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3. Le cellule staminali

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I I NT N TR R O O DU D UZ ZI I O O NE N E

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Molti sono gli studi che avvalorano sempre più l’ipotesi che processi di differenzazione diversi siano orchestrati da sistemi di regolazione comuni. Pertanto geni che codificano fattori di crescita, recettori e fattori di trascrizione sono coinvolti nel controllo di cellule staminali e precursori di differenti tessuti. Ad esempio, il recettore per lo Stem Cell Factor (SCF) svolge un ruolo di primaria importanza in vari tipi di cellule staminali e precursori quali quelli ematopoietici, germinali e cardiaci. Inoltre, intere famiglie di fattori di trascrizione sono implicate nello sviluppo e nella omeostasi di diversi organi e tessuti, anche in organismi evolutivamente lontani fra loro.

1. Gli omeogeni

Una delle famiglie di regolatori che ha riscosso grande interesse è quella degli omeogeni. Questi geni, caratterizzati da una sequenza nucleotidica comune detta omeobox, codificano fattori di trascrizione in grado di legare specifiche sequenze di DNA tramite un dominio proteico, l’omeodominio, (Gehring e Hiromi 1986, Scott et al. 1989, Gerhing et al. 1994, Shivdsani e Orkin, 1996). L’omeobox, identificata per la prima volta nei geni che specificano l’identità dei segmenti di Drosophila (McGinnis et al., 1984; Scott e Weiner, 1984) e, successivamente, in molti altri animali quali i Nematodi, gli Anfibi, gli Uccelli e i Mammiferi, tra cui anche l’uomo (Carrasco et al., 1984; Levine et al., 1984), è costituita da 183 bp e codifica un dominio proteico di 61 aminoacidi altamente conservato nel corso dell’evoluzione (Gehring e Hiromi, 1986).

Gli omeogeni sono fondamentali per il corretto sviluppo embrionale degli organismi pluricellulari poiché contribuiscono al controllo della formazione e del posizionamento degli assi del corpo (Fuller et al., 1999). Il termine omeogeni nasce dal fatto che alcuni di questi geni, se mutati, provocano alterazioni note come trasformazioni omeotiche, nelle quali una struttura è sostituita da un’altra. Per esempio, in una mutazione della Drosophila un segmento del corpo del moscerino, normalmente privo di ali, è trasformato in un segmento adiacente che è invece provvisto di ali: il risultato è una mosca con quattro ali. Piu’ recentemente è stata dimostrata la loro importanza anche in processi differenziativi di tessuti adulti, fra cui quello ematopoietico. Numerose evidenze sperimentali indicano che molti dei circa 200 omeogeni finora identificati, sono coinvolti nella complessa serie di eventi che determina la formazione delle cellule del sangue (Magli, 1997; Van Oostveen, 1999; Owens e Hawley, 2002). Infatti alcuni

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di traslocazione associati alla comparsa di vari tipi di leucemie e linfomi. Inoltre, la modulazione della loro espressione è in grado di generare alterazioni nella proliferazione e/o differenziazione delle cellule sanguigne.

Gli omeogeni sono stati suddivisi in varie classi in base all’organizzazione all’interno del genoma, alle capacità di legame al DNA e all’omologia di sequenza aminoacidica degli omeodomini da essi codificati. Nei vertebrati i geni con sequenze omeobox strettamente omologhe a quelle del gene Antennapedia (Antp) di Drosophila (geni Hox) sono definiti omeogeni di classe I e raggruppati in clusters. Le famiglie di omeogeni situate fuori dai clusters Hox, sono invece designate di classe II (Acampora et al. 1989).

1.1 Omeogeni di classe I: i geni HOX

La famiglia dei geni Hox gioca un ruolo fondamentale nella morfogenesi dell’embrione, in particolare nella definizione delle varie regioni lungo gli assi corporei (Hunt e Krumlauf, 1992). I geni Hox sono presenti nei genomi di tutti gli animali fino a ora sequenziati e anche nelle piante e nei funghi; tuttavia, mentre negli animali sono raggruppati in clusters, nei funghi e negli organismi unicellulari l’organizzazione in gruppi non è presente (Lappin et al., 2006). L’organizzazione in clusters dei geni Hox e’ probabilmente il risultato di eventi di duplicazione e di divergenza avvenuti nel corso dell’evoluzione a partire da un unico complesso genico presente in un antenato comune agli insetti e vertebrati (Stuart et al., 1991). Una volta separatesi le due linee filetiche, negli insetti si sarebbero formati i due complessi genici Antennapedia (ANT-C) e Bithorax (BX-C) che controllano l’identità dei segmenti della regione gnatale della testa, del torace e dell’addome (Lewis, 1978). Nei vertebrati, invece, lo stesso processo avrebbe portato alla formazione di quattro clusters Hox (A, B, C e D) localizzati su cromosomi distinti. (Duboule e Dollè, 1989; Kappen et al., 1989).

I geni Hox sono piccoli, ognuno contentente soltanto due esoni e un piccolo introne di dimensioni variabili tra 200 basi e diverse kilobasi. L’omeobox si trova sempre nel secondo esone e mostra un alto grado di omologia tra i vari membri della famiglia. I membri Hox che appartengono a diversi clusters, ma condividono omeodomini altamente omologhi, sono raggruppati in 13 gruppi paraloghi. L’omologia fra i geni dello stesso gruppo e’ maggiore rispetto a quella esistente fra i geni di uno stesso cluster.

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Come in Drosophila, anche nei Vertebrati, l’ordine fisico dei geni all’interno dei quattro loci è altamente conservato suggerendo quindi che la loro disposizione non sia casuale bensì strettamente funzionale alla loro modalità di espressione (Graham et al., 1989). Infatti, esiste una corrispondenza tra la posizione sul cromosoma in direzione 3’- 5’ e l’espressione di questi geni lungo l’asse antero-posteriore: i geni localizzati all’estremità 3’ sono attivi nelle regioni anteriori dell’animale, mentre quelli al 5’ sono espressi più posteriormente (Akam, 1989; McGinnis e Krumlauf, 1992) (Figura 1).

Oltre a questa colinearità spaziale, è stata messa in luce anche una colinearità temporale: i geni Hox, infatti, non si attivano tutti contemporaneamente durante lo sviluppo, piuttosto la comparsa dei trascritti dei geni appartenenti ad un determinato locus è colineare con l’ordine in cui sono disposti all’interno del locus stesso (Boncinelli, 1994).

Fig 1: I geni Hox. Concetto di colinearità spaziale: nell’uomo come in Drosphila i geni Hox vengono espressi durante lo sviluppo in un ordine altamente conservato che rispecchia la loro posizione nel cluster di appartenenza.

I geni Hox sono quindi espressi durante lo sviluppo embrionale in un ordine altamente coordinato ma un gran numero di studi indicano che essi continuano a essere espressi in tessuti e organi anche durante la vita adulta (Lappin et al., 2006) e che sono coinvolti anche in diverse patologie. Ad esempio il gene HOXA10, sembra aumentare la sua espressione in diversi tipi di tumore quali l’adenocarcinoma dell’endometrio umano (Lane et. al, 2004). Questo gene è anche un’esempio di come i geni Hox siano coinvolti in diversi sistemi nell’individuo adulto oltre che nello sviluppo. Durante l’embriogenesi

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murina, Hoxa10 partecipa all’organizzazione dei nervi spinali e dei motoneuroni (trattato in Carpenter, 2002) ed è espresso nel mesoderma presomitico che darà origine allo scheletro assiale. Esso coopera con altri geni Hox per la corretta determinazione dei segmenti anteriori, come il radio, l’ulna, la tibia e il femore (Wellik e Capecchi, 2003;

Hassan et. al 2007). Nella vita adulta sembra avere un ruolo nell’ematopoiesi normale e patologica, in quanto la sua espressione costitutiva in cellule midollari utilizzate in saggi di ripopolazione in vivo determina l’insorgenza, negli animali trapiantati, di una leucemia mieloblastica acuta (AML, Acute Myelomonocytic Leukemia), mentre la sua ablazione comporta un forte aumento del numero dei granulociti e dei monociti (Zhang et al., 1996). Questi risultati suggeriscono quindi che Hoxa10 possa avere un ruolo nella regolazione della differenziazione mielomonocitaria.

Molti altri geni Hox sono espressi nell’ambito della gerarchia ematopoietica, secondo un profilo simille a quello seguito durante lo sviluppo. I dati raccolti negli ultimi anni indicano che le cellule ematopoietiche esprimono un repertorio di geni Hox caratteristico dello specifico lineage o del determinato stadio di differenziazione (Magli et al., 1997; Abramovich e Humpries, 2005).

1.2 Omeogeni di classe II: l’esempio della famiglia Paired

Gli omeogeni di classe II includono un gran numero di geni sparsi lungo tutto il genoma che, tuttavia, possono essere suddivisi in distinte famiglie sulla base di omologie di sequenza e di funzione (Mark et al. 1997). Alcune di queste sono le famiglia Paired, Pbx, POU, CDP, DLX, PBC, LIM. Una delle famiglie più importanti è quella dei geni Paired, codificanti fattori di trascrizione che, preferenzialmente, si legano come dimeri cooperativi a sequenze palindromiche di DNA, creando in questo modo un’interazione più forte e specifica con la doppia elica (Wilson et al., 1993).

Alcuni tra i più importanti prodotti proteici di questa famiglia sono le proteine PAX che, oltre ad avere l’omeodominio, possiedono anche un secondo motivo di legame al DNA, il dominio paired, e le omeoproteine OTX, che invece legano la doppia elica solo tramite l’omeodominio (Treisnman et al., 1991). I geni Pax sono espressi secondo un pattern spazio-temporale ben preciso durante l’embriogenesi dal giorno 8 al giorno 9.5 sia nel mesoderma che nell’ectoderma primitivo (Walther et al., 1991). Alcuni membri di questa famiglia genica hanno un ruolo altamente conservato in diversi organismi, così come anche un determinato gene della famiglia è in grado di regolare diversi

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processi all’interno dello stesso individuo. Un esempio del primo caso è Pax6, un gene master nella formazione dell’occhio in moltissimi organismi dagli invertebrati fino all’uomo (Gehring and Ikeo, 1999). Il gene Pax5 rappresenta, invece, un esempio di regolazione trasversale in diversi sistemi. Infatti esso svolge una funzione di primo piano durante l’embriogenesi per la formazione del cervello (Gruss e Walther, 1992;

Joyner, 1996), ma è coinvolto anche nella produzione delle cellule del sangue, in particolare nella linfopoiesi. Qui il ruolo di Pax5 è cruciale per il commitment delle cellule B in quanto il fattore di trascrizione da esso codificato riduce le potenzialità differenziative dei precursori pluripotenti agendo sia come repressore che come attivatore trascrizionale (Nutt et al., 2001). Infatti, tale omeogene oltre ad attivare la trascrizione di geni B-specifici (ad esempio CD19 e Ig α) è responsabile anche dell’inattivazione di geni specifici di altre filiere ematopoietiche, ad esempio il recettore del fattore di stimolazione dei macrofagi (M-CSFR) (Nutt et al., 1999).

Pax5 è inoltre strettamente collegato allo sviluppo di linfomi delle cellule B: a seguito della traslocazione t(9;14)(p13;q32), associata al 50% dei linfomi linfoplasmacitoidi, la sequenza codificante di Pax5, fondamentale per la proliferazione e differenziazione del lineage B, si viene a trovare sotto il controllo dell’enhancer della catena pesante dell’immunoglobulina (IgH), inducendo cosi’ l’attivazione costitutiva di Pax5 che determina il blocco della maturazione delle cellule B (Busslinger et al., 1996).

2. I geni Otx

Ormai da molti anni, uno degli interessi principali della biologia dello sviluppo è stato chiarire i meccanismi molecolari che controllano l’induzione, la specificazione e la regionalizzazione del cervello. In particolare, è stata raccolta una significativa quantità di dati sul ruolo dei geni che sembrano controllare la morfogenesi del cervello dei vertebrati. Gran parte di questi risultati sperimentali deriva da un’analisi comparativa tra alcuni geni di Drosophila, che codificano molecole segnale o fattori di trascrizione, e i corrispondenti geni omologhi isolati nei Vertebrati (Lemaire e Kodjabachian, 1996;

Rubenstein et al., 1998). Tra questi uno dei più importanti è il gene Otd (Orthodenticle) di cui sono stati trovati gli omologhi nei Vertebrati, noti come geni Otx.

In Drosophila l’omeogene Orthodenticle, inizialmente largamente attivo allo stadio di blastoderma, durante la gastrulazione restringe la sua espressione confinandosi nelle zone in cui si formerà il cervello anteriore (Younossi-Hartenstein et al., 1997). Il

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dominio di espressione spazialmente ristretto di Otd si correla bene con gli effetti della sua perdita di funzione sulla specificazione del cervello rostrale di Drosophila (Younossi-Hartenstein et al., 1997; Hirth et al., 1995). Mutazioni omozigoti nulle di Otd, risultano nella delezione del protocerebro presuntivo, dovuta alla mancata specificazione del neurectoderma in queste regioni. Oltre ai difetti nel cervello anteriore la mutazione Otd colpisce lo sviluppo di strutture visive e meccanosensorie e causa difetti nella linea mediana nella corda nervosa ventrale (Younossi-Hartenstein et al., 1997; Schmidt-Ott et al., 1994).

Le proteine Otx nei Vertebrati sono fattori di trascrizione che presentano un omeodominio della classe bicoid, che determina la specificità di legame (Treisnman et al., 1991), una regione basica, un dominio WSP e un motivo amminoacidico caratteristico che viene detto otx-tail (Fig. 2a, 2b) e che è assente nelle proteine otd (Furukawa et. al, 1997). Gli omologhi murini Otx1 e Otx2 sono espressi nella testa in via di sviluppo, in domini sovrapposti e concentrici dell’encefalo. Numerose evidenze sperimentali indicano che Otx1 e Otx2 sono coinvolti nella specificazione regionale e nella morfogenesi delle strutture del cervello. Inoltre, la loro espressione si può riscontrare anche a livello degli organi di senso in via di formazione deputati principalmente alla percezione visiva e olfattiva (Simeone, 1998).

Fig 2: Struttura delle proteine Otx.

Struttura generale dei fattori Otx, con un omeodominio e una coda Otx caratteristica del gruppo (A). Modello tridimensionale delle proteine Otx (B).

A

B

Otx-tail omeodominio

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I due omeogeni sono attivati sequenzialmente durante lo sviluppo embrionale. In particolare, Otx2 viene ad essere espresso prima dell’inizio della gastrulazione, essendo i suoi trascritti presenti nell’embrione di topo allo stadio di pre-stria (Simeone et al., 1993; Ang et al., 1994). Durante questa prima fase, la proteina Otx2 è sintetizzata nelle cellule dell’endoderma viscerale (VE, visceral endoderm) ed è necessaria sia per sostenere la trascrizione dell’omeogene nell’epiblasto sovrastante sia per mediare segnali verticali diretti all’epiblasto (Simeone et al., 1993). Con l’inizio della gastrulazione, man mano che la stria primitiva si allunga in direzione postero-anteriore, l’espressione di Otx2 si restringe gradualmente alla regione più anteriore dell’embrione, interessando i tre foglietti embrionali. Infatti si pensa che un segnale positivo proveniente dal mesoderma assiale anteriore e dall’endoderma viscerale anteriore agisca mantenendo l’espressione di Otx2 nel sovrastante neuroectoderma; mentre un segnale negativo che parte dal mesoderma assiale posteriore andrebbe a definire il confine posteriore del pattern di espressione di Otx2 (Simeone et al, 1993). Infatti embrioni Otx2 -/- presentano un’anormale organizzazione del mesoderma e l’assenza del neuroectoderma rostrale, il che determina la loro morte precoce (Simeone et al., 1993; Acampora et al., 1995). Una volta formatasi la piastra neurale, Otx2 potrebbe essere richiesto autonomamente nel neuroectoderma rostrale per specificare e mantenere l’identità del prosencefalo e del mesencefalo (Acampora et al., 1997).

L’omeogene Otx1 comincia ad essere espresso nel neuroectoderma anteriore al giorno 8 di gestazione, in una regione continua del prosencefalo-mesencefalo presuntivo compresa nel dominio di espressione di Otx2. Dal giorno 10.5 di gestazione la sua espressione si estende anche ad alcune aree mesencefaliche (Simeone et al., 1992;

Simeone e Boncinelli, 1993; Simeone et al., 2001). Alti livelli di espressione di Otx1 si osservano dapprima nella zona ventricolare del telencefalo dorsale, nelle cellule progenitrici dei neuroni dello strato profondo e, in seguito, nella piastra corticale costituita dai neuroni postmitotici degli strati 5 e 6 (Frantz et al., 1994). Infine, nella corteccia dell’adulto, questo omeogene è espresso nei neuroni degli strati profondi 5 e 6 (Frantz et al., 1994).

Durante le varie fasi dello sviluppo, Otx1 viene trascritto anche nelle strutture che danno origine agli organi di senso. Inizialmente i suoi trascritti sono presenti nel placoide olfattivo, nel placoide otico e nelle vescicole ottiche e successivamente nell’epitelio olfattivo, nel sacculo, nella coclea e nel canale semicircolare laterale dell’orecchio interno come anche nell’iride, nel processo ciliare e nelle ghiandole

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lacrimali dell’occhio (Simeone et al., 1993). Dopo la nascita, Otx1 viene trascritto a bassi livelli nel lobo anteriore della ghiandola pituitaria (Acampora et al., 1998).

Mediante esperimenti di colture cellulari è stato osservato che questo omeogene può attivare la trascrizione dell’ormone della crescita (Growth Hormone, GH), dell’ormone follicolo-stimolante, (Follicle-Stimulating Hormon, βFSH) e dell’ormone luteinizzante (Luteinizing Hormone, βLH) (Acampora et al., 1998). Gran parte degli studi finalizzati a chiarire il ruolo svolto da Otx1 nello sviluppo del cervello sono stati condotti su topi knock-out (Acampora et al., 1996), che presentano malformazione del telencefalo, del mesencefalo e del cervelletto e manifestano un fenotipo epilettico spontaneo nonché anomalie degli organi di senso acustico e visivo. In particolare, a livello dell’occhio si ha una riduzione dell’iride, l’assenza del processo ciliare e della ghiandola lacrimale, mentre a livello dell’orecchio interno non si ha la formazione del canale semicircolare laterale (Acampora et al., 1996). Le analisi anatomiche e istologiche condotte sui cervelli di tali topi hanno evidenziato una riduzione di circa il 40% dello spessore della corteccia telencefalica dorsale, particolarmente evidente nella regione temporale e in quella peririnale (Acampora et al., 1996). Inoltre, allo stadio prepuberale, i topi Otx1-/- appaiono di piccole dimensioni e manifestano ipogonadismo a causa della mancata produzione degli ormoni GH, βFSH e βLH. Tuttavia, attorno al quarto mese di vita, questi topi recuperano tali anomalie e mostrano livelli ormonali normali e una corretta funzionalità delle gonadi (Acampora et al., 1996).

Il fenotipo Otx1-/-, e l’osservazione che il dominio di espressione di Otx1 è sovrapposto con quello di Otx2, suggeriscono una sinergia o una compensazione funzionale dei due geni Otx, che richiama la funzione dei geni Hox paraloghi. È abbastanza plausibile che Otx1 e Otx2 cooperino per specificare il corretto sviluppo del cervello con una modalità dose dipendente. Infatti embrioni eterozigoti (Otx1+/- ; Otx2+/-) mostrano una grave riduzione del mesencefalo e del diencefalo posteriore con un espansione del rombomero r1 (Suda et al., 1997). Topi che portano solo una copia funzionale di Otx2 (Otx1-/-; Otx2+/-) mostrano un “repatterning” dell’encefalo in via di sviluppo in cui il diencefalo caudale e il mesencefalo sono trasformati in un metencefalo allargato, sia in termini molecolari che morfologici (Acampora et al., 1997). Questi risultati sembrano indicare che i due omeogeni potrebbero cooperare nella regionalizzazione del cervello attraverso un meccanismo di dosaggio genico, per cui la diversificazione dei vari territori dipende strettamente dalla presenza di un livello soglia di proteine Otx (Acampora et al., 1997; Suda et al., 1997).

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Gli studi che negli ultimi anni sono stati portati avanti nel nostro laboratorio hanno dimostrato che Otx1 è coinvolto anche nella produzione delle cellule del sangue.

Questo omeogene infatti è attivo trascrizionalmente in organi ematopoietici quali il fegato fetale, principale sede ematopoietica durante lo sviluppo embrionale, nonchè nel midollo osseo e nella milza dell’animale adulto (Levantini et. al., 2003). L’analisi molecolare effettuata a livello di sottopopolazioni midollari ha evidenziato che Otx1 è differenzialmente espresso in precursori ematopoietici: in particolare i suoi trascritti sono presenti nei progenitori pluripotenti e, in maggior misura, nei precursori della filiera eritroide. Con l’intento di capire quale fosse il ruolo di Otx1 nella produzione delle cellule del sangue, è stato analizzato l’effetto della sua ablazione sul sistema ematopoietico. Topi Otx1-/-, in cui il gene è stato inattivato tramite ricombinazione omologa, risultano anemici e presentano una significativa riduzione dei precursori eritroidi preoci (Levantini et. al., 2003), indicando che la perdita di funzione di Otx1 determina un’eritropoiesi insufficiente, conseguente ad un difetto intrinseco alle cellule staminali ematopoietiche. L’analisi dell’ espressione di possibili targets molecolari dell’omeogene ha messo in evidenza, in cellule di midollo osseo Otx1-/-, una diminuita espressione di geni come Scl e Gata-1, che codificano fattori di trascrizione fondamentali per il differenziamento eritroide (Hall et al., 2003; Mikkola et al., 2003) suggerendo l’ipotesi che Otx1 possa modulare, direttamente o indirettamente, la loro espressione. Esperimenti di rescue funzionale in cui Scl viene esresso costitutivamente in cellule midollari Otx1-/- hanno mostrato che la forzata espressione di Scl è un grado di recuperare totalmente il fenotipo mutante, evidenziando quindi che Scl e Otx1 operano nello stesso pathway trascrizionale per la specificazione del lineage eritroide.

Esperimenti piu’ recenti hanno poi conclusivamente indicato che Scl, gene master dell’ematopoiesi, è un target diretto di Otx1. I risultati ottenuti nel nostro laboratorio avvalorano l’idea che la differenzazione di diversi tessuti coinvolga meccanismi molecolari comuni. Questo, unito al fatto che Scl è attivo anche nell’osteogenesi (Pimanda et al, 2006), rende plausibile pensare che Otx1 sia coinvolto in altri sistemi differenziativi tra cui quello che porta alla formazione dell’osso.

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3. Le cellule staminali

Durante l’embriogenesi, un singolo oocita fecondato è in grado di dare origine a un organismo pluricellulare, attraverso eventi di proliferazione e differenziazione che portano alla formazione di organi e tessuti diversi. Dopo la nascita e per tutta la vita adulta, i tessuti mantengono la loro omeostasi, sostituendo cellule che muoiono naturalmente o a causa di attacchi esterni o patologici. La capacità dell’embrione di creare tutti i tipi cellulari e la capacità di alcuni tessuti adulti di rigenerarsi nel corso della vita è dovuta alla presenza di cellule staminali. Queste possiedono elevate capacità di autorinnovarsi, cioè di dividersi e ricreare altre cellule staminali identiche alla madre, ma anche di proliferare pressochè indefinitamente e differenziare in molteplici tipi cellulari seguendo specifici pathways molecolari. Mentre le cellule staminali dell’embrione sono totipotenti, cioè hanno conservato la capacità di differenziare in tutti i tessuti dell’animale, si ritiene che le cellule staminali dei tessuti adulti possiedano capacità differenziative più limitate (Fuchs et al., 2000). Tuttavia, questa teoria negli ultimi anni è stata messa in discussione da studi che indicano che alcuni tipi di cellule staminali adulte sono in grado di generare progenie tipica di tessuti diversi da quello in cui risiedono, e siano quindi dotate di plasticità (Herzog et al., 2003).

3.1 Le cellule staminali embrionali

Le cellule staminali embrionali derivano dalla massa cellulare interna della blastocisti dell’embrione dei mammiferi, prima dell’impianto nella parete uterina. Le cellule ES possono proliferare moltissimo, mantenendo la loro pluripotenza, ma allo stesso tempo possono dare origine a tutte le cellule dei tre foglietti embrionali e differenziare in tutti i tipi cellulari dell’organismo adulto (Figura 3). Inoltre, possono essere isolate, stabilizzate e cresciute ex vivo, dove continuano a mantenere le loro elevate capacità autorinnovative, proliferative e differenziative. Le cellule ES murine sono state stabilizzate in colture in vitro per la prima volta nel 1981 (Evans e Kaufman, 1981;

Martin, 1981) e nel 1998 sono state generate cellule staminali pluripotenti anche a partire da blastocisti umane (Thomson et al., 1998). Per mantenere le cellule ES in coltura nel loro stato indifferenziato, esse devono ricevere costitutivamente il segnale estrinseco di una citochina, il LIF (Leucemia Inhibitory Factor) (Dani et al., 1998; Niwa et al., 1998), che agisce tramite il suo legame a un eterodimero costituito dal recettore

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per lo stesso LIF e dalla glicoproteina 130 (gp130) che attiva un segnale tramite il pathway molecolare delle proteine JAK e STAT, una chinasi e un fattore di attivazione trascrizionale essenziali per il mantenimento della pluripotenzialità in vitro. In assenza di LIF, spontaneamente le cellule ES coltivate si aggregano formando i corpi embrioidi che differenziano, se esposti ad appropriati fattori di crescita, in diversi lineages cellulari, tra cui cellule muscolari cardiache pulsanti, isole sanguigne, neuroni, cellule endoteliali, cellule pigmentate, macrofagi, cellule epiteliali e adipociti (Dani et al., 1997; Drab et al., 1997). Similmente, se le cellule ES vengono iniettate in topi nudi, queste differenziano in masse multicellulari, definiti teratocarcinomi. Sebbene il programma di espressione genica di queste strutture somigli fortemente al pathway differenziativo tipico dello sviluppo degli animali, la crescita di queste strutture è caotica, e il risultato finale è un miscuglio di tessuti diversi (Fuchs e Segre, 2000).

Non vi è dubbio che le cellule ES siano le più flessibili tra tutte le cellule staminali ma il loro utilizzo a scopo terapeutico è oggetto di accesi dibattiti, sia per la loro possibile tumorigenicità sia sulla base di considerazioni etiche. Pertanto, molti sforzi sono diretti a trovare fonti alternative di cellule pluripotenti capaci di rigenerare organi e tessuti, in particolare nell’ambito delle cellule staminali adulte. Tuttavia le ES rappresentano un modello validissimo per comprendere i meccanismi dello sviluppo embrionale, della differenziazione tissutale e della patogenesi di numerose malattie.

Fig. 3: Pluripotenza delle cellule staminali embrionali.

Le cellule ES della massa interna della blastocisti possono proliferare moltissimo, mantenendo la loro pluripotenza, ma allo stesso tempo possono dare origine a tutte le cellule dei tre foglietti embrionali e differenziare in tutti i tipi cellulari dell’organismo adulto.

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3.2 Le cellule staminali adulte

Come dimostrano gli studi degli ultimi anni, le cellule staminali sono presenti in quasi tutti i tessuti, inclusi la pelle (Watt, 1998), il sistema nervoso centrale (Gage et al., 1995), il muscolo scheletrico (Schultz e McCormick, 1994), il cuore (Beltrami et al., 2003), il midollo osseo (cellule staminali ematopoietiche, HSC, Till e McCulloch, 1961;

cellule staminali mesenchimali, MSC, Friedenstein, 1973), il fegato (Alison e Sarraf, 1998), il pancreas, il polmone, la prostata, le ghiandole mammarie (Welm et al., 2002), il rene (Bussolati et al., 2005), il follicolo pilifero (Al-Awqati e Oliver, 2002), l’intestino (Brittan e Wrignt, 2002).

Le cellule staminali adulte possiedono un’elevata capacità di self-renewal e possono al contempo dare origine a molteplici tipi di cellule mature con funzioni specializzate.

Tipicamente esse generano intermedi cellulari, i progenitori, più limitati nelle loro capacità auto-replicative e differenziative. Questa organizzazione gerarchica sembra essere mantenuta anche nei tumori: infatti durante gli ultimi anni, sono emerse numerose evidenze che anche il tessuto neoplastico possa ospitare cellule staminali (Bonnet e Dick, 1997; Reya et al., 2001; Al-Hajj et al., 2003; Singh et al., 2003; Galli et. al, 2004; Ricci-Vitiani et al., 2006), che avrebbero un ruolo determinante proprio nel mantenimento del processo neoplastico. E’ ormai comunemente accettato che queste

“cellule staminali tumorali” possano essere considerate le vere responsabili della resitenza ai farmaci e della recidività della patologia dopo trattamento. Analisi funzionali e immunofenotipiche avvalorano l’ipotesi che il cancro sia un disordine alimentato proprio dalle cellule staminali, in cui cioè la crescita continua e la propagazione dell’intero tumore dipendono da un piccolo numero di cellule con un grande potenziale auto-replicativo.

Le cellule staminali adulte rappresentano un potenziale strumento terapeutico utilizzabile in un ampio spettro di patologie, quali morbo di Parkinson, Alzheimer, infarto, ustioni, malattie cardiache, diabete, osteoartrite e artridi remautoidi. Inoltre, di grande interesse è la possibilità di elaborare una terapia mirata contro cellule staminali tumorali. Pertanto la comprensione dei meccanismi molecolari che regolano le cellule staminali è assolutamente necessaria per poter disegnare strategie terapeutiche mirate a indurre rigenerazione tissutale ad opera di cellule staminali endogene o attraverso il trapianto di cellule staminali espanse e/o differenziate ex vivo. Nonostante le enormi potenzialità, molti dubbi e difficoltà sono ancora legati all’utilizzo delle cellule

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staminali adulte. Le tecniche di isolamento, mantenimento ed espansione in vitro di alcuni tipi di cellule staminali non sono ancora state ottimizzate e le loro capacita’

differenziative in vivo non ancora comprovate da risultati riproducibili.

Ad oggi il modo migliore con cui le cellule staminali adulte possono essere identificate e distinte è grazie a combinazioni di antigeni di membrana. Tra i più importanti troviamo kit, proto-oncogene localizzato a livello del locus W che codifica un recettore tirosino-chinasico e che è presente sulla superficie di cellule staminali germinali (Bernex et al, 1996), cardiache (Messina et al., 2004; Wu et al., 2006), ematopoietiche (Broudy, 1997) e in una sottopopolazione di cellule staminali neurali (Sun et al., 2004).

Anche Sca-1 (Stem Cell Antigen 1) è caratterizzante molte cellule staminali quali le ematopoietiche (Spangrude et al., 1988; Okada et al., 1992) , le cardiache (Matsuura et al., 2004), le muscolari (Lee et al., 2000). Alcune glicoproteine come CD34 e CD38 sono marcatori di specifici stati di attivazione delle cellule staminali: dati sperimentali mostrano infatti che cellule staminali ematopoietiche in divisione sembrano essere CD34+CD38-, mentre cellule staminali quiescenti si trovano nella frazione CD34- CD38+ (Tajima et al., 2001). Inoltre sono stati identificati altri marcatori, specifici per un determinato tipo di cellula staminale. Un esempio e’ rappresentato dal CD45, presente solo su cellule ematopoietiche. Pertanto, le le cellule staminali sono isolate in base all’espressione di una combinazione di antigeni di membrana. Ad esempio, le cellule staminali ematopoietiche (Hematopoietic Stem Cells HSC), le prime ad essere studiate e caratterizzate (Till e Mc Cullogh, 1961), mostrano un fenotipo CD34-CD45- kit+Sca-1+Lin-. Ogni tipo di cellula staminale adulta esprime quindi una combinazione specifica di antigeni di membrana che la distinguono dalle altre. La presenza del marker CD45, infatti, permette di discriminare le HSC dalle cellule staminali mesenchimali, un’altra popolazione staminale all’interno del midollo osseo. Le HSC costituiscono un modello per le cellule staminali adulte in quanto sono le più conosciute e studiate, anche dal punto di vista del loro potenziale differenziativo: esse sono dotate di elevata capacità autorigenerativa, proliferativa e differenziativa, capacità che vengono progressivamente perse nelle divisioni cellulari successive che, dalle cellule staminali, generano progenitori pluripotenti. Essi, a loro volta, possono intraprendere cammini differenziativi diversi, generando precursori sempre più differenziati e indirizzati verso una specifica filiera cellulare.

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3.2.1 Fattori di regolazione delle cellule staminali adulte

I processi di auto rinnovamento e differenziazione delle cellule staminali adulte sono regolati da interazioni tra le molecole intracellulari, rappresentate prevalentemente dai fattori di trascrizione e da segnali intercellulari, principalmente molecole di adesione, citochine e recettori. Le citochine, identificate anche come fattori di crescita, sono glicoproteine a basso peso molecolare secrete in massima parte dai leucociti, ma anche da altri tipi cellulari, in risposta a una grande varietà di stimoli. Esse regolano le interazioni tra le varie cellule che intervengono nella risposta immunitaria, tra queste ultime e il sistema nervoso centrale, nell’ematopoiesi, nell’infiammazione. Nonostante l’ampia varietà dei sistemi in cui intervengono, le citochine mostrano alcune caratteristiche comuni, la più importante delle quali è la capacità di legarsi a recettori sulla superficie cellulare per iniziare la cascata del segnale e la conseguente alterazione dell’espressione genica della cellula bersaglio (Whiteside, 1998). Tra i fattori più importanti troviamo SCF (Stem Cell Factor), e il suo recettore KIT espressi in moltissimi tipi di cellule staminali. Negli ultimi anni sempre più numerose evidenze sperimentali indicano che molte sono le proteine regolatrici implicate nello sviluppo di diversi tessuti quali FGF, BMPs, Wnt, Notch.

Il network proteico costituito da questi fattori è implicato nel mantenimento dell’omeostasi tramite la regolazione del self-renewal delle cellule staminli e tramite la proliferazione e la differenzazione dei progenitori. Un mal funzionamento di questa rete di interazioni porta allo sviluppo di neoplasie (Katoh e Katoh, 2007). Il processo ematopoietico rappresenta nuovamente un esempio di come la combinazione di fattori espressi determini le caratteristiche diverse di ogni lineage specificato.

Alcuni recenti studi hanno dimostrato che le proteine BMP (Bone Morphogenetic Proteins) regolano la proliferazione e la differenziazione di frazioni altamente purificate di cellule staminali ematopoietiche umane adulte e neonatali (Bhatia et al., 1999).

Anche diversi membri della famiglia Wnt, proteine secrete che mediano la comunicazione cellula-cellula durante lo sviluppo, e i loro recettori Frizzled giocano un ruolo cruciale nelle fasi precoci della linfopoiesi e nel self-renewal delle cellule staminali ematopoietiche (trattati in Cobas et al., 2004). I fattori di crescita attivano specifiche cascate di segnale che modulano l’attività di determinati fattori di trascrizione: essi, interagendo tra loro, delineano un pattern di espressione genica che determina le caratteristiche fenotipiche e funzionali delle singole filiere ematopoietiche

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(Tenen et al., 1997). Ad esempio, i fattori della famiglia GATA sono importanti regolatori di diversi processi di sviluppo, sia nei Vertebrati che negli invertebrati (Bodmer e Venkatesh 1998, Molkentin 2000). GATA1/-2/-3 sono espressi ad alti livelli in specifici lineage ematopoietici, ed esperimenti di gene-targeting hanno evidenziato che ognuno ricopre un ruolo fondamentale per differenti eventi nello sviluppo ematopoietico (Tsai et al. 1994, Pandolfi et al. 1995, Fujiwara et al. 1996, Shivdasani et al. 1997). Al contrario, le proteine GATA4/-5/-6 sono espresse in diversi sistemi non ematopoietici, soprattutto nel cuore, nell’intestino e nel cervello (Reiter et al. 1999).

Uno dei geni che giocano un ruolo determinante nella regolazione della proliferazione e differenziazione cellulare è SCL (Stem Cell Leukemia), conosciuto anche come TAL-1 (T-cell Acute Lymphocytic Leukemia 1) o TCL-5 (Tcell Leukemia/Lymphoma 5) e inizialmente identificato grazie alla sua associazione con la leucemia linfoblastica acuta provocata dalla traslocazione t(1;14) (q33;11). Essa affianca il gene SCL, presente sul cromosoma 1, al locus δ del recettore dei linfociti T (T cell receptor) sul cromosoma 14 (Begley et al. 1989). Osservazioni successive hanno evidenziato che il gene SCL è coinvolto in tale traslocazione in circa il 3% dei pazienti con leucemia acuta delle cellule T (Bernard et al. 1990; Chen at al. 1990). L’inattivazione di Scl provoca conseguenze letali durante l’embiogenesi, dal momento che non si ha inizio del processo ematopoietico. Inolre durante lo sviluppo la sua espressione è stata ritrovata nel cervello embrionale, a livello del metencefalo e mesecenfalo dal giorno 9 al giorno 14.5 (Begley et. al 1991). Nell’adulto Scl svolge un ruolo chiave nella differenziazione eritropoietica e megacariocitica (Condorelli et.al 1997, Elwood et al. 1998) e recentemente è stata inoltre dimostrata la sua espressione anche negli osteoblasti in formazione (Pimanda et al. 2006).

3.2.2 Plasticità delle cellule staminali adulte

Fino a poco tempo fa si pensava che le potenzialità differenziative delle cellule staminali adulte fossero tessuto-specifiche, tuttavia numerose scoperte scientifiche sembrano sfidare questo dogma classico, suggerendo che la capacità delle cellule staminali di generare una progenie matura possa non essere limitata ai tipi cellulari presenti nel tessuto in cui risiedono. Le prime evidenze a favore della plasticità delle cellule staminali adulte sono emerse dallo studio sul sistema ematopoietico, attraverso saggi funzionali in vivo: è stato infatti osservato che cellule di midollo trapiantate in

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animali mutanti difettivi o mieloablati, genotipicamente o fenotipicamente distinguibili, sono in grado di dare origine a progenie “atipica” e rigenerare, anche se ad una frequenza piuttosto bassa, altri tessuti. A queste prime osservazioni, si sono aggiunte, negli anni più recenti, innumerevoli dati sperimentali che sembrano attribuire alle HSCs capacità differenziative sempre più ampie: saggi funzionali in vivo ed in vitro suggeriscono che le cellule di midollo osseo adulto siano in grado di dare origine a cellule mature di tessuti non ematopoietici, quali fegato (Theise et al., 2000; Austin e Lagasse, 2003), pancreas (Ianus et al., 2003), reni (Gupta et al., 2002), pelle (Krause et al., 2001) tratto gastro-intestinale (Okamoto et al., 2002), cuore (Orlic et al., 2001), muscolo scheletrico (LaBarge e Blau, 2002). Il fenomeno della plasticità, descritto anche per molti altri tipi di cellule staminali adulte, è tuttora dibattuto e in attesa di definitive verifiche, tuttavia diverse ipotesi sono state avanzate per spiegarne i meccanismi di base (Frisen, 2002). Quattro sono stati i modelli proposti: il modello gerarchico, la transdifferenziazione, la transdeterminazione e la dedifferenziazione. Il modello gerarchico prevede l’esistenza, all’interno dei diversi tessuti, di cellule staminali altamente pluripotenti non ancora indirizzate verso un determinato destino differenziativo e capaci, quindi, come le cellule staminali embrionali di dare origine a progenie di diversi tessuti. Secondo il modello della transdifferenziazione una cellula già differenziata acquisisce un altro fenotipo, spesso senza andare incontro alla divisione cellulare: un esempio sono le cellule pancreatiche che, in opportune condizioni di coltura, transdifferenziano in vitro in cellule epatiche. Tuttavia, la critica a questo modello è che non è stato finora possibile stabilire che cosa succeda realmente in vivo. La transdeterminazione descrive invece la condizione in cui una cellula staminale o un precursore primitivo già indirizzati verso uno specifico cammino differenziativo generano una progenie appartenente ad un altro lineage cellulare. Nella dedifferenziazione, una cellula lineage-specifica riacquisisce dapprima le proprietà di cellula staminale o di precursore primitivo e, in seguito, intraprende un altro cammino differenziativo.

Il tema della plasticità delle cellule staminali continua ad essere argomento di acceso dibattito. Negli ultimi anni, studi sempre più rigorosi hanno messo in evidenza che alcuni apparenti eventi di plasticità sono in realtà riconducibili ad altri fenomeni, quali la contaminazione o la fusione cellulare. Sia la plasticità che la fusione hanno osservazioni sperimentali a conferma e a smentita (La Barge e Blau, 2002; Ianus et al., 2003; Weimann et al., 2003; Caplice et al., 2003); lo sforzo dei ricercatori rimane,

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comunque, quello di effettuare analisi sempre più rigorose al fine di stabilire quale dei due processi giochi realmente un ruolo determinante nelle capacità differenziative delle cellule staminali di diversi tessuti. E’ chiaro che per poter parlare con certezza di plasticità è necessario il massimo rigore nelle procedure sperimentali adottate. Per prima cosa bisogna caratterizzare al meglio le cellule che si stanno studiando: spesso infatti interi esperimenti sono stati invalidati poichè sono state utilizzate popolazioni cellulari di partenza troppo eterogenee o contenenti alterazioni cromosomiche. Inoltre è molto importante caratterizzare le cellule generate dalle staminali di interesse dal punto di vista funzionale. L’identità di una cellula in genere viene definita dalla sua morfologia e dall’espressione di certi marcatori; si dovrebbe dimostrare anche la sua attività, anche se in alcuni casi questo è molto difficile.

3.3 La nicchia delle cellule staminali

La capacità delle cellule staminali adulte di scegliere se auto-replicarsi o differenziare è critica per il mantenimento dell’omeostasi dei tessuti. Un ruolo determinante nel mantenere bilanciati i fenomeni di self-renewal e differenzazione è ricoperto dalla nicchia delle cellule staminali, ovvero il microambiente in cui esse si dividono e decidono il destino delle cellule figlie. Uno dei meccanismi con cui ciò avviene è il controllo delle divisioni simmetriche/asimettriche (Figura 4). Durante la divisione asimmetrica una cellula staminale madre da origine a due cellule figlie, una che rimane nella nicchia come cellula staminale e una che lascia la nicchia e produce progenie differenziata. Il diverso destino delle cellule figlie può dipendere da una diversa distribuzione di molecole regolative all’interno delle due cellule che ne determinano la specificità di funzione (asimmetria divisionale) oppure le due cellule staminali figlie potrebbero essere esposte a differenti segnali esterni che le spingono verso destini differenzativi diversi (asimmetria ambientale). Nella divisione simmetrica invece entrambe le cellule figlie rimangono nella nicchia e aumentano il pool di cellule staminali (Watt and Hogan, 2000; Fuchs et al., 2004).

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Non è ancora chiaro se esista un singola nicchia in grado di supportare le diverse funzioni di riserva, self-renewal e inibizione del differenziamento o se diversi tipi di nicchia coesistano (Wilson and Trumpp, 2006). La funzione principale di una nicchia di self-renewal è quella di garantire che una delle due cellule figlie mantenga le capacità staminali mentre l’altra produca progenitori differenziati. Essa è quindi necessaria per la normale omeostasi dei tessuti. Secondo i più recenti modelli proposti, le cellule quiescenti si troverebbero ancorate nel centro della nicchia, mentre le cellule staminali destinate al self-renewal potrebbero trovarsi vicino al confine che separa la nicchia dall’ambiente non-nicchia, cioè una zona in cui risentono dei segnali che inducono alla divisione o al differenziamento.

La nicchia meglio caratterizzata nei mammiferi è quella delle cellule staminali ematopoietiche. Fin dagli ’70 e dai primi studi sulla nicchia ematopoietica ad opera di Schofield, è emersa l’ipotesi che le HSCs si trovino in stretta relazione con il tessuto osseo e che il contatto cellula-cellula sia responsabile delle notevoli capacità proliferative delle HSC. E’ oggi chiaro che gli osteoblasti maturi sono una componente cruciale della nicchia delle HSC, e che sono necessari per il loro mantenimento. Negli ultimi anni si è scoperto che una sottopopolazione di osteoblasti svolge un ruolo fondamentale nella nicchia di mantenimento delle HSC (nicchia dell’endostio), mentre

Fig. 4: Asimmetria divisionale e asimmetria ambientale.

Durante le divisioni che da cellule staminali portano a cellule differenziate, il diverso destino delle cellule figlie può dipendere da una diversa distribuzione di molecole regolative (a) o dall’esposizione a differenti segnali esterni (b).

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il contatto con le cellule endoteliali sembra essere importante per la proliferazione, il differenziamento e la mobilizzazione delle HSC stesse (nicchia vascolare) (Figura 5).

Due recenti studi, usando diversi approcci genetici, hanno dimostrato che l’aumento del numero di osteoblasti nella nicchia risulta in un parallelo aumento nel numero di HSCs (Calvi et al., 2003; Zhang et al., 2003). In uno di questi studi, inoltre, è stato visto che la N-caderina e la β-catenina sono localizzate alle giunzioni osteoblati-HSC; è probabile quindi che queste molecole possano rappresentare importanti componenti dell’interazione tra le cellule staminali e la loro nicchia. Questi risultati suggeriscono un modello in cui le HSCs che risiedono all’interfaccia tra l’osso trabecolare e il midollo osseo siano in grado di ricevere un gran numero di segnali di self-renewal; man mano che si differenziano esse si allontano da questi segnali e si spostano verso l’interno del midollo osseo (Rattis et al., 2004).

Fig. 5: Modello della nicchia delle HSC nel midollo osseo.

Una sottopopolazione di osteoblasti svolge un ruolo fondamentale nella nicchia di mantenimento delle HSC (nicchia dell’endostio) mentre il loro contatto con le cellule endoteliali sembra essere importante per la proliferazione, il differenziamento e la mobilizzazione delle HSC stesse (nicchia vascolare). In risposta a danno, le HSC quiescenti dalla nicchia dell’endostio possono ri-attivarsi e migrare verso la nicchia vascolare e differenziare nei tipi cellulari opportuni.

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Gli osteoblasti che si trovano sulla superficie dell’endostio forniscono alle HSC sia una nicchia di mantenimento che di self-renewal. Nella prima è mantenuta la quiescenza e prevenuta la differenzazione delle HSC: esse rimangono dormienti ma, in risposta a stimoli e ferite, possono riattivarsi e raggiungere la nicchia vascolare dove possono replicarsi o andare incontro a differenziamento. La nicchia di self-renewal produce invece progenitori multipotenti (MultiPotent Progenitors MPPs) tramite meccanismi di asimmetria divisionale o ambientale, che daranno origine a cellule di tutti i lineage ematopoietici. I meccanismi di self renewal della nicchia vascolare non sono ancora ben noti, ma sembra essere soprattutto coinvolta nella risposta a danno (Wilson and Trumpp, 2006) (Figura 5).

Sebbene si sappia poco a proposito dei segnali scambiati tra le HSC e gli osteoblasti in vivo, diversi recettori, proteine di membrana e fattori secreti sono espressi da entrambi i tipi di cellule (Taichman, 2005). La via di segnale dei recettori Notch si pensa abbia un ruolo nel mantenimento delle cellule staminali in una grande varietà di tessuti. Diversi recettori e ligandi Notch sono espressi anche nel midollo osseo; in particolare si è visto che quando il ligando Jagged-1 è sovraespresso negli osteoblasti si osserva un incremento del numero delle HSC (Calvi, 2003), suggerendo un possibile ruolo della via di Notch durante il self-renewal delle HSC. Un meccanismo con cui gli osteoblasti possono regolare il numero delle HSC è tramite la secrezione dell’Osteopontina (OPN), una proteina di matrice altamente fosforilata e glicosilata.. La produzione dell’OPN ha un effetto negativo sul numero delle HSC (Nilsson et al., 2005) e favorisce, invece, la loro quiescenza. Un'altra interazione molto importante è quella tra il fattore di crescita SCF (Stem Cell Factor), sia nella forma secreta che in quella legata alla membrana, e il suo recettore KIT, che è espresso a alti livelli dalle HSC come da molte altre cellule staminali. Analisi in topi mutanti hanno dimostrato un ruolo cruciale per il mantenimento del self-renewal delle HSC, suggerendo un ruolo del pathway SCF-KIT nella nicchia dell’endostio. In particolare la forma di SCF legato alla membrana è molto espressa dagli osteoblasti ed ha un notevole capacità di attivare KIT sulla membrana delle HSC, facilitando l’adesione sia direttamente sia attivando la produzione di specifiche integrine (Lyman e Jacobsen, 1998). La N-caderina è una molecola di adesione espressa sia dagli osteoblasti della nicchia che da alcune HSC ed è considerata un’ importante componente del sistema di ancoraggio nella nicchia dell’endostio (Zhang et al., 2003). Anche la via di Wnt/β-catenina sembra giocare un ruolo attivo nel mantenimento delle HSC nella nicchia, promuovendone il self-renewal in

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collaborazione con la N-caderina (Rattis et al., 2004). Sembra infatti che essa favorisca la mobilizzazione della β-catenina e il suo trasferimento nel citosol, necessario per sostenere il pathway di Wnt. Wnt inoltre è fondamentale per la maturazione degli osteoblasti e agisce quindi nel mantenimento dei costituenti della nicchia (Pittenger et al., 2001). E’ stato di recente dimostrato, inoltre, che la molecola Ang-1 (Angiopoietin- 1), un fattore secreto dagli osteoblasti, e il suo recettore Tie2 sono importantissime per il contatto delle HSCs con le cellule della nicchia. L’interazione di Ang-1 e Tie2, presente sulla membrana delle HSCs, induce la stretta adesione delle HSCs alle cellule stromali e, mantenendole in uno stato di quiescenza, ne preserva la massima capacità di ripopolazione a lungo termine (Arai et al., 2005).

In risposta a specifici segnali, inoltre, le HSC possono uscire e rientrare nella nicchia dell’endostio in un processo noto come mobilizzazione e homing, rispettivamente. La mobilizzazione può avvenire in seguito a trattamento con fattori come la ciclofosfamide o il G-CSF (Granulocyte Colony-Stimulating Factor), a causa di danno al midollo osseo, ma anche normalmente durante l’omeostasi, in cui un piccolo numero di HSC sono costantemente rilasciate nella circolazione. Esse forniscono una risorsa velocemente accessibile per riparare eventuali danni al midollo osseo. Un fattore cruciale coinvolto nella migrazione e mobilizzazione delle HSC durante l’omeostasi e in seguito a danno è SDF1 (Stromal-derived Factor 1) che è espresso da diversi tipi di cellule del midollo osseo, inclusi gli osteoblasti e le cellule endoteliali dei vasi. Esso è in grado di indurre motilità, chemiotassi e adesione delle cellule che esprimono il suo recettore CXCR4 (CXC-chemochine receptor 4). L’interazione SDF1/CXCR4 inoltre è cruciale per la colonizzazione del midollo osseo da parte delle HSC durante le fasi finali dello sviluppo fetale, sebbene non sia fondamentale per la loro formazione.

3.4 Le cellule staminali mesenchimali

Gli osteoblasti sono generati, nello stroma del midollo osseo, da una sottopopolazione di cellule non ematopoietiche comunemente chiamate cellule staminali mesenchimali o cellule stromali del midollo (Mesenchymal Stem Cells o Marrow Stromal Cells, MSC).

Nel 1973, Friedenstein fu il primo a identificare una popolazione cellulare con un forte potenziale osteogenico in una sospensione a singole cellule prelevata dal midollo osseo adulto. Queste cellule sono multipotenti e possono servire come precursori a lungo termine di tessuto osseo, connettivo, adiposo, muscolare e cartilagineo (Prockop, 1997;

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Ferrari et. al, 1998) (Figura 6). Le MSC non si trovano solo nel midollo osseo ma molti gruppi di ricerca hanno recentemente isolato cellule staminali/progenitori mesenchimali in altri tessuti adulti, quali muscolo scheletrico, tessuto adiposo, pelle e retina (Jiang et al., 2002; Pittenberg et al., 1999; Halvonsen et al., 2001; Asakura et al., 2001).

E’ noto da diversi anni che le MSC del midollo osseo, mantenute in opportune condizioni di coltura, sono in grado di differenziare in diversi tipi cellulari quali osteoblasti, adipociti, condrociti e miociti. A differenza di quanto accade per le HSC, e’

possibile coltivare in vitro le MSC, mantenendole allo stato indifferenziato e sono state sviluppate diverse metodologie per isolarle e coltivarle ex vivo. Uno dei metodi più diffusi è quello di sfruttare le loro caratteristiche di adesione per separarle dalla componente ematopoietica del midollo, che cresce preferenzialmente in sospensione. A tale scopo si utilizza un terreno di coltura minimo, privo cioè di citochine, che facilita la crescita delle unità formanti colonie di tipo fibroblastoide (CFU-F). Queste ultime possono anche essere propagate per molti passaggi fino a diventare linee cellulari (Zipori, 2004). Le cellule così ottenute possono essere differenziate, sotto effetto di specifici stimoli chimici in:

• osteoblasti: con acido ascorbico, dexametasone e β-glicerofosfato;

• adipociti: con insulina e dexametasone;

• condrociti: con TGFβ (Transforming growth factor) (Gregory et al., 2005).

Un approccio alternativo è basato sull’isolamento di una popolazione di precursori utilizzando marcatori sulla superficie cellulare (Pittenger et al., 1999; Fox et al., 2007;

Chamberlain et al., 2007). Ad esempio, alcuni recenti studi indicano che le MSC prelevate da midollo osseo umano possono essere selezionate in base all’espressione di CD49a, recettore per collagene e laminina (Deschaseaux et al., 2003). Questa popolazione è CD49a+ CD45med/low e differenzia verso un lineage mesodermico. Tutte le CFU-F coltivate a partire da midollo osseo umano in toto sembrano essere CD49a+ CD45med/low .

E’ stata inoltre separata e caratterizzata una sottopopolazione di MSC, le MAPC (Multipotent Adult Presursor Cell) dotate di maggiore versatilità e in grado di differenziare in vitro non solo in elementi del mesoderma, ma anche del neuroectoderma e dell’ endoderma (Jiang et al., 2002). Se iniettate in blastocisti precoci, le singole MAPC contribuiscono alla formazione di tipi cellulari somatici; se vengono trapiantate in animali irradiati, ripopolano e differenziano in cellule ematopoietiche, come pure in epitelio del fegato, polmone e stomaco (Zipori, 2004). Poiché le MSC e le

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cellule MAPC sembrano essere multipotenti e coltivabili in vitro, potrebbero rappresentare una risorsa molto importante di cellule utilizzabili nella clinica, per approcci di terapia cellulare e genica (Prockop, 1997). Tuttavia, le procedure di isolamento e coltura delle MAPC sono particolarmente lunghe, difficili e poco riproducibili, per cui altre evidenze sperimentali sono necessarie al fine di escludere che tale popolazione non rappresenti un artefatto sperimentale dovuto a mutazioni avvenute durante i lunghi periodi di coltura in vitro.

Studi effettuati usando topi transgenici e analisi di disordini muscolo-scheletrici nell’uomo, hanno fornito interessanti informazioni su come le MSC differenziano verso multipli lineages durante lo sviluppo embrionale e l’omeostasi adulta. Anche esperimenti di differenziazione in vitro sotto appropriate condizioni hanno portato all’identificazione di diversi fattori essenziali per il loro committment. Inoltre, negli ultimi anni sono state impiegate in modelli pre-clinici di ingegneria tissutale per la generazione di osso, cartilagine, muscolo, tessuto adiposo e altri tessuti connettivi (Caplan, 2007), confermando per le MSC un ruolo importante nella riparazione tissutale e nella rigenerazione. Sono in atto trials clinici al fine di utilizzare MSC umane per il trattamento dell’infarto del miocardio, del morbo di Crohn. di lesioni cartilagine, tendinee e della spina dorsale (Caplan, 2007).

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4. Il sistema scheletrico

Lo scheletro è un sistema estremamente bilanciato capace di integrare continuamente segnali e risposte per mantenere le molteplici funzioni delle ossa incluso il mantenimento dei livelli del calcio, il sostegno meccanico ai tessuti molli e ai muscoli, e il supporto all’ematopoiesi. L'osso è un tessuto mineralizzato "composito": è costituito da una matrice organica di fibre collagene disperse in una massa inorganica di minerali, in particolare idrossiapatite di calcio. Nonostante la sua durezza, e quindi l'apparente staticità, l'osso è estremamente dinamico ed in continua evoluzione. Avvengono infatti costantemente due processi, uno di lenta neodeposizione e l'altro, più rapido, di riassorbimento. E' così consentito un perenne rimodellamento della struttura macro e microscopica e uno scambio con tutti i tessuti dell'organismo attraverso il sangue. E’' quindi possibile raggiungere un equilibrio dinamico tra le esigenze corporee di calcio e le necessità di sostegno del carico. Queste caratteristiche, finemente regolate da diversi fattori, dipendono essenzialmente dalle cellule ossee, che sono:

gli osteoblasti, che sintetizzano la matrice organica e favoriscono la deposizione minerale; si trovano direttamente appoggiati all'interno delle superfici ossee in accrescimento come singolo strato di cellule cubiche:

gli osteociti, che derivano dagli osteoblasti, e che sono inclusi nel tessuto mineralizzato entro le lacune ossee, collegati tra loro da un'estesa maglia di ramificazioni; apparentemente inattivi, probabilmente partecipano al rilascio in circolo del calcio;

gli osteoclasti, grosse cellule macrofagiche multinucleate che hanno il compito di riassorbire osso.

Le ossa hanno una cavità centrale, entro cui si trova il midollo osseo rosso (costituito da cellule ematopoietiche) e giallo (costutito soprattutto da grasso), delimitata dall’endostio, un tessuto connettivo composto da cellule progenitrici e osteoblasti. La superficie esterna delle ossa è invece ricoperta dal periostio, costituito da uno strato esterno di connettivo fibroso e uno interno fatto di cellule progenitrici e osteoblasti.

Esse vengono classificate in base alla loro forma in: ossa lunghe (es. tibia), ossa corte (es. ossa carpali del polso), ossa piatte (es. ossa del cranio), ossa irregolari (es.

sfenoide), ossa sesamoidi (es. rotula). Osservando una sezione longitudinale di un osso

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come il femore si notano due diverse strutture: una struttura addensata che forma la parte interna dell’osso detta “osso compatto” e una zona porosa che delimità la cavità midollare, detta “osso spugnoso” o “trabecolare” perché è attraversato da trabecole o spicole che dall’osso compatto arrivano fino alla cavità del midollo osseo. L’osso spugnoso contiene al suo interno delle lacune entro cui sono intrappolati gli osteociti il cui nutrimento avviene per diffusione attraverso il midollo osseo.

La formazione dell’osso durante lo sviluppo embrionale può avvenire secondo due modalità: ossificazione intramembranosa e ossificazione endocondrale (Gilbert et al., 1996). In entrambi i casi il tessuto osseo che si forma inizialmente è di tipo primario, tipico del periodo embrionale; esso è ricco di osteociti e fibre di collageno, ma ancora povero di minerali. Successivamente viene sostituito dall’osso secondario, più resistente, formato da lamelle parallele o concentriche e da una fitta rete di canalicoli contenenti i processi citoplasmatici degli osteociti. Le varie lacune sono così collegate tra loro permettendo la diffusione di sostanze nutrititive e ormoni.

La maggior parte delle ossa piatte si forma mediante il processo di ossificazione entramembranosa, nel contesto del tessuto connettivo mesenchimale riccamente vascolarizzato. In alcune zone specifiche dette centri primari di ossificazione, le cellule mesenchimali differenziano in osteoblasti che incominciano a produrre matrice ossea e formano le trabecole ossee. Successivamente inizia la deposizione di calcio e l’intrappolamento degli osteoblasti che diventano osteociti. Man mano che si realizza la formazione di un tessuto spongiforme di trabecole, il tessuto connettivo vascolare si trasforma in midollo osseo. Il periostio e l’endostio si formano da tessuto mesenchimale non calcificato. La maggior parte delle ossa lunghe si forma invece mediante il processo di ossificazione endocondrale che avviene in due fasi: formazione di un modello costituito da cartilagine ialina e accrescimento e sua sostituzione con tessuto osseo. I condrociti che formano la cartilagine del modello a un certo punto si ipertrofizzazno, accumulano glicogeno nel citoplasma e vacuolizzano. Questo porta a una riduzione della matrice intercellulare che comincia a calcificare. Nel centro primario di ossificazione, quindi, diversi passaggi di riassorbimento della cartilagine, reclutamento di osteoblasti, deposizione ossea e riorganizzazione dei vasi porta alla formazione dell’osso maturo (Eames et al., 2003). Questi processi di formazione ossea sono accompagnati da un continuo rinnovamento del tessuto osseo, chiamato

“rimodellamento”, un fenomeno che avviene durante tutta la vita in moltissimi siti diversi dello scheletro.

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