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Il controllo e la repressione. Antifascisti della provincia di Lucca nelle carte del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato

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Corso di Laurea in Storia e Civiltà

Il controllo e la repressione.

Antifascisti della provincia di Lucca nelle carte del

Tribunale speciale per la difesa dello Stato

(1926 - 1943)

CANDIDATO Rachele Colasanti

RELATORE Prof. Gianluca

Fulvetti

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Indice

Introduzione...p.3

Capitolo 1

La provincia di Lucca: economia e società... p. 5

Capitolo 2

La violenza di Stato...p. 31

Capitolo 3

La repressione degli anni Venti... p. 65

Capitolo 4

Le denunce degli anni trenta...p. 99

Conclusione...p. 138

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Introduzione

Il «controllo e la repressione» del titolo fanno riferimento alla vasta opera di sorveglianza e persecuzione praticata dal regime fascista nei confronti dei suoi oppositori. Essa fu resa possibile dalla messa in piedi di un solido e articolato apparato repressivo, composto sia da strumenti di tipo statale che da altri di tipo politico i quali, tutti insieme, diedero origine alla “violenza di Stato”.

L'obiettivo di questa tesi sarà quello di utilizzare parte di tali strumenti per tentare di delineare un quadro dell'antifascismo della provincia di Lucca e in Versilia tra il 1926 ed il 1943. Si cercherà, in particolar modo, di perseguire due obiettivi. Il primo: rintracciare la presenza (o meno) di un movimento comunista clandestino. Il secondo: analizzare l'antifascismo della provincia di Lucca attraverso l'utilizzo della categoria di antifascismo esistenziale, consacrata in maniera definitiva da Giovanni De Luna da ormai più di venti anni. Per fare questo, verranno esaminati i casi di 17 personaggi nati o residenti in provincia di Lucca che furono denunciati al Tribunale speciale per la difesa dello Stato (Tsds). Sono stati presi in considerazione gli attuali confini della provincia, che ha assunto la sua attuale fisionomia nel 1928 quando le venne sottratta una buona parte della Valdinievole, assegnata alla provincia di Pistoia.

Saranno quindi adoperate due tipologie di fonti: i fascicoli di sorveglianza del Casellario politico centrale (Cpc) e le carte prodotte dal Tsds. Questi documenti non rappresentano, da soli, l'intera gamma di mezzi adoperati dal regime fascista per controllare e punire l'attività “sovversiva”: essi, infatti, facevano parte di quel più vasto e complesso apparato repressivo che stava alla base del sistema di “violenza di Stato” messo in atto dal fascismo. Le carte del Cpc e del Tsds, tuttavia, ci permettono di cogliere due aspetti immediati della repressione fascista: quello legato alla sorveglianza (espresso nelle carte del Cpc) e quello legato al massimo livello di repressione applicabile nei confronti degli antifascisti (documentato nei fascicoli del Tsds).

Lo studio di tali fonti consentirà di analizzare le caratteristiche sia della repressione fascista che della cospirazione antifascista, anche e soprattutto a livello di microstoria locale. L'antifascismo, infatti, non rappresenta una categoria immobile nel tempo e

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nello spazio, ma è anzi una variabile sia a livello geografico che a livello temporale. Per questa ragione, è più che mai importante affrontarne lo studio anche tramite la presa in esame di singoli percorsi biografici, che diventano quindi un utile strumento analitico applicabile anche all'approfondimento delle grandi questioni storiografiche. Allora, al fine di riesumare quello che potremmo definire “l'aspetto umano” delle carte fasciste, è necessario cercare di lavorare sulle fonti a discapito delle loro intenzioni originali e della loro freddezza burocratica, rintracciando quelle piccole vite che furono proiettate per sempre sullo scenario della grande storia.

Un sentito ringraziamento va all'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea in provincia di Lucca, che ha in più modi agevolato la mia ricerca.

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1. La provincia di Lucca: economia e società

1. Lo sviluppo industriale

All'inizio degli anni Venti la provincia di Lucca presentava una conformazione territoriale molto diversa da quella attuale: non aveva ancora annesso la Garfagnana (che, pur gravitando economicamente e socialmente su Lucca, avrebbe continuato a far parte della provincia di Massa Carrara fino al 1923) e possedeva l'intera Valdinievole (che avrebbe poi perso in buona parte nel 1927, nel momento in cui venne creata la nuova provincia di Pistoia). Di tutti i comuni della provincia, solo Camaiore, Capannori, Lucca e Viareggio superavano i 20.000 abitanti. Questo dato potrebbe confermare il «carattere rurale» della zona: il lavoro agricolo, infatti, continuava ad avere una grande importanza (occupava più della metà della popolazione provinciale) e l'industrializzazione aveva coinvolto la società lucchese solo in maniera parziale, concentrandosi in Versilia e lungo il corso del fiume Serchio.1

In quel periodo, in realtà, anche l'intera produzione industriale della regione Toscana toccava dei livelli piuttosto modesti: nel 1921, la quota dei lavoratori agricoli sfiorava ancora il 50% del totale degli attivi e di essi ben il 58,4% erano mezzadri. A farla da padrone nel campo della produzione industriale era il settore dell'attività estrattiva: nel 1924, infatti, su un valore complessivo della produzione italiana valutato in 541 milioni circa di lire correnti, ben 167 milioni erano da assegnarsi alla Toscana, la quale inoltre continuava a controllare anche la produzione di marmo e, nonostante i cali significativi dovuti alla Grande Guerra, apportava un contributo dell'85% sul totale italiano. Durante la Prima Guerra Mondiale, le miniere furono sottoposte ad uno sfruttamento intensivo. In generale, le risorse minerarie della regione erano già note e sfruttate dai grandi gruppi economici, i quali avevano conferito una «specifica caratterizzazione alla crescita della struttura industriale» 1 Gabriella Bertolucci, Dopoguerra e origini del fascismo a Lucca (1919 – 1922), tesi di laurea,

relatore Adrian Lyttleton, Università di Pisa, anno accademico 1992 – 1993, pp. 4 – 9; Umberto Sereni, Il fascismo nell'isola dell'antimodernità. Il caso di Lucca, in AAVV 28 ottobre e dintorni. Le basi sociali e politiche del fascismo in Toscana, Giunta regionale Toscana, Edizioni Polistampa, Firenze, 1994, p. 56 – 57.

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della Toscana e desideravano mantenere le miniere sotto il loro diretto controllo; di conseguenza, la maggior parte della produzione mineraria era controllata da pochi uomini.2

In provincia era attiva in questo senso l'escavazione e la lavorazione del marmo versiliese, in particolare nei quattro comuni della Versilia definita “storica” (Forte Dei Marmi, Pietrasanta, Seravezza e Stazzema), dove praticamente tutta l'economia era legata all'industria del marmo, a partire dalla sua estrazione presso le cave delle Alpi Apuane fino alla lavorazione dei singoli blocchi. L'attività estrattiva fu avviata a partire dalla seconda metà del XIX secolo in un contesto di liberalizzazione degli agri marmiferi, tanto che le comunità locali «avevano teso a favorire gli imprenditori mettendo liberamente in vendita le cave»3. Tra l'avvio dello sfruttamento intensivo delle cave e la realizzazione delle numerose officine (che avrebbero poi caratterizzato l'area) si deve collocare un periodo di transizione durante il quale, grazie all'assenza di pedaggi imposti, il marmo veniva esportato perlopiù allo stato grezzo e a basso costo. Oltre alle segherie, erano presenti numerosi laboratori artistici (nel 1920 ben il 27,1% di tutta la produzione veniva mandata ai laboratori), soprattutto a Pietrasanta dove erano concentrati i due terzi dei laboratori di tutta la provincia, mentre l'esportazione dei blocchi e del materiale lavorato era possibile grazie al porto di Forte Dei Marmi. L'escavazione del marmo creava un indotto consistente che, tra cavatori, addetti ai trasporti, alle segherie ed ai laboratori, dava lavoro a migliaia di persone e differenziava fortemente la produzione della provincia di Lucca da quella di Massa Carrara, dove la quasi totalità del prodotto veniva esportata allo stato grezzo e l'attività lavorativa riguardava principalmente il lavoro di cava. Erano diffuse soprattutto ditte di piccola e media dimensione, con oltre una cinquantina di piccoli proprietari che gestivano direttamente le loro cave, ma esistevano comunque alcune grandi industrie come la Ditta Henraux, una società costituitasi nel 1921 la quale, 2 Giorgio Mori, Materiali, temi ed ipotesi per una storia dell'industria nella regione toscana

durante il fascismo (1922 – 1939), in AAVV, La Toscana nel regime fascista (1922 – 1939). Convegno di studi promosso dall'Unione Regionale delle Province Toscane, dalla Provincia di Firenze e dall'Istituto Storico per la Resistenza in Toscana. Firenze, Palazzo Riccardi, 23 – 24 maggio 1969, Leo S. Olschki Editore, Firenze, 1969, pp. 128 – 131 e p. 166; Reginaldo

Cianferoni, Contadini toscani e fascisti intorno al 28 ottobre 1922, in AAVV 28 ottobre e dintorni, cit. p. 31.

3 Antonio Bianchi, Lotte sociali e dittatura in Lunigiana storica e Versilia (1919 – 1930), Leo S. Olschki, Firenze, 1981, p. 15.

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oltre a gestire laboratori del marmo nel comune di Seravezza, possedeva anche diverse cave.4

Il resto della produzione industriale toscana era rappresentato per la maggior parte da altri tre settori: l'industria della lavorazione dei minerali non metallici, l'industria alimentare e l'industria tessile. Quest'ultima era fortemente diffusa in tutta la regione, specialmente nell'area centro – occidentale; spiccava, tuttavia, l'assenza di aziende addette alla lavorazione del lino, della canapa e, soprattutto, delle fibre artificiali, un campo che stava diventando uno dei principali motori di sviluppo della struttura produttiva italiana. In Toscana si lavoravano principalmente la lana (a Prato) ed il cotone, un settore del tessile che era particolarmente diffuso in Lucchesia, dove si piazzava al secondo posto per importanza nella produzione industriale della provincia. Nello specifico, era assai sviluppata l'industria dei filati cucirini, della quale si occupavano diversi stabilmenti: sei di essi, la maggior parte, facevano riferimento alla Cucirini Cantoni Coats, una società a prevalente capitale inglese fondata tra il 1878 ed il 1886 da Carl Niemack, con sedi a Lucca, a Bagni di Lucca ed a Ponte a Moriano. In quest'ultima cittadina era localizzato anche lo Iutificio Balestreri, impiantato nel 1880. L'industria serica, infine, che in precedenza aveva conosciuto un intenso sviluppo nella provincia lucchese, sul finire del XIX secolo si stava avviando lentamente al declino, soppiantata dalle nuove manifatture tessili.5

Nel campo della lavorazione dei minerali non metallici, in provincia di Lucca aveva una discreta importanza la produzione di laterizi: erano infatti presenti fornaci a Camaiore, Massarosa e Viareggio. In quest'ultima città, inoltre, era sviluppato il settore della marineria: all'inizio degli anni Venti presso il Compartimento Marittimo di Viareggio erano iscritte «centottantacinque navi a vela, sette motovelieri e quattro vapori, per complessive 30.000 ton di portata e si parla addirittura di 6.500 marinai», dato quest'ultimo che teneva conto di tutti i lavoratori imbarcati, compresi i mozzi, e che comprendeva anche la manodopera proveniente da altri comuni. Oltre a ciò, la

4 Ivi, pp. 14 – 15; Fabrizio Bellotti, Lotta di classe in Versilia durante il biennio rosso, tesi di laurea, relatore Lorenzo Gestri, Pisa, a.a. 1981 – 1982, pp. 13 – 15; Bertolucci, Dopoguerra e origini del fascismo a Lucca, cit., p. 12.

5 Ivi, p. 13; Gaia Petroni, Il quadro economico lucchese tra il XIX e il XX secolo, in AAVV, La nascita della Camera del Lavoro di Lucca, CGIL Provincia di Lucca, 2007, p. 21, pp. 23 – 24; Mori, Per una storia dell'industria nella regione, .cit. pp. 149 – 151.

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cittadina portuale presentava anche un buon apparato industriale, sempre legato al settore navale: erano attivi otto cantieri navali, quattro fabbriche di corde, tre fabbriche di vele e inoltre officine meccaniche e alcune fabbriche di stoviglie. Nella campagna di Torre del Lago era in funzione un impianto di escavazione della torba. Infine, essendo la città di Viareggio legata al mondo apuano da vincoli sia territoriali che socio - economici, erano presenti anche diciotto ditte deputate all'escavazione della sabbia (utilizzata per fini edilizi e indispensabile per la segagione del marmo).6 Il terzo settore principale, quello dell'industria alimentare, comprendeva essenzialmente industrie aventi a che fare con la trasformazione di quei prodotti come il grano, il vino e l'olio che «restituivano nitidamente l'assetto economico – sociale prevalente nelle campagne, quello mezzadrile»7. Erano in realtà presenti anche svariate piccole fabbriche di ghiaccio, birra, bibite gassate e pastifici, ma «il grosso dell'attrezzatura di questa industria era rappresentato essenzialmente da molini, stabilmenti enologici, oleifici e da alcuni zuccherifici». In provincia di Lucca erano sorte due società, la S.A. Toscana Raffinerie Olii (SATRO), che con una produzione annua di 60.000 quintali era fra le maggiori d'Italia; e la S.A. Lucchese Olio e Vino (SALOV), con impianti rispettivamente a Viareggio e a Poggibonsi. Spiccava, inoltre, il gruppo della famiglia Bertolli, cointeressata anche nella SATRO. Il settore alimentare aveva assunto in Toscana «un aspetto quasi emblematico»: negli anni Venti si era verificata in tutto il paese una corsa agli investimenti agricoli di un'intensità senza precedenti, ma per una regione come quella toscana un simile fenomeno diventava ancor più significativo, poiché i fornitori delle materie prime per questa tipologia di produzioni «erano per l'appunto ed essenzialmente quei proprietari terrieri che avevano alle loro spalle una lunga tradizione di resistenza e di ostilità nei confronti dell'iniziativa industriale»8. L'agricoltura toscana vedeva predominare una struttura fondiaria basata sul dominio della grande proprietà aristocratica la quale, desiderando mantenere i propri privilegi, aveva osteggiato la formazione di un ceto di piccoli proprietari, preferendo preservare il ruolo cardine 6 Ivi, p. 157; Francesco Bergamini, Giuliano Bimbi, Antifascismo e Resistenza in Versilia, a cura

dell'A.N.P.I. - Versilia e con il patrocinio dell'Istituto Storico Provinciale Lucchese della Resistenza, 1983, p. 12; Bellotti, Lotta di classe in Versilia, .cit., pp. 16 – 18.

7 Mori, Per una storia dell'industria nella regione, cit., p. 158. 8 Ivi, p.161.

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della mezzadria, la forma di conduzione agricola più diffusa nella regione, che si frapponeva naturalmente alla specializzazione delle coltivazioni e non sosteneva in alcun modo un incremento del livello degli investimenti.9

In questo senso, la provincia di Lucca rappresentava un'eccezione; al suo interno, infatti, la mezzadria era scarsamente praticata, sostituita da un'ampia diffusione della piccola proprietà contadina, che era presente non solo nelle aree di montagna (solitamente più soggette alla frammentazione delle proprietà), dove si trovavano diversi piccoli fondi di origine antica, ma anche nelle zone pianeggianti della Lucchesia. Tra le ragioni che contribuirono a caratterizzare in questo modo Lucca e la sua provincia si individua, innanzitutto, il «progressivo decadimento delle grandi famiglie nobili», sviluppatosi dall'inizio del XIX secolo; prima di allora, infatti, i due terzi della proprietà terriera dell'area di Lucca erano stati controllati dal clero e dal patriziato lucchese, ma, a partire dal dominio napoleonico, venne attuata una redistribuzione della proprietà terriera, che provocò delle ripercussioni negative sull'integrità dei patrimoni delle famiglie patrizie ed una sempre più estesa frammentazione della proprietà. Un'altra motivazione è da ricercarsi nell'alto tasso di emigrazione, causato da problematiche di tipo socio – economico: esso, infatti, era favorito proprio dalla quasi totale assenza di rapporti mezzadrili (e, dunque, di quei condizionamenti imposti dal modello mezzadrile toscano) e dalla condizione di arretratezza in cui versava l'agricoltura lucchese. Il fenomeno contribuì a rafforzare la diffusione della piccola proprietà poiché le rimesse degli emigranti, provenienti dall'Europa e soprattutto dall'America, finivano nelle tasche dell'antica nobiltà la quale, per mantenere il proprio rango, non aveva esitato a disfarsi di parte del proprio patrimonio immobiliare. La diffusione della piccola proprietà, tuttavia, aveva contribuito ad aggravare il tradizionalismo dell'agricoltura lucchese e ad aumentare l'isolamento e la necessità di puntare all'autosufficienza delle famiglie dei piccoli coltivatori le quali, prive di ingenti capitali, non avevano la possibilità di migliorare i propri sistemi di produzione. Di conseguenza, «la piccola proprietà contadina agiva dunque come un freno per l'espansione di un'economia di mercato».10

9 Ivi, pp. 158 – 161; Bertolucci, Dopoguerra e origini del fascismo a Lucca, .cit., p. 14 – 16. 10 Ivi, pp. 17 – 26; Petroni, Il quadro economico lucchese, cit., p. 17 e p. 19; Sereni, Il fascismo

nell'isola dell'antimodernità, cit., p. 56; Pier Giorgio Camaiani, Dallo stato cittadino alla città bianca. La “società cristiana” lucchese e la rivoluzione toscana, La Nuova Italia, Firenze, 1979,

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Oltre a quanto detto sopra, in Toscana era sviluppata anche l'industria della carta, della tipografia e dell'editoria: in Valdinievole erano in funzione circa un'ottantina di cartiere. A completare il quadro della produzione industriale si cita anche una manifattura del tabacco di proprietà del Monopolio di Stato ed ubicata a Lucca. In generale, si può affermare che il settore secondario della provincia, in linea con il resto della regione, non era particolarmente agguerrito e che si basava principalmente sull'apporto del settore primario, essendo per la gran parte rappresentato da strutture ed impianti dedicati alla lavorazione ed alla trasformazione delle materie prime di origine agricola. In questo senso, anche l'attività estrattiva (che costituiva il grosso della produzione industriale lucchese) si configurava come un'industria “naturale”, cioè come un impianto produttivo che aveva necessità di non essere localizzato distante territorialmente dalle aree di produzione delle indispensabili materie prime. Tuttavia, durante il corso degli anni Venti si verificò un forte calo della potenza installata che coinvolse tutti gli impianti industriali, ma che in particolar modo andò ad incidere gravemente sul settore estrattivo, il quale passò dal 41,83% di potenza installata al 19,98% registrato nel triennio 1937 – 1940. Inoltre, mentre la produzione delle cave in generale continuava ad essere più che soddisfacente (da citare ad esempio la produzione di sabbie silicee per vetrerie che nel 1937 toccava quota 54.638 addetti per 274.105 t, dati cui la Toscana contribuiva con un 50% proveniente per la maggior parte dalla provincia di Lucca), l'estrazione del marmo in particolare era caduta in una gravissima crisi scatenatasi a partire dal tracollo finanziario del 1929. Nel 1924, infatti, gli agri marmiferi di tutta la regione apuana (comprendente dunque anche Massa Carrara oltre a Versilia e Garfagnana) impiegavano circa 14.500 operai, mentre nel 1939 il numero di addetti era sceso a 6.583.11

citazione a p. 211, cfr anche p. 104, pp. 204 – 205.

11 Bertolucci, Dopoguerra e origini del fascismo a Lucca, cit., pp. 12 – 13; Mori, Per una storia dell'industria nella regione, cit., pp. 162 – 164 , pp. 178 – 181, pp. 208 – 209.

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2. Una provincia bianca

Le variabili che definivano la “città bianca: che è qualcosa di più (in termini di caratteri sociali) e qualcosa di meno (in termini di valori religiosi) di città cattolica” erano diverse. Un fattore importante era senza dubbio la campagna e la condizione di arretratezza in cui versava la conduzione agricola lucchese.12

La provincia di Lucca, dunque, pur ospitando poli industriali anche di una certa rilevanza, era ancora caratterizzata dal suo essere una società rurale, dove determinate attività produttive (mulini, fornaci, cartiere ecc.) continuavano a rivestire un ruolo importante e ad impedire la creazione di una classe operaia unita come quella dei grandi stabilmenti presenti nei centri industriali. Il capoluogo, in particolar modo, continuava ad essere considerato come la «città dell'antimodernità», dove ancora resisteva una «“società armonica”, saldamente ancorata ai valori della tradizione» e non politicizzata, nella quale le idee «sovversive e rivoluzionarie» del partito socialista facevano fatica ad attecchire e dove clero e “signori” possedevano ancora un considerevole peso politico che era ben maggiore rispetto alla reale entità dei loro possessi. È vero che, in generale, era diffusa una grande apatia nei confronti del “fare politica” e che vi era una mentalità conservatrice originata da un assetto economico e sociale che era rimasto praticamente immutato dal Cinquecento al XIX secolo inoltrato. Era inoltre molto radicato l'attaccamento alla Chiesa ed ai valori religiosi che, «per quanti vivevano tra fatiche e privazioni, ed erano la maggioranza», rappresentavano un valore positivo in contrapposizione ad una vita di miseria e sofferenza.13 In una società così statica, dunque, «pensare e agire in funzione della conservazione» diventava allora un fattore quasi automatico, dettato dalla coesistenza paritaria di quel tipo di mentalità e di quelle stretture socio – economiche: in questo senso si poteva parlare di «città bianca».14

In questa provincia, le lotte dei contadini furono molto più deboli e di breve durata rispetto al resto del mondo mezzadrile toscano e i socialisti non riuscirono mai a 12 Bianchi, Lotte sociali e dittatura, cit., p. 50; Giorgio Giannelli, La Versilia in camicia nera, Edizioni “Versilia Oggi”, Querceta, 2000, p. 17; Bertolucci, Dopoguerra e origini del fascismo a Lucca, cit., p. 30 e pp. 52 – 53.

13 Camaiani, Dallo stato cittadino alla città bianca, cit., p. 147. 14 Ivi, p. XV, p. 105.

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costruire una solida base contadina, poiché anche le poche leghe che riuscirono a fondare sarebbero in seguito state scavalcate dalle leghe bianche dell'Unione del Lavoro, aderente alla Confederazione Italiana dei Lavoratori, callineata sulle posizioni del Partito Popolare Italiano. Anche la mobilitazione del mondo operaio della Lucchesia non era stata semplice, a causa dello stretto legame che lo univa alla realtà contadina: buona parte dell'industria lucchese, infatti, era fondata sul legame con il mondo agricolo produttore di materie prime (grano, vino, olio). Nel mondo industriale, inoltre, era diffuso un atteggiamento paternalista, come nel caso dello Iutificio Balestreri di Ponte a Moriano: al fine di migliorare l'efficienza dei propri dipendenti, il padrone dello stabilmento realizzò «un sistema abitativo e di conseguenza sociale, strettamente vincolato alla sua azienda» con una mensa ed uno spaccio interno in cui era possibile fare spese con dei buoni riservati ai lavoratori dello Iutificio. Questo atteggiamento nei confronti dei propri operai «era quello di un primordiale paternalismo teso a legare l'operaio alla fabbrica» e, anche se i dipendenti ne traevano dei benefici, lo scopo ultimo era quello di aumentare la produttività dell'azienda. Si deve, infine, tenere in considerazione la predominanza delle maestranze femminili nelle numerose industrie tessili della provincia. Le operaie del settore tessile erano di educazione e di formazione cattolica, provenivano solitamente dalla campagna e di solito, con il loro lavoro, integravano il bilancio domestico e consentivano al resto della famiglia di proseguire l'attività agricola. Tutto questo si traduceva in una doppia opposizione nei confronti sia di un maggiore sviluppo industriale che di una più fuida assimilazione dei principi socialisti nel mondo operaio lucchese. Un'eccezione era rappresentata dalla Manifattura Tabacchi, controllata dalle leghe rosse, ma altri stabilmenti rilevanti come la Cucirini Cantoni Coats e in generale tutte le campagne lucchesi sfuggivano al controllo da parte delle forze socialiste.15

Lucca rappresentava dunque un'eccezione non solo nei confronti della Toscana, ma anche rispetto ad altre parti della sua stessa provincia, come la Valdinievole e la Versilia, dove erano state da tempo intraprese delle lotte sindacali guidate dal partito 15 Ivi, pp. 38 – 43; Petroni, Il quadro economico lucchese, cit., p. 21, p. 23, p. 27; Sereni, Il fascismo

nell'isola dell'antimodernità, cit., p. 54; Giuseppe Pardini, Alle radici del fascismo

“intransigente”. Teoria e prassi politica nel fascismo lucchese (1920 – 1922), in “Documenti e Studi”, p. 10.

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socialista. Anche in Versilia, in realtà, la penetrazione del socialismo aveva dovuto affrontare la mancanza di una solida base operaia di massa, con la differenza che questa problematica era già stata affrontata e risolta negli ultimi anni del XIX secolo. È probabile che i primi gruppi socialisti versiliesi siano fuoriusciti dalle società di mutuo soccorso operaio; senza dubbio uno dei primi nuclei del socialismo versiliese fu la “Società di Mutuo Soccorso fra Maestri d'Ascia e Calafati” di Viareggio, in particolare il suo circolo, il quale era in genere frequentato dagli operai dei cantieri, dai pescatori e dai marinai e fungeva da ritrovo per socialisti ed anarchici. Viareggio si trovava al centro di quella striscia di terra «tra l'Alpi e il Mare» caratterizzata dall'ospitare un «complesso di esperienze ad alta valenza antagonista rispetto alla società dominante» che la rendevano una delle piazzeforti del «libertarismo apuo – tirrenico», assieme a Carrara e a Pisa.16

I due centri finirono con il rappresentare due punti di riferimento sia ideali che pratici. Da un lato vi era Carrara, dove le terribili condizioni in cui versavano i lavoratori del marmo avevano portato ad utilizzare la «confittualità sindacale come soluzione della “guerra sociale”», grazie all'impulso fornito dalla locale Camera del lavoro, sorta nel 1901 e guidata dall'anarchico Alberto Meschi a partire dal 1911. Dall'altro invece vi era la «scuola pisana», dove le tensioni sociali fuoriuscivano simili a delle «eruzioni» in concomitanza con il verificarsi di momenti di particolare tensione sociale, sia a livello nazionale che a livello cittadino. A causa della sua collocazione geografica, Viareggio «prendeva dell'una e dell'altra»: nel periodo di massima potenza (vale a dire durante gli ultimi anni prima dello scoppio della Grande Guerra) la sua Camera del lavoro «agiva come “succursale” della organizzazione apuana», ma quel legame “pratico” non aveva spezzato il legame con Pisa che anzi, secondo il pittore Lorenzo Viani, era per Viareggio un punto di riferimento ed una fonte di nuovi stimoli.17

16 Umberto Sereni, Nel segno del Liberato Mondo: vicende, culture, uomini e donne del movimento operaio a Pisa tra Otto e Novecento, in La Camera del Lavoro di Pisa (1896 – 1980). storia di un caso, a cura di Gigliola Dinucci, Edizioni ETS, Pisa, 2006, p. 83; Bianchi, Lotte sociali e dittatura, cit., pp. 52 – 53; Bergamini – Bimbi, Antifascismo e Resistenza in Versilia, cit., p. 13.

17 Italino Rossi, Il sindacato apuo – versiliese tra riformismo e azione diretta, ToscanaNovecento – Portale di Storia Contemporanea (http ://www.toscananovecento.it/custom_type/il-sindacato-apuo-versiliese-tra-riformismo-e-azione-diretta-1900-1915/, consultato in data 8/05/2017 alle ore 18.47); Sereni, Nel segno del Liberato Mondo, cit., p.86.

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Sul finire del XIX secolo, nella parte settentrionale della Versilia e cioè nell'area delle Alpi Apuane versiliesi (più precisamente nei comuni marmiferi) numerosi agricoltori si erano trasformati in cavatori, a causa del verificarsi di un'intensificazione dell'attività estrattiva accompagnata dall'apertura di nuove cave, segherie e laboratori. Questa neonata classe operaia era ancora strettamente legata all'ambiente socio – economico contadino e ciò, di conseguenza, non aveva facilitato in un primo momento la diffusione delle idee «sovversive» socialiste, né tantomeno di quelle del movimento anarchico che era invece attivo e fiorente tra i cavatori e gli operai della confinante provincia di Massa Carrara. La situazione cambiò nella seconda metà del decennio 1890, in particolare dal 1898, quando venne aperta la prima sezione socialista della Versilia e Viareggio, che diede l'avvio ad una concreta campagna di propaganda ed organizzazione, consentendo al partito socialista di diffondersi nel resto dell'area apuo – versiliese.18

In tal modo vennero promosse le prime manifestazioni, organizzate assieme agli anarchici ed ai repubblicani; dal 1901, poi, «anche la Versilia fu infuenzata dal clima di lotta che si estendeva nel paese, e che fu decisivo per l'organizzazione del movimento operaio italiano».19 Durante l'aprile di quell'anno vennero avviati i primi grandi scioperi dei laboratori per la lavorazione del marmo e furono costituite le prime leghe di categoria, che permisero di intraprendere nuove battaglie sindacali tramite gli scioperi degli operai e dei cavatori. Questi ultimi in particolare avevano la necessità di riuscire a creare un'unità organica tra il comitato provinciale edile di Seravezza e la Camera del lavoro di Viareggio, al fine di unificare l'azione delle leghe e allinearsi con gli obiettivi di Carrara. Un esempio in questo senso fu la lotta per ottenere la tassa di pedaggio sul marmo, di cui Carrara usufruiva sin dal 1902 e che, grazie alle lotte guidate dal Meschi, nel 1912 era stata aumentata del 30%, al fine di rinvigorire il fondo pensioni dei cavatori. Il “pedaggio marmi” era un obiettivo per il quale lottarono in particolar modo il sindaco socialista di Seravezza, Pietro Marchi, e l'avvocato Luigi Salvatori, uno dei più attivi animatori del sodalizio culturale noto come Repubblica di Apua e guida delle agitazioni sindacali versiliesi. Essi sostenevano 18 Bianchi, Lotte sociali e dittatura, pp. 50 – 53 e pp. 56 – 57; Giorgio Sacchetti, Sovversivi in

Toscana (1900 – 1919), Altre Edizioni, Todi, 1983, p. 34. 19 Bianchi, Lotte sociali e dittatura, cit., p. 54.

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che la tassa avrebbe comportato un maggiore introito per le amministrazioni locali, che avrebbero potuto utilizzare il denaro ricavato per migliorare le infrastrutture e anche per corrispondere delle pensioni di invalidità e di vecchiaia. Le lotte andarono ad inserirsi nello sciopero dei cavatori di Carrara del 1913 volto ad ottenere le otto ore di lavoro. Grazie al lavoro di squadra, sia lavoratori della Versilia che i carraresi ottennero degli importanti risultati: fu l'ultima «vittoria dei lavoratori del marmo apuani» prima della guerra.20

Nel frattempo, la situazione nel capoluogo e nella Lucchesia era ben più calma. Non che le agitazioni sindacali fossero assenti (si pensi, per esempio, alle rivendicazioni delle operaie della Manifattura Tabacchi, che ebbero luogo nella primavera del 1914 e vennero guidate da anarchici e sindacalisti), ma si trattava di tentativi isolati e mancanti di una guida unitaria come poteva essere quella della Camera del Lavoro. Quest'ultima venne fondata a Lucca il 23 aprile 1906 e, dopo un momento di maturazione iniziale, seppe mettere a punto una strategia prudente, ma comunque in grado di fare ottenere alcuni risultati di una certa importanza, dimostrati dalla costituzione di diverse leghe e di due sezioni distaccate e dal considerevole numero di aderenti. La Camera del Lavoro di Lucca, tuttavia, si doveva scontrare con due particolari problematiche: la prima era la mancanza di comunicazione con il vasto mondo della manodopera femminile della Lucchesia, caratterizzata da una forte presenza dell'elemento religioso verso il quale era fortemente presente una forma di confittualità; la seconda, invece, era causata dalle differenze economico – culturali interne alla provincia, dove esistevano altre due Camere del lavoro (quelle di Pescia e di Viareggio) nei confronti delle quali il capoluogo non esercitava una grande infuenza. Così otto anni dopo, venuto meno quel nucleo di personalità che aveva fondato la sezione lucchese del partito socialista e aumentati i dissidi interni al movimento operaio lucchese, la Camera del Lavoro di Lucca venne sciolta (anche se poco tempo dopo fu ricostituita).21

20 Bianchi, Lotte sociali e dittatura, cit., pp. 46 – 47 e pp. 54 – 56; Enrico Lorenzetti, Vita di Luigi Salvatori socialista: le lotte sociali e le battaglia d'arte in Versilia (1881 – 1915), in “Studi Versiliesi”, Istituto Storico Lucchese – Sezione Versilia Storica, n.° 14, 2004 – 2006, pp. 142 – 144.

21 Nicola del Chiaro, La nascita della Camera del Lavoro di Lucca attraverso i periodici “La Sementa”, “Il Risveglio”, “La Squilla”, in AAVV, La nascita della Camera del Lavoro di Lucca, cit., p. 91; Emmanuel Pesi, Il cerchio della resistenza. Le forme di associazione sindacale in

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Vi erano, dunque, delle «deficienze endogene» all'interno del movimento socialista lucchese, che ancora mancava di un'impostazione ideologica più rigorosa.22 Nello stesso periodo la sezione del PSI di Lucca annoverava solo 38 iscritti su un totale di 280 aderenti al partito in tutta la provincia: il grosso era infatti suddiviso tra la Valdinievole, l'area di Pescia e la Versilia (dove Viareggio, con i suoi 40 iscritti, rappresentava la sezione più numerosa). La situazione cambiò solo con l'avvento della Prima Guerra Mondiale, quando anche nel capoluogo si svolsero proteste e manifestazioni sia da parte dei neutralisti che degli interventisti. Dopo la fine del confitto sembrava che il mondo fosse irreversibilmente mutato e per certi versi ciò era vero: anche Lucca, in egual misura, pareva destinata a sbarazzarsi di quell'apatia politica che l'aveva contraddistinta fino ad allora. I repubblicani di Lucca scrivevano nel primo numero della rivista “Il Baluardo”, uscito il 20 dicembre 1918: «la guerra immane che ha messo di fronte alla barbarie tutto il mondo civile, ha portato un soffio di vita nuova negli uomini e nelle istituzioni. Dal sangue versato nelle lotte tremende tutta una vita nuova sorge […]».23

Successivamente, il fascismo si sarebbe appropriato di questa retorica di derivazione risorgimentale, ma inizialmente il primo beneficiario di «questo clima tra l'apocalittico ed il messianico» fu il partito socialista. Conseguentemente, ebbe luogo una crescita impetuosa anche delle organizzazioni operaie, al punto che nel settembre del 1919 la Camera del lavoro di Lucca contava 45 leghe con circa 6000 iscritti. Le organizzazioni rosse controllavano tutta la Valdinievole, la zona industriale della Lucchesia e la Versilia. Nel 1920 risultavano 4.789 iscritti al Partito Socialista in tutta la provincia, seguiti a ruota dai popolari con 4.140 iscritti. Il neonato Partito Popolare Italiano aveva infatti trovato terreno fertile in Lucchesia ed in alcune zone della Versilia di tradizione clericale e più legate al capoluogo, come i comuni di Camaiore e Massarosa. Il successo ottenuto in pochi mesi dal PPI era giustificabile dall'infuenza che i clericali avevano sempre avuto a Lucca e nelle sue campagne “bianche”. La nuova forza rappresentata dal PPI aveva condotto alla formazione di diverse leghe bianche (come ad esempio la Lega Lavoratrici del Cotone) e,

Lucchesia. 1894 – 1914, in AAVV, La nascita della Camera del Lavoro di Lucca, cit., p. 128. 22 Bertolucci, Dopoguerra e origini del fascismo a Lucca, cit., p. 56.

23 Ibidem; Sereni, Il fascismo nell'isola dell'antimodernità, cit., pp. 61 – 62 e p. 84, vedi anche p. 59 e p. 82..

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soprattutto, essa era stata determinante per la costituzione della Lega dei mezzadri e dei piccoli affittuari aderente all'Unione del Lavoro, a sua volta parte della Confederazione italiana dei lavoratori (CIL). La Lega rivolse subito la propria attenzione verso il mondo dei piccoli proprietari e dei contadini della provincia di Lucca, tramite «una politica sindacale che contrastava la lotta di classe e in definitiva le organizzazioni sindacali […], puntando sulla cooperazione attraverso le leghe bianche». Questa posizione aveva originato un'accesa rivalità tra le Camere del Lavoro e l'Unione del Lavoro: ciò alimentava una forte confittualità sociale, che andò a tradursi anche nel capoluogo con una serie di rivendicazioni operaie, contadine e dei ceti subalterni in generale. In provincia di Lucca fu proprio l'Unione il movimento che promosse e condusse la lotta per il rinnovo del patto colonico, sulla scia di quella serie di rivendicazioni e occupazioni delle terre messe in atto in tutta Italia dai contadini «esasperati e delusi per la mancata riforma agraria».24

In generale, sembrava che lo stato di guerra avesse facilitato la ricomposizione della classe operaia; era tuttavia necessario soddisfare le «crescenti richieste di sempre più larghi strati popolari, resi politicamente e sindacalmente attivi proprio dagli eventi bellici».25 La problematica principale era rappresentata dalla gestione del fenomeno dei reduci, i quali spesso faticavano a reinserirsi nella società e nell'ambiente lavorativo: da un lato, vi erano milioni di contadini cui era stata promessa la terra tornavano alla miseria di sempre, dall'altro invece c'era il proletariato urbano, che aveva acquisito una nuova consapevolezza dei propri diritti ed era stato reso «più ardito dall'esempio della rivoluzione sovietica». Il problema della collocazione della manodopera rientrata dal fronte era sentito in tutta la provincia, ma mentre a Lucca, grazie all'infuenza delle leghe bianche e ad una tendenza al riformismo da parte delle leghe rosse, non si verificarono scontri frontali veri e propri, in Versilia la situazione appariva più problematica. L'industria del marmo versiliese stava infatti attraversando un periodo di forte crisi, causato sia dal deterioramento dei rapporti internazionali, sia dal prezzo eccessivo della materia prima. La questione preoccupava sia gli industriali che i lavoratori, ma nonostante ciò non vennero attuate 24 Ivi, pp. 61 – 63; Bertolucci, Dopoguerra e origini del fascismo a Lucca, cit., p. 57 e pp. 60 – 62 e

p. 81; Bianchi, Lotte sociali e dittatura, cit., p. 78 - 79 e p. 90; Pardini, Alle origini del fascismo intransigente, cit., p. 9 – 11.

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misure adatte né per combattere la disoccupazione, né per riavviare con sicurezza l'esportazione del marmo. La crisi, tuttavia, aveva contribuito a fornire una nuova compattezza alla classe operaia, la quale diede vita diverse agitazioni ottenendo non poche diverse vittorie: aumenti del salario, le otto ore e il sabato inglese per i carpentieri di Viareggio e Forte dei Marmi; aumenti differenziati delle paghe e la giornata lavorativa di sette ore per i cavatori dell'Alta Versilia; anche i pochi mezzadri della zona, infine (collocati soprattutto tra Viareggio, Massarosa e Camaiore), avviarono una serie di scioperi dal risultato fruttuoso.26

3. Il biennio rosso e l'ascesa del fascismo

Con il primo dopoguerra esplose il cosiddetto “biennio rosso” (1919 – 1920), a lungo definito come quel periodo durante il quale venne messa in atto «la vasta e importante azione politica del socialismo tesa a conquistare effettivamente il potere»: in realtà, il ricorso alla violenza era «estraneo alla tradizione e alla cultura politica del socialismo italiano e dello stesso massimalismo».27 Anche i confitti più aspri, ad esempio, non videro il partito socialista agire da protagonista, bensì in un certo senso lo costrinsero a prendervi parte come guida, ma si trattava più che altro di tentativi di veicolare il malcontento generale in agitazioni e scioperi funzionali alla politica socialista.

Il partito socialista della provincia di Lucca, a partire dal 1919, aveva iniziato a godere di un favore mai visto prima, seguito a ruota dai popolari. Il successo dei due partiti di massa era stato inoltre confermato dalle elezioni politiche del 16 novembre 1919, le prime che si svolsero secondo la nuova legge elettorale approvata nel dicembre 1918, la quale andava ad eliminare le ultime limitazioni al suffragio universale maschile. Precedute da un clima di agitazione, le elezioni si svolsero piuttosto tranquillamente nelle 306 sezioni del collegio elettorale di Lucca e Massa

26 Ivi, pp. 28 – 32, pp. 37 – 42, p. 47 e pp. 60 – 61; Pardini, Alle origini del fascismo intransigente, cit., p. 76; Paolo Alatri, La prima guerra mondiale e la crisi della società italiana, in AAVV, Dall'antifascismo alla Resistenza. Trent'anni di storia italiana (1915 – 1945). Lezioni con testimonianze presentate da Franco Antonicelli, Einaudi, Torino, 1975, p. 12.

27 Claudio Natoli, Guerra civile o controrivoluzione preventiva? Riflessioni sul «biennio rosso» e sull'avvento al potere del fascismo, Studi Storici, 2012, n. 1, gennaio – marzo, p. 225.

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Carrara. Tra le sei liste presentate (Lista dei Combattenti, Partito Liberale Indipendente, Partito Liberale Democratico, Lista Liberale, PPI e PSU), quelle dei popolari e dei socialisti ottennero i risultati migliori, rispettivamente con più di 22.00 voti per i primi (dislocati principalmente in Garfagnana, nella Lucchesia e nelle aree agricole in generale) e più di 21.000 per i secondi (concentrati soprattutto nella provincia di Massa Carrara e in Versilia, dove i socialisti avevano guadagnato 4.812 voti). Nonostante la bassa affuenza (attestata attorno al 44,8%), le elezioni avevano segnato l'affermazione del partito socialista in tutto il collegio, specialmente se si considera l'infuenza esercitata dal clero della Lucchesia, che aveva permesso al PPI di ottenere la maggioranza relativa in provincia di Lucca (28,47%). Queste prime votazioni del dopoguerra, dunque, avevano sancito un fatto nuovo: la crescita dei popolari e dei socialisti e l'inizio dell'era dei partiti di massa.28

Un'altra forza, nel frattempo, stava muovendo i primi passi nella scena politica italiana, tentando di contrapporsi ai socialisti ed ai popolari con la creazione di un movimento politico di massa ad essi alternativo: il fascismo. Anche se i Fasci Italiani di combattimento furono fondati il 23 marzo 1919, lo sviluppo del movimento fascista toscano si verificò solo dopo «la trasformazione del fascismo da movimento in partito».29 L'espansione nazionale del fascismo, in generale, aveva avuto inizio dopo la fine del biennio rosso, quando il movimento dei fasci aveva compreso la necessità di «trovare una collocazione nuova e diversa sulla scena politica non più situata nei generici […] confini della sinistra», ma piuttosto andando ad occupare gli spazi aperti al desiderio di riscossa nei confronti del socialismo. Il 1921 fu anche l'anno durante il quale si verificò la prima grossa espansione del fascismo in Toscana. Il secondo balzo ci fu nei primi mesi del 1922, quando il numero di fasci e di iscritti al partito aumentò vertiginosamente in tutte le provincie, con il risultato che in Toscana nel maggio del 1922 erano concentrati più di un quinto dei Fasci e un sesto all'incirca dei fascisti di tutta Italia.30

28 Ivi, pp. 68 -76; Alatri, La prima guerra mondiale, cit., p. 13; Bianchi, Lotte sociali e dittatura, cit., p.84 – 91; Falorni, Nascita e avvento del fascismo in Versilia, cit., pp. 24 – 25 Pardini, Alle radici del fascismo “intransigente”, cit., pp. 8 – 9.

29 Zeffiro Ciuffoletti, L'ascesa del fascismo in Toscana, in 28 ottobre e dintorni, cit., p. 23.

30 Ernesto Ragionieri, Il partito fascista (appunti per una ricerca), in La Toscana nel regime fascista, cit., pp. 59 – 60; Pardini, Alle radici del fascismo “intransigente”, cit., pp. 8 – 9.

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Il Fascio di Combattimento di Lucca venne costituito il 26 ottobre 1920: il suo primo comunicato apparve il 5 novembre: «In occasione della vittoria radiosa del 4 novembre, noi pensiamo altre vittorie giovani e ardite. A noi!».31 La creazione del fascio di Lucca fu il frutto dell'incontro di due delle correnti costitutive del fascismo: da un lato, la componente che si richiamava al fiumanesimo, dall'altro quella degli ex – combattenti reduci della Grande Guerra. Il primo nucleo fascista lucchese era infatti caratterizzato dalla giovane età dei suoi componenti, dalla loro appartenenza al ceto medio e e dal fatto che molti di essi fossero dei reduci della Prima Guerra Mondiale; tutti loro erano uniti dal desiderio di valorizzare l'ultima guerra, esaltando la Nazione e opponendo una forte resistenza al bolscevismo socialista. Gli aderenti al fascio, inoltre, erano tutti iscritti all'Associazione Nazionale Combattenti (ANC). Erano totalmente assenti nel fascio lucchese altre componenti politiche che furono, invece, fondamentali nella formazione di altri movimenti fascisti toscani, come quelle degli ex socialisti rivoluzionari, degli anarchici, dei repubblicani, dei futuristi e, in generale, di quegli appartenenti ai settori più estremisti e intransigenti del combattentismo, dal quale il fascismo aveva prelevato adepti a piene mani. Il fascismo lucchese, al contrario, ebbe un'impronta più che altro “fiumana”, tanto da far quasi passare in secondo piano la vena reducistica, espressa da ceti provenienti quasi esclusivamente dalla borghesia urbana. Il fiumanesimo si esplicava nel forte richiamo alla figura di D'Annunzio ed all'impresa di Fiume, richiamo che stava a significare il desiderio di proporre un nuovo modo per interpretare la politica, facendo riferimento «ai valori e al modo d'agire della guerra, al richiamo di una rivoluzione sociale, al misticismo dei simboli, al gusto dell'azione estetica» insita nel militare.32

Il fascio lucchese ebbe il suo il battesimo del fuoco il 14 dicembre 1920, poco dopo la sua fondazione. Quel giorno i socialisti avevano organizzato un comizio di protesta in piazza San Michele contro l'aumento del prezzo del pane ed avevano invitato a parlare l'onorevole Ventavoli, deputato di Monsummano, che al suo arrivo nella piazza si trovò di fronte duecento fascisti schierati militarmente. Al termine del 31 Giannelli, La Versilia in camicia nera, cit., pp. 33 – 34.

32 Pardini, Alle radici del fascismo “intransigente”, cit., pp. 14 – 15; Ragionieri, Il partito fascista, cit., pp. 62 – 63.

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comizio il dottor Baldo Baldi, uno dei promotori del fascio lucchese, chiese il contraddittorio e ciò fu sufficiente per scatenare l'azione, che provocò due morti e una ventina di feriti. Fu così che la «quieta Lucca» poté fare conoscenza con «le scene della guerra civile».33

Nel frattempo, nel resto della provincia di Lucca la situazione era un'altra: sfuggivano al fascino fascista quei centri industriali controllati dai socialisti e collocati lungo la linea Ponte a Moriano – Piaggione – Fornaci di Barga; contemporaneamente, intere aree della Valdinievole e della piana di Lucca più specificatamente rurali restarono a lungo ignorate dal processo di sviluppo del fascio lucchese. Un'ulteriore differenziazione riguardava inoltre l'area della Versilia, dove per tutto il corso del 1920 non sembrava affatto che si fosse sviluppata una massiccia diffusione del fascismo. La zona versiliese ospitava, invece, una massa di oltre 8.000 lavoratori organizzati nelle associazioni sindacali e politiche appartenenti sia al Partito Socialista che al Partito Popolare: quasi tutti gli operai, infatti, erano organizzati nelle Camere del Lavoro di Viareggio, Pietrasanta e Seravezza, mentre nel contempo i popolari avevano costruito delle solide basi in quei centri più prettamente agricoli. Il fatto era che, mentre Lucca durante il biennio rosso sembrava rimasta «quasi completamente estranea a questi momenti importanti della storia del proletariato italiano», durante la prima metà del 1920 la Versilia fu agitata da scioperi e da aspre lotte sindacali, diffusi uniformemente dalle Apuane ai porti di Forte dei Marmi e Viareggio. In quest'ultima cittadina, in particolare, ebbe luogo l'occupazione del cantiere dell'Ansaldo, situato nella darsena tra il canale della Burlamacca e il bacino d'acqua: fu la prima occupazione di una fabbrica in Toscana. Le manifestazioni del 1920 dovettero opporsi ad una resistenza padronale sicura ed agguerrita e provocarono un tremendo crescendo di tensioni, le quali esplosero attorno al primo maggio con le giornate rosse di Viareggio.34

I fatti di Viareggio erano stati preceduti da diversi episodi che contribuirono a surriscaldare gli animi, come ad esempio una reazione dei carabinieri che, nell'aprile 33 Sereni, Il fascismo nell'isola dell'antimodernità, cit., pp. 71 – 72.

34 Bertolucci, Dopoguerra e origini del fascismo a Lucca, cit., p. 84; Falorni, Nascita e avvento del fascismo in Versilia, cit., p. 45; Pardini, Alle radici del fascismo “intransigente”, cit., pp. 24 – 25; sulle “giornate rosse” cfr anche Bergamini – Bimbi, Antifascismo e Resistenza in Versilia, cit., pp. 15 – 17.

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del 1920, avevano percosso duramente un gruppo di giovani socialisti accusati di aver molestato la fidanzata di un carabiniere («più che una molestia un frizzo», scriveva Il Libeccio l'11 aprile).35 Il fatto provocò una serie di proteste e rafforzò ulteriormente l'avversione che molti viareggini delle classi subalterne nutrivano nei confronti delle forze dell'ordine, trasformata in un'ostilità diffusa che confuiva in un generico «sentimento antigovernativo ed antistatale».36 Nel frattempo nella cittadina si svolsero altre manifestazioni: una organizzata dagli ex combattenti e volta ad ottenere risarcimenti e pensioni; un'altra, tenutasi il 25 aprile, vide la partecipazione dei segretari delle Camere del Lavoro di Viareggio e Seravezza (rispettivamente Manlio Baccelli e Attilio Fellini), nonché dell'avvocato Salvatori. In generale, la città versava in una situazione difficile, provocata dal carovita e dalla disoccupazione galoppante nel settore marinaro. Si giunse infine al primo maggio che, nonostante le previsioni, trascorse senza tensioni degne di nota.37

La miccia esplose invece il 2 maggio 1920 durante una partita di calcio disputata tra due squadre di calcio, lo «Sport Club» di Viareggio e l'«Unione Sportiva Lucchese» di Lucca. A due minuti dalla fine della partita un'invasione di campo da parte della folla provocò il caos e i quattro carabinieri di servizio vennero disarmati. Nel momento in cui i carabinieri tentarono di opporre resistenza con una nuova sortita dalla caserma, il segnalinee viareggino Augusto Morganti venne ucciso con un colpo di arma da fuoco: in realtà, sembrava che il Morganti, accompagnato da due suoi amici, avesse cercato armi alla mano di imporre ai carabinieri di rientrare in caserma. Ad ogni modo, l'episodio scatenò definitivamente la folla e diede origine ad una vera e propria «eruzione» sociale: per tre volte la caserma dei carabinieri venne cinta d'assedio e inoltre fu istituito un comitato cittadino, composto perlopiù da membri della Camera del Lavoro. La situazione era tesa al punto che il prefetto di Lucca decise di fare intervenire l'esercito, incoraggiato dal presidente del Consiglio Nitti ad «agire senza riguardo per spazzare via codesta canaglia». Fu a quel punto che entrò in scena anche il leader socialista Luigi Salvatori, che ingiunse alle forze armate di ritirarsi, minacciando in caso contrario uno sciopero generale. L'intervento 35 Bellotti, Lotta di classe in Versilia, cit., p. 98.

36 Ivi, p. 100.

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dell'on. Salvatori riuscì a contenere il carattere violento della sommossa, che probabilmente non si sarebbe comunque tramutata in una rivoluzione dai caratteri più spiccatamente politici: continuava a trattarsi, piuttosto, dell'espressione dell'esasperazione della gente, infervorata da una passione che «nasceva dal bisogno di contrapporsi alle istituzioni» e che, dunque, non era animata da quella «volontà di rovesciare il sistema come volevano per esempio i socialisti». Questi ultimi erano stati letteralmente colti alla sprovvista e solo in un secondo momento, una volta proclamato lo sciopero generale, tentarono di assumerne il controllo in collaborazione con l'Unione del lavoro.38

Nel frattempo, il 4 maggio, si svolsero i funerali del Morganti ai quali parteciparono tutte le forze politiche e sindacali; dopo una decina di giorni la situazione tornò infine alla normalità. Terminava dunque questa sommossa, che ebbe risonanza in tutta Italia, ma restò in definitiva un fatto isolato. Gli stessi dirigenti di sinistra erano consapevoli dell'improbabilità di uno sbocco rivoluzionario: si trattava semmai di un chiaro sintomo del malessere popolare, che sarebbe riemerso nuovamente anche durante l'estate del 1920, quando tutta Italia venne scossa da una serie di agitazioni sindacali. È questa caratteristica che contraddistingue la violenza delle folle da quella messa in atto dai Fasci di combattimento: la prima non era coordinata in alcun modo, non faceva riferimento ad un partito armato della sinistra e rimase, in definitiva, in uno stato potenziale; la seconda, invece, era rivolta verso determinati gruppi e aveva lo scopo preciso di eliminare «individui e istituzioni»39

Ad ogni modo, tutto questo non avrebbe poi impedito al fascismo di espandersi definitivamente anche in Versilia a partire dal 1921, anno in cui il esso pose le basi per la sua definitiva ascesa al potere, sia con l'organizzazione del movimento squadristico, che come primo obiettivo mirava a distruggere le organizzazioni democratiche operaie e contadine, sia attraverso la diffusione di un programma demagogico che corrispondeva ad aspirazioni diffuse tra la popolazione. Lo scopo principale delle squadre fasciste era l'occupazione dei palazzi municipali, spesso in 38 Ivi, p. 101; Bellotti, Lotta di classe in Versilia, cit., pp. 108 – 124; Falorni, Nascita e avvento del fascismo in Versilia, cit., pp. 40 – 41.

39 Ivi, p. 41; Andrea Ventura, I primi antifascisti. Sarzana, estate 1921. Politica e violenza tra storia e storiografia, Gammaro editori, Sestri Levante, 2010, p. 24; Bellotti, Nascita e avvento del fascismo in Versilia, cit., pp. 127 – 140; Bianchi, Lotte sociali e dittatura, cit., p. 102.

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accompagnamento alla distruzione delle locali Camere del Lavoro, specialmente in caso di amministrazioni erano socialiste. Molte di esse vennero commissariate nel 1921 (circa l'80,6% in Italia settentrionale): ciò significava avere l'appoggio del governo e di quelle classi dirigenti che, soprattutto dove la presenza socialista era più solida, si sentivano maggiormente escluse dal potere e, di conseguenza, più propense a sostenere i fascisti. All'inizio dell'aprile del 1921 in provincia di Lucca erano già presenti otto sezioni fasciste: Bagni di Montecatini, Bagni di Lucca, Monsummano, Pescia, Pietrasanta, Viareggio e Buggiano. Da questi centri venivano programmate e messe in atto le spedizioni squadristiche e le “gite di propaganda”: queste ultime di solito si concludevano con la bastonatura di qualche sovversivo e, soprattutto, con la fondazione delle sezione locale del fascio, come accadde a Vorno e a Nozzano. Le violenze sistematiche perpetrate dagli squadristi furono spesso e volentieri sostenute dalla condiscendenza delle forze dell'ordine, delle autorità e dell'esercito, che vedevano nelle squadre fasciste, le “forze sane” dell'Italia, da contrapporre a tutti quegli elementi che invece erano «antinazionali e sovversivi».40 Questo avveniva nonostante il fatto che, in un primo momento, i fascisti avessero dato mostra di una certa vicinanza ad elementi prossimi a D'Annunzio e, quindi, di non essere «immuni da tentazioni rivoluzionarie» affini all'arditismo; fu l'antisocialismo, infine, che consentì loro di venire inseriti all'interno di quelle forze patriottiche su cui fare affidamento.41

Le violenze fasciste in provincia di Lucca furono particolarmente intense durante il periodo della campagna elettorale che precedette le elezioni del 15 maggio 1921; i fascisti, infatti, sentivano la necessità di rafforzare la propria presenza politica nella zona, dove alla fine dei conti risultavano ancora piuttosto deboli. Nonostante, infatti, le avvenute fondazioni dei fasci di Forte dei Marmi, Querceta e Ponte all'Ania tra la fine di aprile e l'inizio di maggio (effettuate grazie al sopracitato sistema delle “gite”), la copertura nella provincia di Lucca continuava ad essere scarsa: nella piana di Lucca, ad esempio, le organizzazioni popolari continuavano a controllare tutto il mondo agricolo e rurale, mentre nell'area industrializzata della media valle del 40 Marco Mondini, La politica delle armi. Il ruolo dell'esercito nell'avvento del fascismo, Laterza,

Bari, 2006, p. 62, p. 72. 41 Ivi, p. 72.

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Serchio le associazioni socialiste erano ancora parecchio forti. Nel frattempo, il sopraggiungere delle elezioni contribuiva ad accrescere le tensioni già esistenti, raggiungendo il culmine durante i giorni 1 e 2 maggio, con l'assalto e la devastazione della Camera del Lavoro di Pietrasanta e di quella di Viareggio, dove fu attaccato e danneggiato anche il circolo dei calafati, una delle sedi principali del socialismo versiliese. Come rilevarono anche le prime indagini compiute all'epoca dalle autorità, gli assalti vennero effettuati principalmente da «fascisti forestieri» provenienti da Pisa, Livorno, Firenze e Lucca. Quest'ultima squadra era capitanata da un giovane Carlo Scorza, un ras di modeste origini sociali.42

Nello stesso periodo, intanto, il Partito Socialista, già da tempo diviso in due correnti, vide sancita definitivamente la scissione con il Congresso di Livorno, quando fu ufficialmente fondato il Partito Comunista d'Italia. Sull'argomento era intervenuto Luigi Salvatori in un'intervista rilasciata il 15 gennaio 1921 (alla vigilia del congresso) per le pagine del quotidiano fiorentino La Nazione:43

Io sono a sinistra. Per me la sinistra è l'avvenire: il socialismo oggi è per la secessione dei comunisti e per l'allontanamento dei riformisti. Certamente l'unità nel senso dell'abbracciamoci è una formula d'ipocrisia fino a che nel partito vi siano due stati mentali: quello che nasce dalla formula del programma di Genova […] e l'altra, della formula recente di Bologna, che concepisce il potere di classe con il superamento violento delle resistenze borghesi, come arma di costruzione. La divisione del partito nei due poli dovrebbe essere logica.44

Il Partito Socialista non era riuscito a superare indenne il passaggio “traumatico” al partito di massa del primo dopoguerra: «l'apertura verso il nuovo» era infatti accompagnata da vecchi comportamenti che condussero la direzione del PSI ad «affrontare la crisi postbellica senza definire una strategia che andasse oltre il rifiuto della guerra e la parola d'ordine di “fare come in Russia”». La nascita della frazione comunista ebbe diverse motivazioni, di origine sia internazionale che nazionale: se, da un lato, una delle più lampanti fu la rivoluzione bolscevica (con la conseguente 42 Bianchi, Lotte sociali in Lunigiana storica e Versilia, cit., pp. 137 – 138, p. 145, pp. 148 – 149, p.

233; Giulia Albanese, La Marcia su Roma, Laterza, 2006, Bari, pp. 22 – 25; Falorni, Nascita e avvento del fascismo in Versilia, cit., p. 45, pp. 55 – 60 e p. 71; Pardini, Alle radici del fascismo “intransigente”, cit., pp. 24 – 25, p. 28, pp. 40 – 41.

43 Ivi, p. 37; Pardini Alle radici del fascismo “intransigente”, cit., p. 41. 44 Giannelli, La Versilia in camicia nera, cit., p. 37..

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richiesta da parte del Comintern di abbandonare il riformismo e di accettare la denominazione comunista) dall'altro non si possono non sottolineare le varie ragioni legate alla situazione interna al paese, segnata da un biennio di tensioni e confitti sociali che convinsero più di un militante socialista dell'approssimarsi di una rivoluzione anche in Italia. Il possibile esito rivoluzionario del biennio rosso, d'altronde, fu all'origine anche dell'espansione del movimento squadrista. Il Partito Comunista d'Italia ottenne un seguito immediato in quelle zone ove il socialismo aveva da posto tempo delle radici solide, vale a dire in Versilia e, in particolare, a Pietrasanta ed a Viareggio, dove il Pcd'I confermava una volta di più la sua origine proletaria,che identificava gli operai dei cantieri navali e delle officine. Nello stesso tempo, tuttavia, la maggior parte dei lavoratori era rimasta legata al partito socialista, «quasi a confermare la fase di rifusso della componente rivoluzionaria» della primavera – estate del 1920.45

In questo clima ebbero luogo le elezioni politiche del 1921, che videro la provincia di Lucca inserita in unico collegio elettorale assieme a Pisa, Livorno e Massa Carrara. Le liste presentate furono sei: liberale, socialista, comunista, popolare, repubblicana e infine il Blocco nazionale giolittiano, a sua volta composto da un insieme di forze conservatrici (socialriformisti, nazionalisti, democratici, combattenti e fascisti). Fu con le elezioni del 15 maggio 1921 che i fascisti riuscirono ad entrare in Parlamento per la prima volta, con oltre 30 deputati. Per quanto riguarda la Toscana, il Blocco fu la lista che riuscì ad ottenere più voti (32,4%), mentre PSI e Pcd'I ottenevano insieme il 41,6% dei voti. In provincia di Lucca, invece, la quota globale dei voti riportati dai due partiti sfiorava il 28% del totale, di cui solo il 5,21% spettava al Pcd'I; il blocco ricevette il 29,28% dei voti, seguito a ruota dal 26% del PPI.46

Mentre in linea generale le forze conservatrici avevano ottenuto dei buoni risultati sul piano elettorale, dal punto di vista pratico una di esse – il fascismo – non era ancora riuscita a rafforzare la propria presenza nel territorio di Lucca ed anzi si

45 Giorgio Galli, Storia del partito comunista italiano, Schwarz Editore, Milano, 1958, p. 47; Albertina Vittoria, Storia del PCI, 1921 – 1991, Carocci, Roma, 2006, pp. 12 – 13; Natoli, Guerra civile o controrivoluzione preventiva?, cit., p. 211; Bellotti, Lotta di classe in Versilia, cit., p. 65; Falorni, Nascita e avvento del fascismo in Versilia, cit., p. 46; Bianchi, Lotte sociali e dittatura, cit., p. 135.

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vedeva ancora opporre resistenza, come nel caso dei “martiri di Valdottavo”: il 22 maggio 1921 alcuni fascisti di ritorno da una manifestazione furono colpiti da un lancio di massi, che causò la morte di due squadristi e il ferimento di altri tre, provocando immediate e sanguinose reazioni.47 La violenza squadrista lucchese, intanto, continuava ad abbattersi inesorabilmente contro le strutture sovversive ed anche contro quelle dei popolari e aumentò costantemente durante il corso del 1921, al punto che alla fine di quell'anno furono registrati oltre 70 scontri a carattere politico. Soprattutto, erano metodici e frequenti gli assalti alle Camere del Lavoro ed alle sedi socialiste in generale. Spesso tali attacchi venivano compiuti da fascisti di altre provincie, come nel caso delle devastazioni compiute in Versilia nel mese di maggio: questo accadeva sia perché era una prassi tipica dell'agire squadristico, sia perché le squadre lucchesi nella prima metà del 1921 non avevano ancora raggiunto una forza sufficiente da consentire loro di agire autonomamente. I fascisti non locali, inoltre, godevano di una libertà di movimento e di azione ancora maggiore che aumentavano la possibilità di poter agire impunemente, come nel caso della distruzione della Camera del Lavoro di Seravezza.48

Il paese di Seravezza era un centro marmifero dove l'ideologia socialista e quella anarchica, dopo un primo periodo di assestamento, erano riuscite a radicarsi a fondo. Era considerata la «roccaforte del sovversivismo versiliese»49 e la sua Camera del Lavoro, in particolare, aveva un'infuenza talmente ampia da condizionare anche i lavoratori della Garfagnana: essa era diventata, con il passare degli anni, una «vera e propria succursale di quella di Carrara ed era guidata da un infaticabile sindacalista anarchico, Attilio Fellini».50 Il 12 luglio 1921 la Camera fu assaltata dai fascisti locali. I risultati di tale azione, tuttavia, non portarono alcun giovamento concreto ai fascisti, poiché i socialisti riuscirono a riorganizzarsi ed a recuperare il controllo delle proprie strutture. La distruzione definitiva della Camera del Lavoro di Seravezza avvenne quasi un anno dopo, il 19 maggio 1922, ad opera delle squadre di Carrara (dunque,

47 Su Valdottavo cfr anche Nicola Laganà, I fatti di Valdottavo: un esempio della strategia della tensione applicata da Carlo Scorza nella Val di Serchio, pp. 83 e seg, in Quaderni di FareStoria, n.2, maggio – dicembre 2011.

48 Bianchi, Lotte sociali e dittatura, cit., p. 48. 49 Giannelli, La Versilia in camicia nera, cit., p. 63. 50 Ibidem.

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squadre non locali) guidate dal ras Renato Ricci, che sferrò l'attacco questa volta con una forza di duecento uomini. Nell'occasione il segretario Fellini venne addirittura sequestrato dai fascisti e riuscì a salvarsi solo grazie al provvidenziale intervento dei carabinieri.51

L'intervento dei carabinieri fu risolutivo per le sorti del Fellini, ma solitamente l'atteggiamento delle autorità era un altro. Durante il periodo di agitazioni del primo dopoguerra, infatti, il governo si era accorto di non disporre di una forza da contrapporre a quella che appariva come una crescente ondata rivoluzionaria: per questo motivo, sotto Nitti, venne fondato il corpo di polizia delle Guardie Regie, il cui compito sarebbe stato esclusivamente quello di «difendere le istituzioni», cioè «affrontare gli scontri di strada e di piazza contro i lavoratori». Mentre le nuove forze di polizia venivano addestrate, tuttavia, il compito di combattere il moto proletario fu affidato proprio allo squadrismo fascista, di cui i governanti volevano avvalersi controllandolo e condizionandolo. Come disse Giacomo Matteotti in un discorso da lui pronunciato il 31 gennaio 1921 alla Camera dei deputati:

[…] oggi in Italia esiste una organizzazione pubblicamente riconosciuta e nota nei suoi aderenti, nei suoi capi, nella sua composizione, nelle sue sedi, di bande armate, le quali dichiarano […] apertamente che si prefiggono atti di violenza, atti di rappresaglia, minacce, violenze, incendi, e li eseguono, non appena avvenga o si pretesti avvenga alcun fatto commesso dai lavoratori a danno dei padroni o della classe borghese. […] La verità è che la violenza e l'illegalità in cui si pone quella organizzazione armata, corrisponde, in questo momento, ad un supposto interesse della classe capitalistica. Il problema è tutto qui, onorevoli colleghi!52

La connivenza delle autorità era dunque la norma, ma vi furono anche delle clamorose eccezioni. Una di esse fu rappresentata dai fatti di Sarzana del 21 luglio 1921. Sarzana era «un'isola rossa» in un territorio che stava ormai finendo sotto il controllo dei fascisti, grazie sia alle elezioni, sia al solito metodo della violenza squadrista; i sarzanesi sapevano che, di lì a breve, sarebbe giunto anche il loro

51 Ivi, p. 49; Bianchi, Lotte sociali e dittatura, cit., p. 218; Falorni, Nascita e avvento del fascismo in Versilia, cit., p.74 e pp. 103 - 106; Giannelli, La Versilia in camicia nera, cit., pp. 63 – 64.

52 Giacomo Matteotti, Difendiamo la civiltà contro la barbarie, in Anna Paglialuca (a cura di), Giacomo Matteotti contro il fascismo, Edizioni Avanti! Milano – Roma, 1954, pp. 1 sgg., citato in Paolo Alatri, L'antifascismo italiano (I), Editori Riuniti, 1961, pp. 87 – 88.

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turno.53 In un clima già febbrile a livello regionale, anche a Sarzana (soprattutto dopo l'avvenuta fondazione, il 5 giugno, del fascio locale) si verificò un crescendo di tensioni e di scontri, che sfociarono infine nei fatti del 21 luglio. Quel giorno, decine di squadristi giunti da tutta la Toscana attaccarono la città, scontrandosi tuttavia con la decisa opposizione dei carabinieri, i quali risposero al fuoco e costrinsero i fascisti a disperdersi per le campagne che circondavano Sarzana, dove cittadini esasperati e gruppi di Arditi del popolo diedero loro del filo da torcere in una vera e propria «caccia al fascista».54 Il mancato appoggio allo squadrismo del 21 luglio fu causato da diversi fattori: uno, in particolare, era dettato dalla volontà di Bonomi di isolare le forze dell'estrema sinistra, ma anche di contenere l'azione fascista, inserendola all'interno del panorama liberale in un programma di pacificazione. Sarzana, in questo senso, avrebbe rappresentato una prova decisiva; vista la presenza degli Arditi del popolo e considerata l'esasperazione dei sarzanesi, le autorità decisero di evitare quanto più possibile lo scontro sanguinoso, ma d'altro canto non vollero nemmeno affidare la difesa della città esclusivamente a gruppi antifascisti guidati da socialisti, comunisti e anarchici.

Quella del fascismo fu una «controrivoluzione preventiva» (perché la rivoluzione in realtà non ci fu, ma era comunque attesa e temuta), che avrebbe dovuto realizzarsi lungo due binari paralleli: da una parte attraverso l'utilizzo della violenza e dall'altra tramite «la connivenza con le forze politiche tradizionali», in un particolare connubio che prevedeva sia l'assunzione di una posizione legalitaria da parte dei dirigenti fascisti, sia il continuare a fare uso del mezzo dell'azione squadrista, mantenendo un atteggiamento ambiguo che sarebbe perdurato fino alla marcia su Roma. Ciò che accadde in seguito, invece, fu che la forza dilagante del fascismo ruppe le barriere che il governo aveva sperato di imporre, perché lo Stato liberale «non aveva più la forza per difendersi perché la sua classe dirigente era in disfacimento». All'inizio dell'estate del 1922 il fascismo era ormai un movimento dilagante che si accingeva a concludere la sua corsa al potere: ciò avvenne il 28 ottobre 1922, giorno della marcia su Roma. L'avvento al potere di Mussolini fu accompagnato quasi immediatamente da «un vasto movimento di prefetti e alti funzionari», che colpì soprattutto quelli «considerati 53 Cfr. Ventura, I primi antifascisti. Sarzana,estate 1921,cit., citazione a p. 16.

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