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D’altro canto, non poteva neppure essere considerato uno sciamano indio

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Academic year: 2021

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INTRODUZIONE

Un giorno per caso ho letto in un articolo su una rivista divulgativa una storia curiosa:la storia di un conquistatore spagnolo Alvar Nunez Cabeza De Vaca. Egli partì nel 1527 per conquistare e governare alcune province in America. La spedizione fu un disastro, prima ci fu una diserzione massiccia e poi a causa degli scontri con le tribù indios, le malattie e la fame alla fine del 1528 restarono solo in quattro. Iniziò per loro un viaggio che li avrebbe portati al cuore di ciò che volevano conquistare. Cabeza De Vaca fu accolto in una tribù indios, con la quale visse per lunghi anni, addirittura divenne sciamano e fece molte guarigioni. Quando tornò nella sua terra, la Spagna, parlava degli indios con il “noi” e degli spagnoli con il “voi”. L’autore dell’articolo scrive:

“non possiamo sapere esattamente che cosa, anzi chi fosse diventato ai suoi stessi occhi Nunez quando scriveva la sua stessa storia. Non poteva essere più un cristiano e uno spagnolo come prima, probabilmente.

D’altro canto, non poteva neppure essere considerato uno sciamano indio

come tutti gli altri […] é un interprete, un traghettatore di messaggi tra le

due sponde del fiume, su cui naviga a suo rischio e pericolo […] cambiò

divenne più completo e probabilmente anche più incerto, più confuso

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circa la sua identità di spagnolo e di cristiano”. Il racconto di quest’esperienza è contenuto in un libro dall’affascinante titolo Naufragi

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. Il tema del naufragio dell’identità, del viaggio reale o

simbolico che porta allo spaesamento mi ha sempre affascinato e mi ha portato ad interessarmi di migrazioni. Questo forse è dovuto anche , se è vero come dice Piero Coppo che non si possono dimenticare i propri antenati anche quando si vorrebbe, al fatto che provengo da una terra, il Salento, impregnata di partenze ed arrivi, terra colonizzata da arabi, spagnoli e normanni e terra di partenza per tanti salentini in cerca di una vita migliore.

Anche una disciplina come l’etnopsichiatria è legata al tema del naufragio, il naufragio epistemologico. E’ una di quelle discipline che si situa alla frontiera lì, come dice Nathan, dove i professori si mangiano l’uno con l’altro”. Una disciplina che si situa tra la psicologia, la psicoanalisi, l’antropologia e che mette in discussione molti assunti dati per scontati da queste discipline, soprattutto quelle psicologiche che hanno cercato a lungo di darsi uno statuto di scientificità.

Ancora più spiazzante risulta il pensiero di Tobie Nathan che ha fatto un passo in più rispetto all’etnopsichiatria tradizionale ed ha posto il

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problema dal punto di vista della clinica, aprendo così nuovi interrogativi. Avendo constatato l’inefficacia delle psicoterapie di fronte al paziente migrante si è posto il problema di creare un nuovo dispositivo terapeutico che potesse risultare più efficace. La creazione di questo nuovo dispositivo porta con se numerose questioni tecniche ma anche numerose questioni teoriche. Tra queste ho cercato di approfondirne una e cioè la questione dell’appartenenza e la funzione della cultura nel dispositivo di Nathan.

Nathan sembra intendere la cura come un ricostruire le appartenenze, ed in particolare le appartenenze originarie, e questo aspetto del suo dispositivo ha suscitato molte polemiche in Francia. Egli è stato addirittura accusato in qualche modo di essere uno psicologo del ghetto, per un alcuni concetti espressi in uno dei suoi libri più famosi L’influence qui guérit. In ogni caso il suo lavoro ha suscitato un aspro dibattito in

Francia, dibattito che ha coinvolto numerosi intellettuali e che ruota attorno al ruolo della cultura originaria nei dispositivi di cura dei migranti. In ogni caso il lavoro di Tobie Nathan, che ci si trovi d’accordo su tutto o no, merita di essere conosciuto e studiato, soprattutto perché egli ha messo in rilievo l’importanza della cultura nella clinica.

Riflettere sulle pratiche terapeutiche con i migranti diventa importante

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anche in Italia. Il fenomeno migratorio in Italia è sempre in aumento, e se all’inizio le politiche d’immigrazione sono state improntate soprattutto sull’emergenza e sui problemi più immediati: casa,lavoro,permesso di soggiorno, lingua,con il passare degli anni ci si troverà davanti a nuovi problemi. Se dobbiamo credere a Nathan che afferma che il disagio psichico affiora dopo molti anni di migrazione, proprio quando il migrante inizia a sentire di perdere il legame con la propria identità e la propria cultura dobbiamo pensare che fra qualche anno in Italia saremo alle prese sempre di più con problematiche di disagio psichico da parte dei migranti.

Gli enti pubblici e i servizi socio-sanitari già si trovano con molte

difficoltà ad affrontare queste tematiche .Certo la situazione in Italia è

molto differente da quella francese. Le risposte che dovranno essere date

saranno peculiari, il dispositivo di Nathan risulta difficilmente esportabile

in Italia per tanti motivi, non ultimo quello economico. Ogni

consultazione al Centro G. Devereux, il centro dove opera Nathan, costa

circa tremila euro che sono completamente finanziati dagli enti e le

istituzioni pubbliche. In Italia l’etnopsichiatria viene da una tradizione

diversa, assume forme diverse e deve fare i conti anche con questi aspetti

economici, per costruire i propri dispositivi di cura.

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Il lavoro di Nathan è comunque importante per una riflessione critica sulle pratiche di presa in carico dei migranti. Il primo capitolo della tesi è dedicato a un’introduzione critica dell’etnopsichiatria e a Georges Devereux, considerato il fondatore dell’etnopsichiatria francese e da Nathan il suo maestro. Devereux è stato un uomo incredibilmente eclettico, ha studiato la fisica, l’antropologia, è diventato psicoanalista e ha studiato la mitologia greca. Nathan lo descrive come un maestro, non tanto per quello che gli ha insegnato a livello di nozioni ma perché gli ha posto delle questioni che lo continuano ad accompagnare nella vita.

Questo lavoro cerca di raccontare il pensiero e il lavoro di Tobie Nathan:

egli ha scritto numerosi libri e moltissimi articoli pubblicati soprattutto

nella rivista Nouvelle Revue d’Ethnopsychiatrie. Il secondo capitolo

cerca di descrivere i punti che mi sono sembrati fondamentali del suo

pensiero e il dispositivo etnopsicoanalitico che è andato perfezionando

durante la sua esperienza. Le prime esperienze di consultazione le fa

presso l’ospedale Avicenne di Bobigny, ma l’esperienza più consistente

la fa presso il Centro “Georges Devereux”, centro di terapia per

migranti e loro famiglie che lui stesso fonda. Mi soffermo sulle

modificazioni tecniche che nel tempo sono state inserite al dispositivo

terapeutico, avendo constatato l’inefficacia di quello occidentale. Viene

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introdotto il mediatore etno-clinico che permette l’uso della lingua madre, ma che nello stesso tempo stravolge il setting psico-terapeutico, le consultazioni vengono fatte in gruppo con la presenza di vari co-terapeuti appartenenti a varie culture. Analizzo l’importanza che Nathan dà alle teorie eziologiche tradizionali e l’uso che egli ne fa nella terapia.

L’ultimo capitolo è dedicato ad approfondire la questione

dell’appartenenza, partendo dal dibattito che si è tenuto in Francia tra

Nathan ed altri professionisti, psicologici clinici e antropologi, sul suo

modo di interpretare la cultura. Partendo da questo punto, mi soffermo,

sulla posizione che il lavoro di Nathan assume all’interno del dibattito

contemporaneo intorno a questioni d’identità, incontro fra culture,

rapporti di potere tra culture dominanti e culture subalterne e i delicati

equilibri tra bisogno di appartenenza e istanze di autonomia.

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