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COMPORTAMENTO SOCIALE DEL CAVALLO ED ETOLOGIA

Sviluppo del comportamento sociale

Lo sviluppo del comportamento sociale del cavallo segue diverse fasi. La prima è la fase neonatale, caratterizzata dall’apprendimento a stare in piedi, a camminare ed a nutrirsi. Dura circa 2 ore e termina con la prima poppata. In questa fase avviene l’identificazione della madre come punto di riferimento. La fase neonatale è caratterizzata da due stadi: lo stadio della mobilità primaria e lo stadio del consolidamento adattativo. Lo stadio della mobilità primaria è suddivisibile in cinque tappe. La prima è la coordinazione in decubito: subito dopo il parto il puledro giace in decubito, in estensione, quindi solleva la testa e la scuote, raddrizzando le orecchie. Si può avere defecazione del meconio. Il puledro si alza in piedi e può cadere, ma riassume la posizione di decubito coordinato. La seconda tappa è la stabilità in stazione quadrupedale. Il tempo impiegato per riuscire a rimanere in stazione varia dai 20 ai 50 minuti. I puledri più leggeri ci riescono prima di quelli più pesanti e questo è forse il motivo per il quale i maschi sono più lenti delle femmine.

La deambulazione costituisce la terza tappa della fase neonatale. I puledri si alzano estendendo gli arti anteriori ed alzando prima la metà anteriore del corpo e poi quella posteriore. La forma instabile di deambulazione può garantire un’ulteriore attenzione da parte della madre. L’orientamento (quarta tappa) è costituito dal comportamento esplorativo del puledro che gli permette di acquisire familiarità con lo spazio circostante. Il puledro è miope e quindi l’esplorazione avviene per contatto ravvicinato. L’animale si dirige verso le parti in ombra per cercare la mammella e tale orientamento è facilitato da movimenti di abduzione di un posteriore e di rotazione della pelvi da parte della madre. L’ultima tappa è la ricerca del capezzolo. La mammella è identificata tramite le sue caratteristiche tattili; il capezzolo che è sporgente diviene presto il punto focale dei tentativi di prensione. A due ore e mezza dalla nascita il puledro deve essere riuscito a poppare almeno due volte.

Durante lo stadio di consolidamento, il puledro si rafforza tramite il cibo, l’esercizio ed il riposo. Il puledro ha il suo primo periodo di riposo entro tre ore dalla nascita e dura in media 15-20 minuti, durante i quali giace in decubito laterale.

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La seconda fase è detta transitoria, dura circa due settimane e rappresenta il periodo di maggior sviluppo sensoriale. Una scarsa esposizione a stimoli sensoriali in questo periodo può rendere il puledro incapace di discriminare tra stimoli diversi.

La terza fase è la socializzazione che si protrae fino alle dodici settimane di vita. Si ha la comparsa del gioco, soprattutto quello sociale, che raggiunge il picco a quattro settimane. Il gioco è in buona parte cinetico (ben il 75% dell’attività cinetica dei puledri avviene sottoforma di gioco). Inizia con il grooming o con il mordere varie parti del corpo e poi con corse senza direzione stabilita e con fermate improvvise seguite da nuove partenze. Altre modalità di gioco sono il saltellare, il mordicchiare e spintonare, l’inseguire ed il fare coppia con un amico. In quest’ultimo caso, la coppia assume spesso una posizione caratteristica con il collo di un puledro sopra quello dell’altro. Tra i due soggetti si forma un legame molto forte che si manifesta anche in altre circostanze, con atteggiamenti di reciproca difesa.

La successiva fase giovanile dura fino alla pubertà (10-12 mesi). Il gioco e le altre attività sono finalizzate allo sviluppo delle capacità sociali degli adulti.

Il momento migliore perché i puledri instaurino un rapporto corretto con l’uomo è dopo lo svezzamento (9 mesi in natura; 5-6 mesi in allevamento). Se l’attaccamento all’uomo avviene molto precocemente i puledri possono identificarlo come futuro partner sessuale (Lansade et al., 2005).

Comunicazione sociale

I cavalli usano un repertorio molto vasto per la comunicazione utilizzando vari canali sensoriali. Anche se la comunicazione vocale non è il mezzo più utilizzato, emettono una varietà di suoni vocali (provenienti dalla laringe) e non vocali. I primi sono più comunicativi dei secondi. Tra le vocalizzazioni più frequenti ricordiamo:

- Il “nitrito”, è un suono di media tonalità, di durata elevata, che ricopre distanze piuttosto ampie. Le madri nitriscono quando non trovano i loro figli, i puledri quando cercano le loro madri. I cavalli si rispondono a vicenda, spesso senza neppure vedersi e sono in grado di riconoscersi dal nitrito e dai borbottii.

- Il “borbottio”, è un suono di bassa tonalità e di diversa durata. Esistono delle variabili: quella dello stallone mentre corteggia la femmina, quella della fattrice che richiama il

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piccolo, quella del puledro, quando torna dalla madre dopo un periodo di separazione. I cavalli domestici lo emettono, in genere, prima di ricevere la razione.

- “L’urlo”, è una singola nota, breve, di tonalità alta, che in genere esprime minaccia durante l’aggressione tra maschi o una reazione della femmina al tentativo di accoppiamento dello stallone. Può essere associato anche all’investigazione olfattiva e spesso è accompagnato da un calcio.

Le vocalizzazioni sono spesso emesse per richiamare l’attenzione su particolari posture alle quali spesso si accompagnano.

I suoni non vocali vengono emessi nel corso di un’ampia varietà di attività: mangiare, tossire, fare grooming, sbattere gli zoccoli a terra, ecc., ma hanno scarsa intenzione comunicativa. I cavalli emettono anche “sbruffi”, in cui l’aria viene emessa con una forte, rapida espulsione attraverso le narici, talvolta per presenza di insetti o di qualcosa di fastidioso nelle cavità nasali. Il “soffio”, invece, in genere è un segnale d’allarme per gli altri membri del branco e si dilaga al suo interno in preparazione di un’eventuale fuga.

Importante, anche se meno studiata, è la comunicazione olfattiva, mezzo di riconoscimento usato soprattutto tra fattrice e puledro, tra i membri del branco ed in un contesto sessuale. Sostanze che emanano odori sono la saliva, il sudore e le ghiandole circumorali (intorno alla bocca). I cavalli che vengono a contatto tra loro si annusano il naso, i fianchi, la regione perineale uro-genitale, dove le secrezioni ghiandolari segnalano, non solo l’identità, ma anche lo stadio riproduttivo. Le feci, l’urina ed i fluidi neonatali trasmettono altre informazioni, per cui, ad esempio subito dopo la nascita, la madre annusa e lecca il suo piccolo, in modo da riconoscerlo e rifiutare tutti gli altri. Gli stalloni, con l’emissione di urina o la deposizione delle feci, marcano il territorio ed annusano gli escrementi degli altri stalloni per valutare lo stato gerarchico (presenza di testosterone), spesso questo comportamento precede uno scontro.

La comunicazione tattile viene usata in particolare tra madre e puledro, per la poppata, ma può essere usata anche per esprimere emozioni, dall’affetto all’aggressione. Gli adulti frequentemente si puliscono il manto a vicenda (mutual-grooming), mettendosi in posizione

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parallela e speculare, questo è un segnale opposto all’aggressione ed indica una certa simpatia tra i due soggetti.

I segnali visivi sono probabilmente i più importanti e comuni, ma anche i più sottili e difficili da decifrare. Includono cambiamenti, talvolta marcati, altre appena percettibili, di postura del corpo e posizione delle orecchie, labbra, coda, testa, arti. Le orecchie schiacciate all’indietro sono un segnale di aggressività e di minaccia, quando sono rivolte in avanti ed erette sono indice di attenzione, leggermente di lato indicano sottomissione o rilassamento. Similmente, la coda tenuta alta è segno di eccitazione e fiducia, come quando uno stallone corteggia una fattrice o approccia un altro stallone, mentre la coda abbassata tra le cosce è un atteggiamento di sottomissione, paura o, semplicemente, rilassamento (Keiper, 1986).

Rapporti di dominanza

In natura i cavalli vivono di norma in “harem”, composto da uno (talvolta due) stallone, con un numero variabile di femmine e di soggetti giovani. Il branco è organizzato secondo una scala gerarchica che viene stabilita tramite conflitti ritualizzati. Subito dopo il primo contatto, il rapporto di dominanza viene stabilito con un confronto diretto tra i membri del branco. In seguito, il soggetto al livello più alto della scala gerarchica dovrà soltanto manifestare segni di minaccia, senza aggressione fisica, per avere accesso alle risorse alimentari e per prevenire l’invasione del proprio spazio personale. Il comportamento di evitamento è la tattica sociale principale per mantenere la stabilità all’interno del branco.

Questo rapporto può durare anche degli anni, e consente di mantenere una certa stabilità all’interno del branco. Il soggetto dominante deve essere in grado di mantenere uniti i suoi membri e le sue azioni condizionano quelle degli altri. Per molti aspetti, questo ruolo è svolto dallo stallone, ma per altri, il ruolo dominante viene assunto anche da una fattrice anziana, soprattutto per la sua esperienza nella ricerca d’alimento. La taglia del soggetto sembra essere meno importante dell’aggressività, perché, talvolta, soggetti di mole maggiore, ma più pacifici, sono sottomessi a soggetti più piccoli, ma più aggressivi. I segni di aggressività sono numerosi e variano d’intensità. Ad esempio, se il soggetto dominante tenta di cacciare via un suo subordinato da uno spazio con un segnale di minaccia e questo non obbedisce, può manifestare forme di aggressività maggiori, come il tentativo di morso, o il morso vero e

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proprio. I tentativi di calcio sono segnali ancora più aggressivi dei precedenti e sono manifestati meno frequentemente, ancora più raro è il calcio vero e proprio. Più due soggetti sono vicini nella scala sociale, maggiore può essere l’aggressività manifestata tra i due, se entrano in contrasto, ma in genere tutti i soggetti tendono ad usare segnali d’avvertimento piuttosto che azioni fisiche vere e proprie, per evitare ferite, spreco di energie ed interruzione dei normali modelli comportamentali (Feist & McCollough, 1976). Il comportamento dei soggetti di rango inferiore è importante, perché la dominanza gerarchica viene mantenuta soprattutto dalla scelta dei subordinati di evitare l’approccio con il soggetto dominante. Il comportamento dei subordinati è di sottomissione e di fuga. Di seguito vengono riportati i principali segnali di sottomissione (Sighieri et al., 2003):

1- abbassamento della testa: il subordinato, pur rimanendo fermo, gira e abbassa la testa rispetto al soggetto dominante;

2- fuga/ritirata: il subordinato si ritira dal dominante quando viene da questo attaccato o minacciato;

3- snapping: atteggiamento tipico, ma non esclusivo, dei puledri. Le orecchie sono erette, la lingua sopra ai denti, la bocca viene aperta e chiusa rapidamente senza che i denti si tocchino. Questo atteggiamento di sottomissione viene manifestato con lo scopo di evitare l’aggressione da parte di un altro soggetto.

Per capire il meccanismo della sottomissione, bisogna considerare il fatto che ogni comportamento in natura ha le sue ragioni di esistere: vivere in gruppo apporta notevoli vantaggi rispetto alla vita solitaria, consente, fra l’altro, di sfruttare al massimo le risorse alimentari, ma presuppone anche competizione in caso di risorse limitate o per l’accoppiamento. Questi fattori hanno determinato l’evoluzione dei rapporti gerarchici e la sostituzione degli scontri fisici con atteggiamenti di avvertimento e minaccia, che hanno lo scopo di evitarli, quando possibile. Nelle gerarchie di dominanza naturali, ciascun membro mantiene il suo livello gerarchico e se il capobranco è forte ed adeguato, regna l’armonia. Se il vigore di un soggetto gerarchicamente elevato diminuisce, ciò viene subito percepito dai membri dei livelli gerarchici inferiori, che possono iniziare a manifestare segni di insubordinazione, come morsi, invasione dello spazio personale e manifestazioni di

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fronteggiamento. In base alle risposte che riceve, il contendente decide se continuare la sfida o ritirarsi. Quando gli animali crescono insieme, si instaura un rapporto di gerarchia talmente sottile, che sembra non esistere nemmeno, tanto i segnali che si trasmettono tra loro sono tenui. Le gerarchie sociali non sono permanenti ed in ogni cavallo esiste la tendenza innata a valutare la situazione e tentare di risalire nella scala gerarchica. Questo è particolarmente evidente nelle fattrici, che, in questo modo, cercano di accedere ai pascoli migliori ed avere maggiori contatti con lo stallone, per essere ingravidate prima e partorire nel periodo più favorevole al puledro, quando le risorse alimentari sono maggiori. In genere le fattrici dominanti tendono ad avere figli dominanti, semplicemente perché viene trasmesso il carattere della madre. Come per il cane, anche per il cavallo, la domesticazione ha determinato la selezione, da parte dell’uomo, di soggetti più docili e meno dominanti, tuttavia nelle razze da corsa è stata rilevata una correlazione positiva tra il carattere dominante del soggetto e la sua prestazione atletica. Una caratteristica importante della dominanza non è tanto la mole fisica, ma la forza, la robustezza ed i fattori psicologici, cioè quanto un soggetto ha avuto successo in precedenza.

I segni di minaccia possono manifestarsi a cascata all’interno dell’ordine gerarchico, cioè dal soggetto dominante a quello di livello inferiore e così via, e questo, in genere, è più evidente in branchi molto piccoli. La sottomissione è fondamentale nei rapporti gerarchici e nell’obbedienza all’uomo; gli addestratori sanno cos’è la sottomissione e applicano varie tecniche per ottenerla e mantenerla, ma spesso non conoscono il meccanismo psicologico sottostante a questo comportamento. Ad esempio abbassare la testa è un segno di sottomissione e di tranquillità che viene acquisita dal cavallo fin da puledro, mentre sollevare la testa e tendere il collo indica una scarica di adrenalina, quindi spesso paura. Quando un cavallo è eccitato, fargli abbassare la testa lo fa tornare calmo. L’errore più comune che viene fatto durante l’addestramento del cavallo è ritenere che segua logiche mentali simili alle nostre.

Se il cavallo potesse scegliere vivrebbe al prato ed impiegherebbe il suo tempo a mangiare e riprodursi. Tuttavia questo non significa che un cavallo da lavoro non possa essere felice, poiché può diventarlo quando è in grado di gestire la sua vita tramite le sue abitudini, cosa che in natura ha la tendenza ad acquisire in qualsiasi comportamento. Nelle gerarchie sociali,

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infatti, non è tanto importante il livello sociale, quanto la sua stabilità, quando i ruoli e le abitudini sono stabili il cavallo vive tranquillo. Per questa specie, l’uguaglianza all’interno del branco è un disagio: i soggetti iniziano a manifestare segni di minaccia ed aggressione, finché non vengono stabiliti dei ruoli di subordinazione e dominanza. In pratica il cavallo deve sapere chi comanda, e questo vale anche nel caso del rapporto con l’uomo. Maneggiare e cavalcare il cavallo implica un certo grado di sottomissione perchè l’animale deve adempiere alle richieste del cavaliere. Se disobbedisce significa che la dominanza del cavaliere è incompleta e questo crea un certo conflitto motivazionale nel cavallo, che tenterà di risolvere il problema, ad esempio, con atteggiamenti di minaccia, specialmente se l’uomo reagirà con la paura. La vera fiducia viene costruita sul rispetto, condizione che si crea quando il cavallo riconosce l’uomo come leader, come avviene allo stato selvaggio verso il capobranco. Ogni rapporto uomo-cavallo implica una gerarchia sociale. Una volta sottomesso, il soggetto diventa molto più calmo. Come per ogni comportamento innato, l’istinto di dominanza non funziona in modo indipendente dal comportamento appreso e, nel cavallo, viene aumentato o diminuito dalle azioni che si svolgono intorno a lui. Il sottrarsi alla dominanza dell’uomo si manifesta con sgroppate, impennate, tensione e anche atteggiamenti di minaccia, finché il cavallo arriva ad assumere il controllo della situazione fino a farlo diventare un’abitudine, difficile poi da modificare. E’ importante, quindi, che l’addestratore manifesti certezza delle sue azioni e dominanza totale. Questo non significa nuocere al cavallo, ma creare un rapporto di rispetto tra i due senza l’uso di forza o violenza (McLean, 2001).

Aggressività all’interno del branco domestico e selvatico

Gli animali che vivono in condizioni naturali possono manifestare tutti i comportamenti normali della specie, mentre i cavalli allevati in condizioni domestiche subiscono con la domesticazione cambiamenti comportamentali di natura adattativa che possono causare anomalie di comportamento, come le stereotipie. Price (1984) definisce la domesticazione come “il processo con cui un gruppo di animali si adatta all’uomo e all’ambiente domestico tramite la combinazione di modificazioni genetiche, attraverso diverse generazioni e sviluppi indotti dall’ambiente durante ogni generazione”. Gli animali domestici in genere manifestano una risposta ai cambiamenti ambientali, che può essere espressa, non solo dalla reazione

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all’uomo, ma anche dalle reazioni intraspecifiche e dai comportamenti di investigazione. Studi (Waring, 1983) su animali selvaggi che vivono in libertà indicano che il comportamento specie-specifico non sarebbe condizionato dalla domesticazione e, tutt’al più, questa sembra influenzare la natura quantitativa, piuttosto che qualitativa del comportamento sociale. I cambiamenti quantitativi includono una riduzione degli atteggiamenti di aggressività perché l’ambiente domestico ridurrebbe la competizione per le risorse alimentari. È stato dimostrato (Christensen et al., 2002) che le restrizioni sociali influenzano il comportamento del cavallo e, animali che crescono isolati dai più anziani, possono non sviluppare correttamente il comportamento da adulti e mantenere quello da puledri.

In uno studio (Christensen et al., 2002) nato per investigare il comportamento sociale degli stalloni e valutare se i soggetti domestici fossero meno aggressivi di quelli selvatici, un gruppo (stalloni non selvaggi) è stato allevato in tipiche condizioni domestiche, ed uno (soggetti przewalskii) in condizioni naturali. Dallo studio è emerso che gli stalloni przewalskii:

1- manifestavano maggior attività di grooming, soprattutto in estate, ma questo potrebbe essere attribuito al fatto che in natura ci sono molti più insetti che in ambiente domestico;

2- si dedicavano al gioco (indice di benessere) nella stessa misura del gruppo domestico; 3- mostravano la stessa quantità di atteggiamenti aggressivi tra loro dei cavalli domestici. I cavalli selvaggi in natura formano dei gruppi da due a più di venti individui, la dimensione del gruppo influenza il comportamento sociale, infatti, nei gruppi più piccoli l’aggressività è minore.

Le osservazioni dei cavalli selvatici hanno dimostrato che raramente gli stalloni si colpiscono a vicenda come in un vero combattimento, grazie allo sviluppo di un linguaggio sociale e segnali ritualizzati, gli animali di rango inferiore si allontanano per evitare il rischio di un combattimento. In condizioni domestiche, tuttavia, gli stalloni vengono tenuti separati per evitare aggressioni e ferite. L’aggressività può essere causata da risorse limitate, dalla presenza di femmine, spazi ridotti, ma anche dalla mancanza di contatti sociali. La natura qualitativa del comportamento sociale è risultata simile nei due gruppi, mentre differenze

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sono state riscontrate solo nel tempo trascorso a fare grooming, nell’investigazione, ed anche nei comportamenti agonistici. I dati però non hanno dimostrato, in contrasto con l’ipotesi di partenza, un ridotto atteggiamento aggressivo come conseguenza della domesticazione. Lo studio indica che, anche i cavalli domestici cresciuti per un periodo al pascolo, mostrano un comportamento sociale che è molto simile a quello mostrato dai cavalli przewalskii della steppa, compreso l’atteggiamento di aggressività.

Etologia e behaviourismo

L’etologia è la scienza che studia il comportamento di un animale nel suo ambiente naturale e, andando più nello specifico, può essere divisa in settori:

- Eco-etologia: studia i rapporti esistenti tra il comportamento e la struttura sociale di una determinata specie animale.

- Sociobiologia: studia i rapporti esistenti tra l’ambiente e la struttura sociale di una determinata specie animale.

- Eto-fisiologia: studia le basi fisiologiche del comportamento. Comprende la neuroetologia, che analizza i processi che avvengono negli organi di senso e nel sistema nervoso centrale, che sono alla base di un determinato comportamento, e la etoendocrinologia che studia l’interazione ormoni-comportamento.

- L’etologia applicata si occupa di identificare i moduli comportamentali ed i bisogni degli animali domestici in riferimento alla relazione con l’uomo, al fine di promuovere il benessere animale e migliorare la relazione che l’animale domestico ha con l’essere umano.

I “padri” dell’etologia sono Konrad Lorenz (1903-1989), Niko Tinbergen (1907-1988), Karl Von Fritsch (1886-1982), erano zoologi e studiavano l’evoluzione del comportamento, confrontando alcuni moduli comportamentali di specie affini per dedurre l’evoluzione di particolari schemi comportamentali, definiti istintivi, cioè innati. Nel 1973 hanno ricevuto il Premio Nobel per le loro scoperte sull’organizzazione e l’elicitazione di moduli comportamentali individuali e sociali.

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Gli etologi vanno differenziati dai behaviouristi, il cui fondatore fu J.B. Watson (1878-1958). Questa scuola riteneva che negli organismi superiori non vi era nulla di innato al di fuori di alcuni riflessi di base ed il comportamento, secondo loro, era costituito da reazioni condizionate. Il loro interesse di studio era il processo di apprendimento, mentre davano scarsa importanza alle basi ereditarie ed innate del comportamento. Il loro era uno studio degli animali in condizioni sperimentali controllate e, quindi, la gamma degli animali utilizzati era necessariamente limitata. I behaviouristi consideravano gli animali come una specie di scatola vuota alla nascita che si andava riempiendo di input esterni che venivano memorizzati.

Le differenze tra etologi e behaviouristi erano anche di tipo metodologico: lo psicologo behaviourista collocava l’animale in un ambiente controllato dove poter osservare il suo comportamento senza influenze ambientali; l’etologo osservava l’animale libero nell’ambiente naturale in cui si era adattato. Gli etologi in pratica:

- studiavano l’animale nel suo contesto naturale (osservazioni in natura); - prendevano in esame la matrice innata;

- ritenevano che l’apprendimento avvenisse a priori; - consideravano importante la specie;

- attribuivano all’apprendimento un valore adattativo;

- ritenevano che l’apprendimento dipendesse dalle relazioni parentali e sociali;

- davano importanza alle motivazioni interne e consideravano gli stimoli specie-specifici.

I behaviouristi, invece:

- studiavano gli animali in situazioni rigidamente sperimentali (osservazioni in laboratorio);

- consideravano l’animale come un “foglio bianco”, condizionato dall’ambiente; - ritenevano che l’apprendimento avvenisse a posteriori;

- consideravano importante ciò che veniva appreso;

- credevano che l’apprendimento fosse un semplice arco riflesso e che avvenisse attraverso associazioni tra stimolo e risposta.

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La polemica tra le due scuole è ormai superata, esistono dimostrazioni inconfutabili che il fenotipo comportamentale sia il frutto della complessa interazione tra genetica ed ambiente e non è detto che un comportamento programmato geneticamente non sia influenzabile dall’esperienza.

L’etologia oggi ritiene che la quasi totalità delle manifestazioni comportamentali che possiamo osservare nel regno animale sia di natura adattativa. Alla nascita l’animale dispone di risposte innate, integrate nel sistema nervoso, che fanno parte della sua struttura ereditaria. Lo sviluppo evoluzionistico di questi comportamenti, analogamente a quello delle caratteristiche strutturali, è graduale e la selezione naturale opera in modo da modificare il comportamento per adattarlo nel miglior modo possibile all’ambiente. Un altro mezzo che permette l’adattamento all’ambiente è l’apprendimento, che consente all’animale di modificare il proprio comportamento in base all’esperienza acquisita durante il processo di crescita. L’animale impara a riconoscere quali risposte assicurano un miglior risultato e modifica, di conseguenza, il suo comportamento. Istinto ed apprendimento collaborano entrambi al comportamento adattativo, il primo attraverso la selezione naturale, che agisce filogeneticamente, il secondo ontogeneticamente (Wozniak, 1987; Skinner, 1957).

Importanza dell’etologia per capire il comportamento del cavallo

Il comportamento di un animale caratterizza la sua interazione con l’ambiente e influisce notevolmente sulla sua probabilità di sopravvivenza e di riproduzione. Per gli animali domestici, la selezione naturale è stata sostituita da quella artificiale effettuata dall’uomo, che controlla, oltre l’accoppiamento, anche l’accesso alle risorse alimentari ed il riparo.

Il cavallo è un animale sociale che preferisce vivere insieme ai conspecifici, ma è disposto a socializzare anche con altre specie. Il branco, in natura, è una strategia di sopravvivenza, in quanto riduce il rischio di essere predato, ma il cavallo moderno ha imparato ad interagire in termini sociali anche con altre specie, come l’uomo. La necessità di individuare ed evitare potenziali predatori ha plasmato la morfologia sensoriale del cavallo ed il suo comportamento. I cavalli nel branco stabiliscono gerarchie sociali durevoli, ma il rinforzo della relazione di dominanza ha importanza relativa, rispetto ad altre specie (come il lupo) e questo si riflette

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anche nel rapporto con l’uomo, che diventa più un rapporto di cooperazione che di vera e propria dominanza.

Un altro aspetto importante del comportamento innato equino è la formazione di coppie per il mutual grooming ed il gioco, tramite i quali il cavallo apprende molto sia in età giovanile sia in età matura. Questi fattori vengono sfruttati anche per creare un rapporto “naturale” con l’uomo.

La postura del corpo svolge un ruolo importante nella comunicazione equina e nella coordinazione dell’attività di gruppo. Poiché il cavallo comunica molto attraverso la vista, è estremamente sensibile a piccole mutazioni di postura dei suoi compagni. Ad esempio la posizione d’allarme, è una postura molto evidente, che ha lo scopo di allertare il branco ad una possibile aggressione ed anche quando è l’uomo ad assumere certi atteggiamenti, il cavallo percepirà un pericolo e risponderà allarmandosi. L’allontanamento da un oggetto o da un individuo può rappresentare un segnale di sottomissione o di paura.

Nei puledri un atteggiamento molto frequente è lo “snapping”, vale a dire lo schioccare e leccarsi le labbra, con la testa abbassata verso terra. È un segnale di sottomissione, che si ritrova anche negli adulti e che nella doma etologica viene considerato come una disponibilità alla collaborazione con l’addestratore (Goodwin, 1999).

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