni più tardi. Invece a distanza di 28 giorni dal condizionamento non si osservava più alcuna modificazione dell’eccitabilità sinaptica. Questo time-course era riscontrabile solo nei cervelli dei condizionati e non in quelli dei naïve o degli shock-only. Modificazioni nell’attività sinaptica erano presenti anche nei cervelli di animali che avevano esplorato l’ambiente ma erano misurabili soltanto subito dopo l’esplorazione. Questo fa supporre che gli stimoli contestuali inducano l’attivazione di meccanismi che controllano l’eccitabilità sinaptica e quando stimoli avversivi sono associati al contesto, la grande quantità di informazioni, determina un aumento della durata dell’eccitabilità stessa. Il fatto che l’aumento dell’eccitabilità sinaptica sia registrato solamente fino a sette giorni e che la risposta di freezing in seguito al condizionamento perduri invece per circa un mese, indicano che l’ippocampo non sia direttamente coinvolto nella conservazione a lungo termine di queste risposte. I cambiamenti nell’attività elettrofisiologica registrati a livello dell’ippocampo possono essere correlati al consolidamento delle tracce mnemoniche del CFC. La riduzione dell’incremento dell’attività sinaptica a distanza di sette giorni dall’addestramento può essere dovuta alla trasformazione delle tracce mnemoniche appena consolidate in altre forme di memoria. Quindi questo potenziamento dell’attività sinaptica ippocampale è

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temporalmente correlato sia al consolidamento a breve che a lungo termine, perché è presente durante le fasi in cui questi eventi hanno luogo (Sacchetti, Ambrogi Lorenzini, Baldi, Bucherelli, Roberto, Tassoni and Brunelli, 2001). Il CFC influenza la risposta sinaptica ippocampale: infatti la stimolazione ad alta frequenza (HFS)produce un decremento nell’ampiezza dell’STP e dell’ LTP nei condizionati e non nei naïve. La riduzione di STP è presente solo nelle slices preparate immediatamente dopo CFC e fino a poche ore dopo. La diminuzione di LTP è ancora presente trascorse 24 h, mentre 7 giorni dopo non è misurabile alcun decremento. Entrambe le modificazioni appaiono essere chiaramente correlate al processo di apprendimento (associazione contesto-US), poiché tali variazioni non sono osservate nei soggetti

shock-only. Nei soggetti exploration sono presenti diminuzioni dell’LTP,

ma solo immediatamente dopo il condizionamento, e l’STP non risulta mai essere modificata (Sacchetti, Ambrogi Lorenzini, Baldi, Bucherelli, Roberto, Tassoni and Brunelli, 2002).

1.5 Modificazione dell’espressione genica legata al fear

conditioning

L’espressione genica e la sintesi di nuove proteine sono eventi necessari per il trasferimento delle informazioni acquisite dalla memoria a breve termine a quella a lungo termine in seguito ad apprendimento alla paura. L’inibizione della sintesi di mRNA o delle proteine nell’ippocampo, subito dopo l’addestramento al CFC, comporta deficit nella memoria a lungo termine, ma non influenza ne la prestazione comportamentale durante l’acquisizione, ne la memoria a breve termine (Davis and Squire,

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1984). Ratti sottoposti a microinfusioni bilaterali dell’inibitore della sintesi proteica actinomicina-D (act-D) nell’amigdala baso-laterale prima di essere condizionati alla paura, presentano infatti una riduzione delle risposte apprese a partire dalle 24 h fino alle 48 h dopo le infusioni. Questi risultati supportano l’ipotesi che la ritenzione a lungo termine di associazioni apprese durante l’FC richieda la trascrizione di nuovo mRNA e la conseguente sintesi di proteine all’interno dell’amigdala (Bailey, Kim, Helmstetter, Sun and Thompson, 1999). Il consolidamento e il riconsolidamento della memoria indotta dalla paura richiedono la continua sintesi de novo del mRNA nel nucleo laterale dell’amigdala (Duvarci, Nader and LeDoux, 2008).

Tuttavia sono ancora scarse le conoscenze riguardanti i patterns di espressione genica coinvolti in questi fenomeni di apprendimento e memoria. È stata evidenziata una rapida e selettiva induzione dell’ espressione del gene codificante il BDNF (brain derived neurotrophic

factor) nell’ippocampo durante l’apprendimento alla paura contestuale

(Hall, Thomas and Everitt, 2001). Il BDNF è un fattore trofico il quale incremento è coinvolto nella plasticità sinaptica del SNC adulto, si tratta di un fenomeno ristretto all’area CA1 infatti non è stato ritrovato né nelle altre regioni ippocampali, né nell’amigdala.

Studi più recenti hanno iniziato a mettere in evidenza le modificazioni trascrizionali che avvengono nell’ippocampo e nell’amigdala coinvolte nell’instaurarsi del FC tramite la tecnica del microarray (Mei, Li, Dong, Jiang, Wang and Hu, 2005). Ciò ha reso possibile il monitoraggio su larga scala di modificazioni dell’espressione genica legate al consolidamento di questa forma di apprendimento. Sono stati individuati cambiamenti dinamici nel livello di espressione di ben 222 geni nell’amigdala e di 145 geni nell’ippocampo a partire da 0.5, 6 e 24 h

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dopo il condizionamento. Nell’ippocampo la maggior parte dei geni regolati appartengono alla classe delle proteine segnale e dei fattori di trascrizione come ad esempio, la chinasi regolatoria 14-3-3, che sembra interagire con la regione C-terminale del recettore GABAB e subisce un

decremento nell’espressione 6 h dopo il condizionamento. Inoltre è emerso un decremento anche nell’espressione della subunità α-1 del

recettore GABAA dopo 6 h. Questi risultati fanno ipotizzare che la

formazione delle memorie alla paura contestuale implica modificazioni dell’inibizione gabaergica sull’eccitabilità dei circuiti ippocampali. Nell’ippocampo si è anche evidenziata una regolazione negativa di proteine catalitiche come chinasi e fosfatasi e di proteine coinvolte nel

trafficking delle vescicole sinaptiche e nel rilascio del neurotrasmettitore.

Molte delle proteine che mostrano modificazione della loro espressione in seguito a FC nell’ippocampo, sono coinvolte anche nell’apprendimento e nelle malattie della memoria nell’Uomo. Dopo l’FC, infatti, risulta diminuire l’espressione del gene codificante per la proteina precursore dell’amiloide (APP), correlata alla malattia di Alzheimer e dei geni codificanti per proteine che interagiscono con l’APP come la catena leggera 1 della chinesina (KLC1) e il fattore di

splicing U2AF65. Un altro gene coinvolto nei disturbi

dell’apprendimento è il gene per la neurofibromatosi di tipo I (NF1) la cui espressione risulta essere aumentata già 6 h dopo il condizionamento. La perdita di funzione di questo gene, sia nel topo (Silva, Frankland, Marowitz, Friedman, Laszlo, Cioffi, Jacks, Bourtchuladze and Laszlo, 1997) che in Drosophila (Guo, Tong, Hannan, Luo and Zhong, 2000) può portare a deficit mnemonici. Sempre a livello ippocampale sono state riscontrate, dopo il condizionamento, aumenti dell’espressione dei geni codificanti per l’enzima glutammina-sintetasi gliale e per la

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vimentina (Mei, Li, Dong, Jiang, Wang and Hu, 2005). La sintesi della glutammina-sintetasi gliale risulta diminuire a livello degli astrociti nei malati di Alzheimer (Robinson, 2000). La vimentina è una proteina strutturale dei filamenti intermedi che costituiscono la componente principale del citoscheletro degli astrociti (Menet, Gimenez, Ribotta, Chauvet, Drian, Lannoy and Colucci-Guyon, 2001), di conseguenza, un aumento della sua espressione, suggerisce che il FC determini cambiamenti strutturali a livello di queste cellule (Mei, Li, Dong, Jiang, Wang and Hu, 2005).

Nell’amigdala la maggior parte dei geni che vengono sovraespressi in seguito al FC codifica per proteine strutturali e di adesione cellulare peculiari delle strutture sinaptiche, dendritiche e assonali come: l’actina, la spectrina cerebrale, la tubulina e le proteine associate ai microtubuli (van Rossum and Hanisch, 1999). Altri geni sono coinvolti nel turn-over e nella regolazione dei recettori ionotropici, tra i quali figura la proteina associata al recettore GABAA (GABARAP) che modula la cinetica del

canale promuovendo il clustering dei recettori GABAA sui microtubuli

(Chen, Wang, Vicini and Olsen, 2000) e risulta essere modulata negativamente in seguito ad FC. Questo risultato suggerisce che nell’amigdala così come nell’ippocampo in questa forma di apprendimento si assiste ad un aumento dell’eccitabilità sinaptica che deriva da una riduzione degli effetti inibitori dei recettori gabaergici. Un altro meccanismo potenzialmente in grado di modificare l’efficacia sinaptica è il trafficking dei recettori AMPA. Infatti nell’amigdala si osserva un aumento dell’espressione della subunità GLUR1 di tale recettore e di proteine implicate nel suo inserimento e rimozione dalla membrana. Un altro gene regolato negativamente in seguito al condizionamento è l’inibitore della proteina fosfatasi 2 (PP2A) il quale

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defosforila i recettori AMPA e la CaMKII (Lisman and Zhabotinsky, 2001). La modulazione negativa dell’ inibitore di questa proteina indica quindi una possibile alterazione della via di trasduzione del segnale (Mei, Li, Dong, Jiang, Wang and Hu, 2005). Un risultato interessante è

l’aumento dell’espressione anche di altri geni, noti per essere correlati con malattie mentali umane come la chinasi-5-fosfato-4-fosfatidilinositolo (PIP5K), proteina notevolmente ridotta a livello della corteccia frontale dei malati di Alzheimer (Jolles, Bothmer, Markerink

and Ravid, 1992). Cosi come nell’ippocampo anche nell’amigdala si

osserva una modificazione dell’espressione di geni specifici delle cellule gliali in seguito a FC (Mei, Li, Dong, Jiang, Wang and Hu, 2005). Recentemente è stato osservato che la glia sia coinvolta nei processi che controllano il numero di sinapsi in vitro e che probabilmente possa giocare un ruolo importante nei cambiamenti che sono alla base della plasticità sinaptica (Ullian, Sapperstein, Christopherson and Barres, 2001).

Il risultato più interessante emerso dallo studio di Mei e collaboratori (2005) è rappresentato dal cospicuo numero di geni che subiscono una riduzione nell’espressione, soprattutto a livello dell’ippocampo, dopo l’ FC.

Questi dati inducono a pensare che una coordinata regolazione negativa nell’espressione genica costituisca una parte importante del programma genomico e che sia una componente integrale del processo trascrizionale che avviene in risposta agli stimoli esterni (Mei, Li, Dong, Jiang, Wang

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1.6 Analogie tra condizionamento al contesto e disturbi

ansiosi

Lo sviluppo di modelli animali per studiare i meccanismi alla base di stati emotivi e comportamentali rappresenta il più ambito traguardo per la comprensione delle malattie ad impronta neuropsichiatrica. Tuttavia é difficile concepire per esempio un modello animale di depressione o psicosi, perché la diagnosi di queste malattie dipende dalla capacità del paziente di descrivere i sintomi che sono necessari per la diagnosi. Comunque per la depressione e la psicosi sono oggi disponibili alcuni modelli animali convincenti. Analoghe considerazioni possono essere sviluppate per lo studio dei fenomeni di ansia. Per l’ansia, è ormai universalmente accettato che la paura, la fuga, il comportamento di evitamento (avoidance behaviour) e le risposte di panico sono conservate nella scala evolutiva. E’ intuitivo riconoscere una similarità fra l’avoidance behaviour di un roditore e il fatto che un paziente fobico si rifiuti di guidare sul ponte dove ha manifestato attacchi di panico in passato. Vi è una stretta analogia fra la risposta di freezing di un animale sottoposto a CC alla paura e le risposte fisiologiche del sistema nervoso autonomo dopo un attacco di panico.

I disturbi ansiosi sono reazioni esagerate che comprendono paure irrazionali, senso di terrore, sensazioni fisiche insolite come senso di vertigine, difficoltà respiratorie, tremori, scosse e senso di perdita del controllo. Per alcuni pazienti, l’ansia si presenta con attacchi di panico imprevedibili e che possono durare minuti o addirittura ore. I disturbi ansiosi vengono suddivisi comunemente in due principali raggruppamenti: disturbi fobici e stati d’ansia. I disturbi fobici sono

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paure intense ed irrazionali concentrate su un oggetto specifico o su un’attività o situazione che la persona sente di dovere evitare. Gli stati d’ansia comprendono stati di panico ricorrenti, disturbi ansiosi generalizzati e persistenti e disturbi da stress post-traumatico. Studio su pazienti con disturbi di panico rivelano che tali soggetti hanno una maggiore mortalità a causa di malattie cardiovascolari e suicidio (Coryell, Noyes and House, 1986).

Gli attacchi di panico possono essere indotti da una varietà di agenti biologici che non hanno alcun effetto sui controlli sani. La lista di questi agenti che hanno un effetto simile è lunga e sembra crescere continuamente, include lattato di sodio, CO2, iohimbina, fenfluramina,

adrenalina, noradrenalina e un analogo della colecistochinina (CCK) (Gorman, Kent, Sullivan and Coplan, 2000). Sulla base dell’osservazione che, nei soggetti predisposti durante un intensa attività fisica o immediatamente dopo si possono presentare attacchi di panico, Pitts e McClure nel 1967 ebbero l’intuizione che a determinare l’attacco potesse essere l’aumento di lattato nel sangue. Provarono così a somministrare lattato di sodio a pazienti ansiosi determinando in essi attacchi di panico immediati che assomigliavano a quelli che si verificano naturalmente, senza produrre attacchi in persone normali (Pitts and McClure, 1967). Recenti studi condotti su ratto hanno dimostrato che anche nei roditori, in seguito a somministrazione di Na-lattato si generano le tipiche risposte di attacchi di panico ed è stato quindi possibile individuare i pathways neurali alla base del panico indotto da Na-lattato (Johnson, Truitt, Fitz, Lowry and Shekhar, 2008). Per cercare di controllare l’ansia, nel corso della storia, i soggetti affetti da questi disturbi hanno ingerito ogni genere di sostanze; alcol, derivati del bromuro, scopolamina, sostanze oppiacee e barbiturici fino allo

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sviluppo di una nuova classe di sostanze chiamate benzodiazepine. Le benzodiazepine, descritte comunemente come ansiolitici interagiscono con le sinapsi GABAergiche. Il GABA è il principale neurotrasmettitore inibitorio del SNC. I recettori per le benzodiazepine interagiscono con i recettori per il GABA. Quest’interazione produce un’aumento dell’attività delle sinapsi GABAergiche. In questo modo l’inibizione post-sinaptica indotta dal GABA viene facilitata dalle benzodiazepine. I recettori per le benzodiazepine sono distribuiti largamente in tutto il cervello e sono concentrati specialmente nel tronco encefalico e in alcune aree sottocorticali, come l’ippocampo e l’amigdala. Il complesso di recettori benzodiazepine/GABA consiste nel regolare la permeabilità delle membrane neurali agli ioni cloro, che aumentando marcatamente, permette agli anioni di muoversi dall’esterno verso l’interno della cellula nervosa iperpolarizzandola e perciò inibendo l’attività elettrica del neurone.

Oggi la classe di farmaci più comunemente usata per il trattamento degli attacchi di panico sono gli inbitori selettivi del reuptake di 5-HT (SSRI) che sono diventati rapidamente il farmaco di prima scelta perché più efficaci delle altre classi di farmaci (American Psychiatric Association, 1998; Kreiss and Lucki, 1995; Boyer, 1995). Il trattamento con SSRI porta ad un aumento totale della neurotrasmissione serotoninergica nel SNC (Blier, De Montigny and Chaputy, 1987). Anche se non esiste un’evidenza che i disturbi ansiosi siano di origine genetica, sono stati tuttavia trovati diversi loci cromosomici che sembrano associati maggiormente con le emozioni e con il condizionamento alla paura nei roditori e sembra che queste basi genetiche siano simili anche nelle altre specie e che determinino i tratti psicologici della suscettibilità all’ansia nell’Uomo (Wehner, Radcliffer, Rosmann, Christensen, Rasmussen,

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Fulker and Wiles, 1997; Caldarone, Saavedra, Tartaglia, Wehner, Dudek

and Flaherty, 1997). A proposito dell’eriditabilità della suscettibilità al

condizionamento alla paura sono stati condotti studi su coppie di gemelli dello stesso sesso sia monozigotici che dizigotici usando la procedura di condizionamento standard. È stata dimostrata una moderata ereditabilità e quindi questi fattori della personalità risultano essere parzialmente ereditabili (Hettema, Annas, Neale, Kendler and Fredrikson, 2003). L’analogia tra i disturbi d’ansia e il condizionamento alla paura si ritrova nel semplice fatto che nei pazienti affetti da tale disturbo, avviene una stretta associazione tra l’attacco di panico e l’ambiente stesso in cui questo avviene, ad esempio se l’episodio si verifica mentre la persona sta guidando l’auto, nel traffico dell’ora di punta e su di un ponte, inconsciamente il soggetto tenderà a generalizzare e successivamente potrà mostrare paura delle auto, del traffico o di un ponte. È interessante come molto spesso, anche in pazienti tenuti sotto trattamento farmacologico e che quindi non presentano veri e propri attacchi di panico, tali paure permangano e necessitano perciò di terapie comportamentali e di cure di desensibilizzazione verso i contesti in cui sono avvenuti gli episodi (Gorman, Kent, Sullivan and Coplan, 2000). Inoltre non tutti gli stimoli e le situazioni presentate durante le esperienze di apprendimento associativo diventano oggetto di paure e fobie allo stesso modo, ma è comunque stato dimostrato che l’esposizione ad eventi avversivi imprevedibili può portare a paura cronica e ansietà (Seligiman, 1971; Öhman, 1986; Öhman and Mineka, 2001; Mineka and Oehlberg, 2008). Alternativamente in molte circostanze le paure fobiche possono essere acquisite anche indirettamente, ad esempio guardando un’altra persona (dal vivo o in televisione) che abbia un comportamento che genera paura nei confronti

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di qualche oggetto o situazione (Mineka and Oehlberg, 2008). Tutto ciò rimane in linea col fatto che tutti gli animali in natura si trovano nella necessità di dover associare alcuni tipi di oggetti o situazioni alla paura, per cercare di sfuggire gli eventuali pericoli e soprattutto per prevedere quelli futuri. Recentemente, comunque, i ricercatori hanno proposto diverse distinzioni fra paura e disturbi ansiosi basati su evidenze cliniche etologiche e neurobiologiche (Barlow, 1988; Barlow, 2002; Gray and McNaughton, 1996). Nonostante le differenze tra le varie teorie, c’è un accordo generale sul fatto che entrambi siano due stati emozionali negativi. In accordo con quanto descrive Barlow, ad esempio, la paura (o panico) è definita come un’emozione di base coinvolta nell’attivazione della risposta “fight-or-flight” (lotta o fuggi) del sistema nervoso simpatico. I disturbi ansiosi, al contrario, comprendono un insieme di emozioni negative e percezioni entrambe più orientate verso il futuro e molto più diffuse della paura. Comprendono stato d’animo o umore negativo, preoccupazioni o apprensioni ansiose verso gli avvenimenti futuri pericolosi o minacciosi e un senso di essere incapaci di predire o controllare tali avvenimenti futuri (Mineka and Oehlberg, 2008). Psicologicamente l’ansia crea spesso uno stato di tensione ed iper-eccitazione cronica, ma non determina l’attivazione della risposta

“fight-or-flight” (Barlow, 1988; Barlow, 2002). Secondo Davis e colleghi la

paura è uno stato a breve termine attivato da uno stimolo condizionato discreto Pavloviano, mentre il disturbo ansioso è uno stato a lungo termine attivato da stimoli più diffusi che sono spesso incondizionati (come ad esempio l’oscurità) (Davis and Shi, 1999; Davis, Walker and Yee, 1997). Questi due stati sembrano essere collegati a due distinti sistemi neurali: l’amigdala e il nucleo basale della stria terminale (BNST), che si trova immediatamente a valle della dell’amigdala

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basolaterale. Sebbene sia l’amigdala a mediare le risposte alla paura verso gli stimoli espliciti minacciosi, entrambi, sia l’amigdala che il BNST sono associati con i più lunghi stati avversivi non collegati a stimoli minacciosi espliciti (Mineka and Oehlberg, 2008). È stato provato, inoltre, che lesioni all’amigdala basolaterale riducono o addirittura annullano le risposte comportamentali agli stimoli condizionati alla paura (LeDoux, 1996).

In futuro, potrebbe essere interessante confrontare, nei ratti, a livello di genetica molecolare, gli stati ansiosi con quelli più strettamente collegati alla paura, per osservare se sono coinvolti gli stessi fattori genici, ma in reti neurali diverse, o se vengono attivati cluster di geni diversi.

Concludendo avere la possibilità di utilizzare modelli animali sempre più affidabili per lo studio dei disturbi d’ansia è una delle sfide più interessanti per la medicina e per la psicopatologia in particolare. Il raggiungimento di tale obiettivo porterà ad avere conoscenze precliniche più approfondite su tali disturbi e in ultima analisi a interventi terapeutici più mirati ed efficaci per la cura dei disturbi di panico.

Riferimenti

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