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Tempesti senza Tempesti. L’attività degli allievi tra Sette e Ottocento.

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Capitolo 11.

Tempesti senza Tempesti. L’attività degli allievi tra Sette e Ottocento.

1- Con un destino che fu comune al secolo (e anche a gran parte del successivo), gli allievi del Tempesti poterono idealmente dividersi in due ampie branche: tra coloro che praticarono la pittura per imparare un mestiere autentico, da spendere per il pane quotidiano, oltre che per dare soluzione al talento individuale; e tra quelli che invece presero in mano la matita e i pennelli per dare un esito tondo ad una educazione ritenuta come senza pause, persone in genere bennate, che identificavano nell’acquisizione di una qualche sapienza artistica un imprescindibile presupposto per l’affinamento del gusto, di un gusto aristocratico, diciamo. Dilettanti insomma, ma dai gusti formati, alimentati da un far di pratica, se non virtuosistico, almeno sufficiente per stare in società e per concludere affari con i mercanti di anticaglie senza essere per forza ingannati.

Eppure, nonostante la disomogeneità dei riferimenti, il tentativo di ripercorrere i momenti apicali della platea dei pittori tempestiani è attività non priva d’interesse, non tanto per una sorta di accanimento filologico, ma perché essi lavorando a Pisa (e non solo) per gran parte dell’Ottocento, ebbero la responsabilità d’indirizzare le scelte di gusto della città per un lungo periodo, fino a riscriverne brani significativi della fisionomia artistica. Quanto basta a trasformare un esercizio di ricostruzione in un primo strumento d’indagine storica e culturale

1

.

Del resto la questione del destino della scuola tempestiana fu materia molto sentita dagli stessi allievi di Giovanni Battista. Le amare conclusioni con cui Da Morrona nella seconda edizione della Pisa illustrata siglò la parabola discendente della tradizione artistica locale, quasi come se la morte del Tempesti avesse suggerito un epicedio definitivo (“La Pittura, dopo che del Tempesti i giorni si estinsero, nuovo periodo di sonno in Pisa incontrò)

2

, scatenarono la verve polemica di uno degli allievi più accreditati del maestro, quel Giovanni Stella che in una lunga lettera a Ranieri Tempesti cercò di dimostrare come la liquidazione della tradizione artistica tempestiana fosse stata, oltre che offensiva, fondata su presupposti sbagliati

3

. Nell’elencare con brevi giudizi le decorose fortune                                                                                                                

1

Per un primo regesto della scuola tempestiana v. RENZONI 1996.

2

DA MORRONA 1812, II, P. 554.

3

La lettera dello Stella indirizzata a Ranieri Tempesti è trascritta quasi per intero in Settecento Pisano 1990, pp. 409-11.

Non è datata, ma in essa il pittore si dichiara settantatreenne, e in base al censimento del 1813 del governo francese – dove il pittore era indicato come di 63 anni – se ne ricava che doveva essere nato nel 1750 o 1751 (RENZONI 1997, p.

252). In un documento del 1786 lo stesso pittore si dichiarò invece quarantacinquenne, e dunque nato nel 1740 o 1741

(2)

 

degli ancor viventi scolari del comune maestro (tra i quali lui stesso: “Che? Faccio io vergogna alla scuola sua?”), Stella colse l’occasione per smontare la sentenza del Da Morrona contestandone la dignità scientifica e professionale, non solo perché questi, con un affondo tipico delle polemiche settecentesche tra professionisti e dilettanti, non veniva giudicato un artista in senso stretto ma uno stentato copista, ma anche perché la credibilità del Da Morrona veniva insidiata su di un piano più ampio. Nelle assertive parole con cui Stella irrideva l’incapacità critica dello storico nonostante il suo lungo viaggiare

4

, non solo si dichiarava il cattivo gusto e il precipitoso giudizio dell’intellettuale, ma, negando il potere pedagogico del viaggio (“L’educazione mia in pittura fu tra persone dotte che avean veduto molto, e che senza pregiudizio veruno conosceano perfettamente il merito d’ogni scuola e d’ogni pittura”, così si proteggeva lo Zanetti

5

), lo studioso veniva messo in discussione proprio per quello che era stato uno dei tòpoi della letteratura artistica settecentesca relativa al conoscitore

6

.

La negazione del valore euristico della meditata osservazione del dato visivo, della diretta esperienza figurativa come speculazione intellettuale – che pure nei Dialoghi di Giovanni Bottari avevano avuto un risultato dirimente

7

-, riflettevano lo spirito del tempo (Ratti non aveva esitato a censurare Lanzi per “alcuni errori che paiono indegni in un uomo tanto grande”, perché “egli non è pittore”

8

); tuttavia seppellivano anche i tempi nuovi e riecheggiavano quelli vecchi

9

, e lo facevano negando qualsiasi autonomia interpretativa a chi non fosse stato totalmente dentro il fuoco della produzione e lui stesso operatore. In questo senso allora per lo Stella la conoscenza teorica non poteva evolversi in riflessione estetica, rimanendo rinserrata nel semplice esercizio letterario o puramente antiquariale.

                                                                                                               

(ACP, C 86, Ins 10, 13.9.1786). Questa riteniamo sia l’ipotesi più probabile, non solo perché sottoscritta dallo stesso artista, ma anche perché consentirebbe di datare la lettera al 1813 circa, subito dopo la pubblicazione del volume del Da Morrona (del 1812), rendendo molto più logica l’impostazione polemica della lettera.

4

Sui viaggi del Da Morrona e sullo scetticismo dello Stella, v. infra.

5

ZANETTI 1771, pp. XI-XII.

6

Su questi temi, anche in relazione all’importanza del viaggio per l’acquisizione di una coscienza visiva

‘professionale’cfr. PERINI 1991. Per qualche precisazione sull’identità dei dilettanti, anche in relazione ad un caso pisano v. PELLEGRINI 2006 a.

7

BOTTARI 1754 (ristampati poi a Firenze nel 1770, “corretti e accresciuti”).

8

La lettera di Carlo Giuseppe Ratti a Innocenzo Ansaldi, del 25 novembre 1790, è stata pubblicata e riccamente commentata in PELLEGRINI 2008 a, pp. 501-507 (v. in partic. p. 505).

9

Al passo con i tempi risultava invece l’intento espresso dallo Stella di difendere la scuola del Tempesti anche per

contrastare l’altrimenti “patente avvilimento” della Patria (Settecento Pisano 1990, p. 410).

(3)

Ripercorrere le tracce della scuola tempestiana

10

non è solo la conclusione per inerzia di un lavoro sul maestro; ma è anche un’operazione di ripristino storico di una verità che, abbiamo detto ad inizio di questa ricerca, per lungo tempo ha rischiato di rimanere sotterrata sotto una coltre di maleparole. Come quelle, ne abbiamo accennato altrove, che Carlo Lasinio usò nel 1808 per descrivere la situazione artistica che aveva trovato a Pisa al suo arrivo da Firenze, non trovando di meglio che dichiarare perfidamente come la città non avesse mai avuto una vera scuola artistica, nonostante che avesse avuto “dei giovani dispostissimi a seguirle [le Belle Arti], e che hanno dato prove del loro talento in esse, ma privi dei necessarj soccorsi non sono stati in grado di trasportarsi a Firenze all’Accademia, e perciò sono rimasti oscuri, e senza una coltivazione”. Con la conseguenza, chiudeva l’illustre incisore, che “Il pittore Tempesti ha lasciati degli scuolari che non sono punto cogniti all’Accademia di Belle Arti di Firenze, e che per verità non hanno grandi diritti di esser noti colà”

11

.

Il compito delle prossime pagine, sarà quello di misurare le parole del Lasinio.

2- La scuola del Tempesti fu fitta di dilettanti, che frequentarono lo studio situato presso l’abitazione dell’artista tra via Tavoleria e via del Castelletto

12

spesso in un modo così casuale, sì da lasciare affatto impregiudicata la loro carriera, forse proprio perché di carriera non si poté davvero parlare

13

.

                                                                                                               

10

Per non appesantire troppo queste pagine, abbiamo scelto di orientare i nostri riferimenti alle singole personalità uscite dalla bottega del Tempesti, senza sviluppare una lettura di quei cicli di pittura parietale ottocenteschi ancora senza nome ma di evidente linguaggio tempestiano, che necessitavano di quelle indagini peculiari che avrebbero ampliato a dismisura questo capitolo. A puro titolo d’esempio cfr. le pitture parietali dello scalone di palazzo Lawley a Pisa, che già qualche anno fa sono state correttamente lette come un impoverimento del lessico tempestiano:

TOGNONI 1998, p. 151 (cfr. ora Il Settecento 2001, p. 1001-102, scheda di B. Moreschini).

11

OPA, Carte Lasinio 1, lettera dell’ottobre del 1808. La nota del Lasinio, piena di evidenti inesattezze e falsità (specie sui rapporti dei giovani pisani con Firenze, che invece vi furono), era dettata da un sovrapprezzo polemico anche perché all’incisore, appena giunto a Pisa da Firenze, serviva segnare un distacco dal passato al fine di giustificare il suo progetto: con lui, finalmente, l’Accademia sarebbe stata fondata.

12

Vale la pena di anticipare che a questi vanno poi aggiunti come vedremo quelli artisti dilettanti che frequentarono le lezioni di disegno e di pittura del Tempesti perché iscritti all’Istituto della Caravona dei cavalieri di S. Stefano, dove l’artista ebbe un ruolo di docente (v. infra).

13

In via preliminare è bene segnalare che di alcuni allievi del Tempesti è allo stato attuale della ricerca impossibile

annotare un benché minimo cursus honorum artistico. Così è per Filippo Maria Valli, indicato come allievo del

Tempesti nel 1773 (NOFERI 2003 a, p. 240), ma affatto ignoto ai lessici artistici e ai documenti. Anche di Giuseppe

Montanelli nulla conosciamo se non gli estremi biografici (1768-1847) e che vestì l’abito stefaniano nel 1792

(CIAMPOLINI 1993, p. 169, biografia Tempesti di B. Benvenuti; PANAJIA 1999, p. 82). Del maltese Nicola Antonio

(4)

 

Tra i dilettanti tempestiani vi fu chi, come il misterioso Francesco Bigazzi, si limitò a copiare

“molto bene dei quadri difficili a olio”, pur senza “fa[re] la prima figura”

14

, ma in generale il panorama fu meno banale.

Bruno Scorzi ad esempio, membro di una delle più importanti famiglie pisane settecentesche (nel cui palazzo nel 1773 affrescherà Pietro Giarrè

15

), cavaliere aureato e stefaniano, apprese dal Tempesti quei fondamenti disciplinari che non gli valsero una carriera pittorica, ma quel background di conoscenze che gli risultarono utili nel corso del suo lungo operaiato al Duomo, dove tra l’altro comandò e seguì passo a passo una serie cospicua di restauri alle varie fabbriche ed incrementò le collezioni del Camposanto

16

.

La pratica artistica giovanile servì di orientamento anche al pistoiese Francesco Rospigliosi, che di certo l’aver frequentato lo studio del Tempesti nel 1792-93

17

gli fu in qualche misura utile al momento del ritorno in patria, per diventare intimo di un concittadino che divideva con lui l’amicizia col Nostro: quel Tommaso Puccini (direttore della Reale Galleria di Firenze) che nel

                                                                                                               

Geville sappiamo che fece da testimone al battesimo di alcuni figli di Giovanni Battista, ma di lui non è nota alcuna attività artistica, così come di Antonio Mannaioni, forse nativo di Gambassi (NOFERI 2003 a, pp. 258 n., 261-62 n. ).

Quanto al barghigiano Gaetano Verzani (testimone anch’egli di battesimi dei figli del Tempesti), per quanto nell’assenza di indicazioni probanti sia forte la tentazione di riconoscerlo in colui che ricoprì la carica di lettore di Logica e di professore straordinario di Medicina teorica nell’Ateneo pisano, l’ultimo accertamento cronologico noto – il 1737 – esclude, o almeno rende assai improbabile, la sua identificazione in colui che almeno trent’anni dopo frequentò la bottega del Tempesti (NOFERI 2003 a, p. 262 n.). Occorre però ricordare che Fiorenzo Presler (v. cap. 5) nel 1792 alla sua morte lasciò dei denari al Verzani (così come al Salvioni e al Tempesti), segno di una confidenza probabilmente legata a circostanze artistiche (ASP, Gabella dei Contratti 278, c. 153: l’11.6.1792). Niente si sa invece di Michelangelo (o Angelo) Santini, se non che svolse un’attività decorativa, specie nel Teatro dei Prini agli ordini di Giovanni Stella (ASP, Comune D 1145, 15.11.1790), e neppure di Francesco Santini, che nel 1808 Lasinio indicò come allievo del Tempesti, e che in mancanza di riscontri pare azzardato identificare in quell’omonimo architetto e quadraturista bolognese che tra Sette e Ottocento lavorò intensamente nella propria città (CIAMPOLINI 1993, p. 169, B. Benvenuti, Biografia del Tempesti; RENZONI 1997, p. 239). Quanto alla nobildonna Anna Grassulini v. infra.

14

Settecento Pisano 1990, p. 410, lettera di Giovanni Stella a Ranieri Tempesti. Per un cenno sul personaggio v.

PANAJIA 2009, p. 53.

15

SALVINI 2000. Gli affreschi sono ancora esistenti.

16

Per un riesame delle vicende delle collezioni di Camposanto, anche in relazione all’attività dello Scorzi v. I marmi 1993; Il Camposanto 1996.

17

NOFERI 2003 a, pp. 256-57.

(5)

1807, nel giorno delle nozze di Francesco con la nipote Laura Puccini, gli dedicò una sua traduzione a stampa de La Chioma di Berenice di Callimaco nella versione di Catullo

18

.

Ugualmente interessato alla pratica artistica fu Ranieri Pesciolini, cavaliere stefaniano e iscritto all’Istituto della Carovana tra il 1792 e il 1794 come cavaliere ‘tirocinante’, compreso nel numero di coloro che frequentarono “da fuori” lo studio del Tempesti (al quale si appoggiavano anche quegli studenti della Carovana dei Cavalieri di S. Stefano, che intendevano far di pratica sui rudimenti del disegno)

19

. Prese così seriamente l’attività pittorica da presentare ai dignitari dell’Ordine come saggio di fine anno “un suo quadretto a olio che non ha potuto prima ultimare rappresentante un paese con qualche figura che tutto insieme sì per il disegno che per il colorito dimostra la di lui ottima disposizione per la pittura …”

20

. Fu se non altro l’indizio di una passione autentica, spesa negli anni successivi in un’attività collezionistica ancora da studiare ma che sappiamo aver contato numeri di altissimo livello, che lo condusse – nelle vesti di “caldo amatore delle Belle Arti” – a possedere una statua da alcuni attribuita addirittura a Donatello

21

. Una collezione collocata nel mezzo del suo notevole palazzo di città, con un giardino poi famoso per i lavori che vi condurrà Alessandro Gherardesca, dominato da una edicola neogotica costruita con preziosi frammenti scultorei medievali, e da un “elegante casino”decorato da sculture di Valeriano Cateni

22

.

Diventò poi Presidente dell’Accademia di Belle Arti di Pisa il Pesciolini, carica che tenne dal 1828 al 1839

23

, dove ebbe modo d’indirizzarne il percorso a fianco di Giovanni Rosini, Tommaso Masi (l’esecutore del monumento funebre di Giovanni Battista), Carlo Lasinio e lo stesso Alessandro Gherardesca, in quel periodo del primo Ottocento in cui l’istituto d’istruzione poté davvero esibire un quarto di nobiltà artistica e pedagogica.

Anche Gaetano Mecherini (1768-1843), il successore di Ranieri Pesciolini alla presidenza accademica, passò tra i banchi della scuola tempestiana. Spedito ancor giovane a Roma, dove nel                                                                                                                

18

“Nuovo Giornale de’ Letterati”, n. 22, 1808, pp. 96-9.

19

NOFERI 2003 a, pp. 256-57. Per i riferimenti sugli allievi dell’Istituto della Carovana di S. Stefano che frequentavano anche le lezioni di disegno del Tempesti cfr. RENZONI 1990 a. A testimoniare un legame col Tempesti che non dovette essere episodico, successivamente il Pesciolini sposò Maddalena Roncioni, figlia di quell’Angelo che, come abbiamo visto, era stato uno dei più importanti committenti pisani di Giovanni Battista (PANAJIA 1999, p. 103).

20

ASP, Ordine di S. Stefano 6767-68, 19.7.1793.

21

LUCCHESINI 1826.

22

ASP, Comune F, 267, c. 809, 19. 9. 1823.

23

RENZONI 1997 a, p. 208. Sulle vicende dell’Accademia di Belle Arti di Pisa cfr. RENZONI 1998.

(6)

 

Collegio Nazareno imparò i primi rudimenti del disegno, al suo ritorno in patria trascorse un periodo imprecisato ad affinarsi in via Tavoleria (verso gli anni Ottanta, direi), sebbene i suoi maggiori interessi artistici si siano ben presto orientati verso il teatro, ma con un occhio aggiornato sui grandi dibattiti europei, se è vero che fu colui che volse dall’inglese in italiano la Vita di Lorenzo il Magnifico del Roscoe, in una traduzione peraltro che riscosse ampi consensi

24

. Eppure non si dimenticò dei suoi esordi giovanili, perché dopo il Pesciolini resse fino alla morte le sorti dell’Accademia

25

, manifestando così un interesse per i fatti figurativi non episodico, anche se non fondato sulla diretta pratica artistica. Venne seppellito nella cappella della sua villa di Tripalle, dove il padre di Giovanni Battista aveva lasciato un vasto ciclo di affreschi, dominato dalla replica del celebre S. Michele di Guido Reni, possibile indizio per sospettare di come l’alunnato presso il giovane dei Tempesti avesse seguito strategie di famiglia oggi purtroppo – perduto l’archivio dei Mecherini - non ripercorribili. Qualora poi considerassimo che secondo Alessandro Da Morrona la residenza dei Mecherini sul lungarno di Mezzogiorno era arricchito da affreschi di Giovanni Battista posti entro quadrature di Pasquale Cioffo

26

, ne emerge un intreccio fitto e stimolante tra accudimento teorico, pratica artistica dilettantesca e committenza di grande valore.

Del resto, nella cappella di famiglia situata nella chiesa di S. Maria del Carmine, nella prima metà del secolo i Mecherini erano ricorsi all’intervento pittorico del Tommasi, che essendo stato a sua volta uno dei primi maestri di Giovanni Battista, siglava in modo involontariamente paradigmatico un rapporto tra la famiglia Mecherini – e dunque anche Gaetano – e la famiglia dei Tempesti: dal maestro, al padre e poi al figlio

27

; dal nonno, al padre fino al nipote. Così funzionavano le cose in una città ai confini dell’impero, dove le commissioni artistiche, se insistite, finivano per assumere anche interessi sociologici e perfino di curiosa anche se per ora irrisolta complessità. Perché se quel Tommaso Petrucci, senese, cavaliere di S. Stefano e allievo nel Collegio Ferdinando del Tempesti nel 1792-93, fosse identificabile nell’omonimo Cavaliere che nel 1816 a Siena “nelle case dei Malevolti architettò […] una comoda, e deliziosa abitazione”, il prisma dei destini dei dilettanti allievi del Tempesti si arricchirebbe di una interessante evoluzione, che meriterebbe una indagine                                                                                                                

24

Mecherini fu precocemente biografato dal Rosini, professore di eloquenza presso lo Studio: v. ROSINI 1844 (integrato da PANAJIA 1999, pp. 91-3). Per la sua traduzione del Roscoe, che ottenne ottime recensioni e immediate ristampe v. ROSCOE 1799.

25

RENZONI 1990, pp. 169-70.

26

DA MORRONA 1798, p. 190 (v. FROSINI 1981, p. 161: gli affreschi sono stati distrutti).

27

Nella cappella della Madonna, di patronato dei Mecherini, nel 1747 Tommasi dipinse la Natività di Maria e la

Presentazione al tempio (DA MORRONA 1793, III, p. 288).

(7)

tutta sua

28

, trattandosi di un nobile convertitosi poi al mestiere dell’arte. Circostanza che non deve essere disdegnata come eccentrica, e che nella stessa bottega pisana trovò almeno una sicura conferma nel nobile faentino Stefano Gucci, che nel 1793, dopo aver frequentato per quattro anni l’Istituto della Carovana di S. Stefano – e lì dunque le lezioni di Giovanni Battista Tempesti -, anziché relegare il sapere artistico acquisito nel corredo necessario all’uomo di mondo, lo usò per partecipare ad un concorso per la cattedra di Architettura Militare e Civile presso lo stesso Istituto

29

. Che poi fu la conferma di come, tra Sette e Ottocento, il confine tra professione e diletto cominciava a farsi labile e ricco di esiti imprevisti.

Il cortonese Onofrio Boni ad esempio, trascorse a Pisa una gioventù per niente letteraria, ma intensamente orientata verso la conquista di una laurea in Legge. Abitò dal 1759 al 1765 nel prestigioso Collegio Ferdinando, a due passi da piazza del Duomo, e lì – prima di trasferirsi a Firenze - ebbe la possibilità di valersi delle lezioni di pittura e disegno impartite ai volenterosi dal Tempesti, dove “per il suo genio fece rapidi progressi”

30

. Dovevano essere lezioni calibrate per un pubblico di dilettanti per l’appunto, che ritenevano l’acquisizione dei rudimenti della pratica artistica un buon viatico per l’affinamento del gusto e per sentirsi in agio con le cose del mondo.

Eppure nel suo successivo e lungo soggiorno romano è difficile riflettere sull’attività di brillante polemista del Boni e di storiografo nel campo delle arti figurative – sua, come è noto, una importante e precoce biografia di Pompeo Batoni

31

-, se non immaginando una fisionomia culturale che aveva avuto anche nella frequentazione del Tempesti un qualche prezioso fondamento, fosse                                                                                                                

28

ROMAGNOLI 1832, p. 186; NOFERI 2003, pp. 256-57. Petrucci a Pisa si distinse anche per una accesa e rischiosa attività politica, che lo portò nel 1799 ad essere processato assieme ad altri ventiquattro cavalieri stefaniani per aver appoggiato il governo francese (LUZZATI 1970, p. 128 n.). A proposito di Senesi allievi del Tempesti va poi menzionato Pandolfo Pannilini – che frequentò lo studio del Nostro almeno dal 1792 al 1794. Riteniamo che sia da identificare in un membro di quella stessa famiglia cui appartenne Clarice Gori Pannilini, madre dell’Arcivescovo di Pisa Angelo Franceschi e proprietaria a Siena del palazzo dove qualche anno prima aveva affrescato un altro Pisano, Giuseppe Bracci (v. supra): NOFERI 2003 a, p. 257. Di lui resta la menzione di una Allegoria della Pace e dell’Arte, e di un copia della Madonna della seggiola di Raffaello (RENZONI 1990 a, p. 88 n.).

29

Sul Gucci (1772-1823) e il concorso (vinto da Torpé Donati), v. RENZONI 1980; BARSANTI 1996; NOFERI 2003 a, pp. 256-57. Il Gucci, erede di una illustre famiglia faentina, vestì l’abito di Cavaliere stefaniano il 18 aprile 1789 (CASINI 2001, pp. 278-79).

30

Sul soggiorno Pisano del Boni (1739-1818) cfr. ASP, Università degli studi primo versamento 945, cc. sciolte;

NOFERI 2003 a, pp. 256-57 (dove però si identifica erroneamente l’incontro tra Tempesti e Boni come avvenuto a Roma, nella bottega del Batoni addirittura). Per la citazione sui progressi del Boni v. Settecento Pisano 1990, p. 410 (lettera di Giovanni Stella a Ranieri Tempesti).

31

BONI 1787.

(8)

 

solo tecnico, di mera comprensione del dato fisico e fabbrile dell’oggetto artistico, su cui del resto Boni volentieri insisté nella sua letteratura. E se anche fu vero che Boni, tornato in Toscana nel 1792 per occupare il ruolo di direttore dello Scrittoio delle Regie Fabbriche e Giardini, come abbiamo visto mise una parola decisiva nell’assegnazione al Tempesti degli affreschi nella Sala della Musica di palazzo Pitti come benevola forma di ricompensa verso l’antico maestro, il gesto avrà significato non solo che anche nell’Italia di antico regime ciascuno teneva famiglia, ma pure che gli anni dell’alunnato artistico pisano del Boni furono per l’appunto degni di un risarcimento

32

. La scuola tempestiana non fu disdegnata neppure dalle dame, che fu una caratteristica per niente secondaria di tanti artisti settecenteschi, impegnati nel dar lezioni private alle mogli annoiate e alle figlie in fiore di qualche nobiluomo inorgoglito. I nomi attestati sono solo due, ma è quanto basta per farsi un’idea di un ruolo che non fu per niente casuale.

Una di esse fu la nobildonna Anna Grassulini, facente parte di una famiglia appassionata d’arte da generazioni, alla quale del resto il Nostro non poteva dire di no, perché era tra quelle che aveva finanziato il suo soggiorno romano; morì nel 1828, dopo 25 anni di cecità, meritandosi una epigrafe di Pietro Giordani

33

.

La seconda invece fu Aloysia (o Luisa) Fauquet, livornese, che nel 1812 Ranieri Tempesti indicò come “eccellente pittrice, morta in Francia pochi anni [or] sono”. Di Aloysia ci resta un dipinto, un Ritratto di Filippo Maria Gherardeschi (il musicista padre dell’architetto Alessandro) eseguito a Pisa nel 1773, all’età di 20 anni, che sappiamo essere stato condotto sotto la diretta sorveglianza del maestro che, a giudicare dall’incarnato diafano dell’uomo, non stette probabilmente a guardare limitandosi a dei consigli, finendo invece per impugnare anch’egli il pennello

34

. La collaborazione non produsse il capolavoro, ma almeno l’idea di un insegnamento che fu rigorosamente ligio allo stile del maestro, e a quel senso intimistico e quieto del volti che fu una caratteristica costante di Giovanni.

                                                                                                               

32

Per una biografia del Boni v. BONFIOLI 1970; DI CROCE 2004. Per il possibile suo intervento a favore del Tempesti nell’assegnazione degli affreschi fiorentini: SPALLETTI 2005, pp. 125-26.

33

La notizia del suo discepolato presso Giovanni Battista è in ASF, Bonaini VIII, ins. 15, Ranieri Tempesti da Crespina a Baldassare Benvenuti a Pisa, 12.11.1812 (v. anche PANAJIA 1999, pp. 70-1). Sulla sua morte e l’epigrafe: Nuova Raccolta 1828, p. 85.

34

Sul dipinto, commissionato dal musicista Giovanni Battista Martini per la propria collezione di ritratti di musicisti, e oggi conservato presso il Museo Civico Bibliografico Musicale di Bologna: BARANDONI 2001, p. 40 e n, pp. 290-91;

Alessandro Gherardesca 2002, p. 185, scheda di S. Barandoni. Per la notizia della morte: ASF, Bonaini VIII, ins. 15,

Ranieri Tempesti da Crespina a Baldassare Benvenuti a Pisa, 12.11.1812.

(9)

3- Detto di coloro dunque che a vario titolo esercitarono la pittura per puro diletto, sebbene nel caso del Boni sia inesatto parlare di dilettante -, o che così ritennero di fare negli anni della frequenza della bottega del Tempesti, più cospicua è la parte di quanti invece, da questi andando per imparare un autentico mestiere, ne giustificarono la propensione didattica, dando soddisfazione a quel vecchio contratto che aveva reso possibile al Nostro il pensionato romano.

Fatto cenno all’opaco talento di Guglielmo Tommasi, che in quanto figlio di Tommaso alla morte di questi andò per qualche tempo a scuola da Giovanni Battista per una forma di gratitudine verso l’antico maestro

35

, più interessanti furono invece quei pittori che divisero il proprio tirocinio tra l’Accademia di Firenze e la bottega del Tempesti, nel segno di una implicita attribuzione d’importanza allo studio di via Tavoleria, che funzionò come definitivo riconoscimento pubblico di un ruolo ritenuto degno di gareggiare con gli istituti laureati.

Tra questi una delle figure più interessanti fu Giovanni Corucci

36

. A testimoniare il mutare dei tempi, regnando Pietro Leopoldo i giovani che desiderosi d’imparare il mestiere pittorico venivano ancora economicamente sostenuti dalla Pia Casa di Misericordia, non avevano più garantito il posto a Roma, ma nella più agevole Accademia di Firenze. Nella scelta è presumibile che facesse gioco anche un contributo economico sensibilmente più basso rispetto al passato, oltre alla volontà di rispondere ad una esigenza di rilancio dell’immagine formativa dell’istituto fiorentino, ormai ad un passo dalla riforma.

Nella prima metà degli anni Settanta Giovanni Corucci è più volte documentato nella capitale del Granducato dove “si va esercitando lodevolmente nella Pittura”, e da dove spedì copie in disegno

“di S. Francesco da Sisi” e numerose altre copie di dipinti famosi (presumibilmente tra quelli conservati nella Galleria degli Uffizi), tutti corredati dall’encomio ufficiale di essere stati eseguiti

                                                                                                               

35

Guglielmo Tommasi (1734-1814) entrò nello studio assai tardi, verso i trent’anni. Fu pittore modesto che lavorò soprattutto nelle sue terre di origine, sulla montagna tra Toscana ed Emilia, nella regione di Pietrasanta e Seravezza:

GHERARDI 1935, p. 89 (cfr. anche La Piana 1999, p. 138; NOFERI 2003, p. 240).

36

Giovanni di Giuseppe Corucci, pisano, a dar retta ai censimenti di epoca francese era nato nel 1757, se è vero che nel

1813 venne dichiarato cinquantaseienne e abitante nella parrocchia di S. Michele degli Scalzi: RENZONI 1997, p. 78.

(10)

 

“con somma esattezza”

37

. Tornato finalmente a Pisa, dal 1777 al 1779 Corucci frequentò la scuola di Giovanni Battista

38

.

Giudicato in una memoria di Carlo Lasinio – che fece in tempo a conoscerlo personalmente – uno dei migliori allievi del Tempesti

39

, fu sicuramente da questi assai stimato, se è vero che nel 1790 venne attestato nella brigata di coloro che, assieme al maestro e ad altri, affrescarono la villa Prini a Pontasserchio

40

. Tuttavia la cosa più interessante, che dà la misura della stima di cui godette presso il maestro e anche della sua perizia, è senz’altro la pittura ad affresco delle Virtù Teologali, dipinte a grisaglia ad inizio degli anni Novanta nello scalone del convento di S. Silvestro a Pisa, entro quadrature eseguite dalla bottega del Cioffo (presumibilmente di Antonio Niccolini). Nelle tre figure – condotte su cartoni del Tempesti -, Corucci seppe apportare elementi nuovi, originali, specie nella Carità, governata da un’animazione sconosciuta alle cose tempestiane di questo tipo, da un dinamismo febbrile con qualcosa di rustico (specie nei movimenti dei fanciulli), che fanno ipotizzare come Corucci avesse ben guardato anche a qualche gruppo plastico, con un risultato finale che ne allentava un poco i legami, altrimenti irrecusabili, con le statue dipinte di Giovanni Battista, specie quelle di Crespina, che a queste sembrano essere assai prossime

41

.

Quello della formazione del Corucci è del resto ancora oggi un problema non perfettamente risolto, perché dai recenti restauri degli apparati pittorici di quella che fu la casa dei Bracci Cambini, è emerso come lui, assieme a Vincenzo Piattelli, negli anni Ottanta frequentasse la scuola d’arte diretta da Lussorio Bracci Cambini reduce dall’Accademia Clementina di Bologna, in anni che saranno coincisi con quelli del rimpatrio del Corucci da Firenze. Amava atteggiarsi a goliardo Corucci, che in quelle pareti inframezzò alle decorazioni qualche frase oscena e non proprio da                                                                                                                

37

Sul soggiorno fiorentino di Giovanni Corucci: ASP, Pia Casa di Misericordia 30, c. 46, 5.5.1771; c. 59, 8.3.1772; c.

114, 16.8.1775; c. 124, 14.8.1776; c. 148, 14.12.1777. V. anche CIARDI 1990 a, pp. 48-9, 55 n. Sull’alunnato presso Tempesti: CIAMPOLINI 1993, p. 169, biografia di Tempesti di Baldassare Benvenuti.

38

CIARDI 1990 a, pp. 48-9.

39

RENZONI 1977, p. 78. La notazione del Lasinio risaliva all’agosto del 1808.

40

In particolare Corucci dipinse una Madonna in un’alcova della villa, distrutta nell’ultimo conflitto (AFP 132 R, c.

286, 30.12.1790). Gli altri pittori che sotto la guida di Tempesti lavorarono nella villa furono Nicolò Matraini, Giuseppe Soldaini Francesco Attanasio. La villa è andata distrutta nell’ultima guerra.

41

I pagamenti in S. Silvestro al Corucci partono dal 1789 e terminano nel 1793, e riguardano pitture nelle celle, in una

cappella e interventi non meglio definiti: tra questi vi sarebbe quello nello scalone, dal momento che Tempesti (cui le

grisaglie culturalmente appartengono) non viene mai menzionato (ASP, Corporazioni Religiose Soppresse 1763, alle

date, 16.6.1789, 5.7.1790, 8.7.1790, 9.7.1790, 15.8.1790, 24.8.1790, 9.9.1790, 30.12.1790, 29.1.1791, 28.2.1791,

17.3.1791, 18.4.1791, 25.10.1793).

(11)

cruscante, ma anche la sigla del proprio nome, unita all’indicazione di autografia di una “figura”

parimenti dipinta sul muro, che sarà senz’altro da identificare in quella della tuttora esistente finta statua raffigurante Apollo

42

.

La figura, un Apollo scarmigliato e in elastica ponderazione, non è di quelle indimenticabili, ma costituisce un dettaglio assai importante perché consente di dare un nome a figure analoghe e altrimenti prive di un padre. Tra tutte, quelle esatte trascrizioni dell’Apollo del Belvedere e dell’Ercole Farnese conservate in un salotto di palazzo Mazzarosa in via S. Maria, stilisticamente assegnabili alla stessa mano dell’Apollo di casa Bracci, a formare un gruppo di opere che dice molto del loro autore

43

. Ma anche le due figure monocrome dipinte dal Tempesti e dalla bottega nel salotto a piano terra della villa Lanfreducci a Crespignano, raffiguranti un ulteriore Apollo del Belvedere e la Venere dei Medici, sono ampiamente riferibili alla mano del Corucci, omogenee al gruppo di opere qui delineato, sebbene forse meno legnose e calligrafiche, da far pensare ad un’attenta sorveglianza del maestro

44

.

Emancipatosi dalla tutela tempestiana, Corucci visse a Pisa almeno fino al 1822 (ultima sua attestazione nota

45

), alternando lavori di semplice decorazione a restauri, cui probabilmente lo orientarono i lunghi esercizi di copia svolti a Firenze, che gli concessero un mimetismo stilistico assai probante per una concezione del restauro ancora legata alla pratica dell’integrazione

46

. Uscito                                                                                                                

42

Il Settecento 2011, p. 110, scheda di M. Burresi e B. Moreschini.

43

Le decorazioni non hanno ancora attirato l’attenzione degli studiosi e mancano pertanto di bibliografia. Nella stessa stanza vi sono tra l’altro quattro grandi scene mitologiche (tra le quali spicca un Orfeo) ugualmente a grisaglia, di qualità assai difforme, e con cadute di qualità anche imbarazzanti, ma che pure, per le parti migliori, meriterebbero uno studio specifico.

44

Corucci è ampiamente documentato in villa anche come artista indipendente, nello specifico nel 1782 e nel 1787, quando dipinse “diversi animali nel muro del prato dalla parte del pergolone” e “diversi uccelli americani, che prima erano di foglio incollati”, sul muro del caffehaus (AFDR, Fabbrica della Villa di Crespignano, cc. 87, 90). L’intervento nel salotto sarebbe invece precedente, degli anni Settanta (dunque coevo agli altri affreschi del Corucci di uguale tenore), quando Tempesti è documentato in villa.

45

ASP, Comune F 80, c. 554, 25. 6. 1822 (pagamenti “per aver ridipinto i dodici medaglioni sotto le logge di Banchi”

in occasione della Luminara di S. Ranieri).

46

Dal 1810 sono documentati suoi vari lavori di restauro ai dipinti del Duomo – compreso il grande mosaico del catino

absidale -, ma Corucci venne anche incaricato di prendere in carico il Sacrificio d’Isacco del Sodoma tornato da Parigi,

dove era stato portato da Denon (RENZONI 1997, pp. 78-9). Fu anche colui che nel 1812 aggiunse due strisce laterali

dipinte al quadro del Collignon col Beato Balduino – il penultimo dei quadroni del Duomo - perché risultato troppo

piccolo per il vano che doveva ospitarlo (AMBROSINI 1998 a, p. 127).

(12)

 

finalmente dalla bottega del maestro agli esordi degli anni Novanta, della sua attività pittorica matura non restano molti documenti, ma quei pochi concorrono nel definirne una fisionomia in qualche modo da manuale, perché consistente in un ispessimento di quelle arie e pose e atmosfere che nel suo maestro erano sfumate e raddolcite, e che nel Corucci assunsero poi un’aria calligrafica e un poco spenta. Fu così nei lavori nella Certosa di Calci, specie nella volta della cappella di S.

Sebastiano, col Santo in trionfo tra cherubini tempestiani (risolti nell’espediente abusatissimo dal maestro di porne alcuni accollati alla cornice, a lasciar presagire una dilatazione spaziale incommensurabile), ma col protagonista in una posa impacciata e didascalica, irrisolta

47

.

Meglio allora la Flora dipinta sulla volta di una stanza al piano nobile di palazzo Ruschi a Calci, dove i glutei e la carne sovrabbondante degli angeli sono siglati con eccessiva durezza di contorno, ma la divinità mostra un’aria addolcita e malinconica, che tanto sarà piaciuta, se mai l’avrà vista, al suo maestro

48

.

Un altro allievo del Tempesti dalla personalità interessante, sebbene tutta da ricostruire, fu Vincenzo Giuria. Documentato dal 1778 come autore di apparati festivi (che per l’esiguità dell’impegno non sarà improprio riferire ad un periodo davvero iniziale della sua incubazione artistica)

49

, nel 1782 esordì con un lavoro d’importanza in una delle stanze del palazzo Arcivescovile, dove dipinse la Religione Cristiana

50

. Si trattò di un’opera non priva di una sua persuasiva eleganza, con ricordi tempestiani ma con un senso largo dello spazio che rileggeva in chiave calligrafica anche episodi ulteriori, Vincenzo Meucci ad esempio (ma anche il Ferretti pisano). L’episodio, seppure di non straordinario livello qualitativo, è comunque sufficiente per ipotizzare un lungo lavoro precedente, oggi purtroppo inidentificabile o perduto. Cominciò a

                                                                                                               

47

La cappella di S. Sebastiano venne pagata nel 1791 (ASP, Corporazioni Religiose Soppresse 326, 28.11.1791); cfr.

anche LAZZARINI 1990, p. 204; GIUSTI – LAZZARINI 1993, p. 97.

48

Da un dattiloscritto presso gli eredi, silloge di alcuni documenti conservati nell’archivio di famiglia, si ricava che la Flora venne dipinta dal Corucci nel 1797, mentre Ranieri Gherardi e Pietro Larucci decorarono altre stanze.

49

ASF, Compagnie religiose soppresse da Pietro Leopoldo 2661, aff. 25, E/U Compagnia di S. Orsola e S. Sebastiano, c. 166, 21.2.1778; Id. 2564, aff. 9, c. 412, 30.6.1779.

50

AAP, Mensa, E/U 64, c. 280, 6.4.1782 (v. anche DOLFI 2000, p. 117, dove si indica l’affresco come raffigurante la

Chiesa trionfante).

(13)

frequentare con una certa regolarità anche la capitale (come attestato dal Benvenuti

51

), dove dal 1785 al 1790 venne documentato come uno dei pittori che eseguivano i disegni delle cere anatomiche della Specola

52

. Fu un lavoro che lo abituò ad un esercizio miniaturistico e alla restituzione filologica dell’oggetto che dovette servirgli per la sua intensa attività di ritrattista, visto che nel 1788 venne arruolato dall’Arcivescovo Franceschi tra coloro che dipinsero i più illustri Professori dello Studio pisano nella sala delle lauree in palazzo Arcivescovile

53

. A giudicare da questi, e dalla coppia di Ritratti di Pietro Leopoldo e di Maria Luigia del 1791

54

, Giuria difettò di capacità introspettive, e i suoi volti non uscirono dai limiti della routine ufficiale. Il ritratto in piedi nel senso della postura altera, muto e scostante, capace solo di comunicare il timor panico del ruolo e della funzione, giammai la confidente emozione di un palpito. Fu così che Giuria rese il meglio di sé nei dipinti allegorici e di soggetto religioso, e se nel 1790 venne chiamato ad affrescare una complicata macchina allegorica sulla volta dell’appena inaugurato nuovo teatro di Anghiari, non sarà forse stato un caso

55

. L’episodio è importante anche perché il successo ottenuto consentì al pittore di farsi un nome e una fortuna in Valdelsa, fino a riuscire nel prestigioso incarico dell’affresco della volta del portico del Santuario di Santa Verdiana a Castelfiorentino, ricco di                                                                                                                

51

CIAMPOLINI 1993, p. 169: biografia di Tempesti di Baldassare Benvenuti, dove si sostiene che Giuria, allievo del Tempesti, e l’Allegranti ,“si distinguevano in Firenze, mentre viveva il maestro”. Da segnalare poi che secondo Noferi (2003 a, p. 257), l’artista era di probabile origine genovese.

52

PELLEGRINI 1986, p. 66. Tra i pittori impegnati, oltre al Giuria si ricordano Giuseppe Sacconi, Gaetano Marchissi, Basilio Lasinio, Ignazio Hugford etc.

53

Nel 1788 Giuria venne pagato per i ritratti dei seguenti prelati: Enrico Noris, Gianlorenzo Berti e Alfonso Borelli. Il fatto che nei pagamenti fosse compreso il rimborso per le spese “della cassa mandata di Firenze con i medesimi”, conferma che a quella data l’artista abitava nella capitale (dove come visto lavorava per la Specola): AAP, Mensa, E/U 64, c. 504, 22.3.1788 (v. anche DOLFI 2000, pp. 105-6).

54

I ritratti, f. e d., devono identificarsi con quelli che Giuria dipinse per il Casino dei Nobili, in occasione della visita dei sovrani: ASP, Comune D 1279, “Mandati a uscita” 1791 (oggi sono in palazzo Reale, inv. 922-923). La stessa provenienza sarà da assegnare allora all’altra coppia di ritratti, pure f. e d. dal Giuria in quello stesso anno: intendiamo riferirci ai supposti Ritratti di Maria Carolina di Borbone, e di Ferdinando di Borbone, anch’essi in palazzo Reale (inv.

906-907), ma ugualmente provenienti dai Cavalieri di S. Stefano: CALECA – BURRESI 1999, p. 95; Sovrani 2008, p.

38

55

Si trattava del teatro di Anghiari inaugurato nel settembre del 1790 (e di cui già abbiamo fatto cenno nel cap. 4), dove

Giuria dipinse la volta “con un campo di nubi dove Mercurio guidava la Musica, la Tragedia, e la Commedia al tempo

della Gloria, mentre Giove portato da un’aquila fulminava l’Invidia e l’Ignoranza che precipitava in catene” (“Gazzetta

Toscana” 1790, suppl. al n. 41, p. 146; ZANGHERI 1996, p. 157.

(14)

 

memorie agiografiche e del meglio della pittura toscana di primo Settecento, dove nel 1795 dipinse una discreta Gloria di Santa Verdiana

56

. Fu opera non lontana da un modo figurativo che sembrava riandare alla parlata breve e discorsiva di Niccolò Nannetti (v. l’Apoteosi della Vergine della chiesa di S. Maria in Selva di Buggiano, presso Pistoia), ma con ricordi della pittura sviluppatasi in terra d’Arezzo, dove è ben possibile che l’artista avesse lavorato

57

. Fu quest’impresa un dignitosissimo canto del cigno, perché di lì a poco la sua carriera fu incerta e rotta forse dagli accidenti dell’età.

Concluse probabilmente a Pontorme, dove nel 1806 nella chiesa di S. Michele Arcangelo dipinse su parete una scena con i SS. Lorenzo ed Ansano in adorazione della Madonna col Bambino, che dir mediocre è fin troppo benevolente

58

, e dove i ricordi del maestro erano ormai solo ricordi.

Dalla bottega del Tempesti passò anche quell’interessante figura di artista eclettico che fu Ranieri Allegranti, che tra tutti sembra essere stato quello che forse meno ne risentì, nel senso che tentò di elaborare un linguaggio autonomo

59

, indizio di una personalità indipendente e ben descritta, che solo la morte precoce gl’impedì di sviluppare pienamente, perché “Ranieri Allegranti Pisano, [fu]

rapito dalla morte nel mezzo delle più belle speranze: [altrimenti] egli avrebbe sostenuto la scuola del maestro”

60

.

Documentato dunque di passaggio nella bottega di Giovanni Battista, in realtà l’Allegranti fu l’unico artista di cui è possibile ricordare un alunnato giovanile anche presso l’altro pittore pisano che pensionante a Roma: Nicola Matraini. Alla morte di Ranieri infatti Lussorio Bracci Cambini, nel ricordarlo nella sua splendida prosa icastica come suo “grande amico” fino ad accudirlo sul letto di morte, ne tracciò un fulmineo medaglione che conviene riportare: con l’Allegranti si perse “il più eccellente disegnatore della Toscana. Il med.o fu prima scuolare del sig. Niccola Matraini poi passò

                                                                                                               

56

L’affresco è stato datato sulla base del controllo documentario, v. IMPROTA 1986, p. 91 n; BERTANI – TROTTA 2007, pp. 136-39 (che giudicarono l’artista “un piacevole, seppur modesto frescante […] documentato alla fine del XVIII secolo nella Valdelsa”, sebbene senza offrire tracce di questo operoso passaggio).

57

Cfr. ad esempio i dipinti cortonesi di Pietro Andrea Pucciardi Barberi, sebbene d’inizio secolo.

58

SIEMONI 1997, p. 101.

59

Da qui l’annotazione di Ciardi (1990 a, p. 49) sul fatto che Allegranti “costituiva, in un certo senso, un’eccezione, poiché non apparteneva alla numerosa figliolanza dei discepoli del Tempesti”, giudizio non esatto sulla base di successivi scandagli archivistici, ma giustificato dall’effettiva lontananza del linguaggio di Ranieri da quello di Giovanni Battista.

60

Così Ranieri Tempesti, in ASF, Bonaini VIII, ins. 15.

(15)

alla scuola del Tempesti, in appo andò a Firenze sotto il sig. Ignazio Ugford. Fu protetto dal fu Capitano Macinghi”

61

.

In effetti l’Allegranti sembrò percorrere un percorso inverso rispetto a quello del Corucci: se questi prima andò a Firenze eppoi se ne tornò a Pisa per completare il proprio tirocinio presso il Tempesti, Allegranti se ne partì da Pisa, dove esibì evidentemente grazie così indubitabili da consigliare l’onnipresente Pia Casa di Misericordia di finanziarne il pensionato presso l’Accademia del Disegno di Firenze

62

.

Qui Allegranti venne documentato per lungo tempo, vincendo premi importanti

63

, ma soprattutto grazie ad un’attività di copista presso la Galleria degli Uffizi

64

. Egli riuscì a trasformare quella che veniva in genere considerata solo una tappa intermedia nell’acquisizione di una autonomia artistica, in un vero mestiere, finendo col ritagliarsi un ruolo prestigioso nella Firenze di fine secolo nel campo – remuneratissimo, specie presso i milordi e i tourists – della stampa di traduzione. In questa attività egli spese a lungo un vero talento, predisponendo i disegni per le traduzioni del calcografo,                                                                                                                

61

ASP, Bracci Cambini 36, cc. n. n., 7.12.1783, giorno della morte di Ranieri (che era nato il 31.8.1752, nella parrocchia di S. Cristoforo: NOFERI 2011, p. 118 n.). Da segnalare però che la data segnata sul diario di Lussorio è da ritenersi errata (del resto le sue notazioni non sono un modello di pulizia formale), perché Allegranti è documentato in vita fino almeno al 1791. Il capitano Macinghi (o Macigni) appare sconosciuto alle vicende artistiche.

62

CIAMPOLINI 1993, p. 169, biografia Tempesti di B. Benvenuti, p. 169: fu allievo del Tempesti, e con Vincenzo Giuria “si distinguevano in Firenze, mentre viveva il maestro”. E’ possibile che la lungamente protratta presenza fiorentina dell’Allegranti sia dipesa anche da una sua possibile origine locale della famiglia, dal momento che tra le carte dell’Accademia del Disegno spesso vengono registrati pagamenti a vantaggio di Giovanni Battista e del nipote Niccolò Allegranti (doratori): ASF, Accademia del Disegno 20, c. 16, 15.12.1753; Id. 21, c. 87, 2.9.1769. Quanto al sostegno della Pia Casa è attestato un pagamento all’Allegranti “che si esercita in Firenze con lode, e con profitto nella Pittura, conforme lo dimostra il quadro mandato” (ASP, Pia Casa di Misericordia 30, c. 124, 14.8.1776).

63

Nel 1771 risulta vincitore del premio di Seconda Classe di pittura (ASF, Accademia del Disegno 22, c. 1, 22.12.1771;

v. anche CIARDI 1990 a, p. 49), così come ne 1772 (BORRONI SALVADORI 1985 a, p. 18), nel 1773, quando vinse il premio di Prima Classe con i Figli di Giacobbe (“Gazzetta Toscana”, giugno 1773, p. 89, settembre 1773, p. 162;

ASF, Accademia del Disegno 22, c. 16, 3.10.1773) e, sembra, con un Tobia e l’Angelo (CIARDI 1990 a, p. 49). Nel 1776 fu ancora vincitore del premio di pittura di Prima Classe (ASF, Accademia del Disegno 22, c. 26, 24.3.1776). Ma Allegranti fu in concorso anche nel 1775 (ASF, Accademia del Disegno 149, c. sciolta: “Nota degli studenti che hanno frequentato l’Acc.a per il concorso dell’anno presente 1775”).

64

BORRONI SALVADORI 1983, p. 1044 e n. : nel 1775 l’Allegranti ottenne il permesso come allievo dell’Hugford di

copiare dipinti e sculture agli Uffizi. In seguito risulta attestato come copista agli Uffizi nel 1776, 1778, 1779

(BORRONI SALVADORI 1985 a, p. 18).

(16)

 

settore in cui poté esibire una tale abilità da provocare sospetti presso le autorità intimorite che le copie eseguite dall’Allegranti dei disegni in Galleria potessero venir messe sul mercato come perfette contraffazioni

65

.

Fu così allora che dopo aver collaborato nella realizzazione di alcune stampe sciolte (attività che non abbandonerà mai)

66

, Ranieri venne volentieri coinvolto in prestigiose iniziative editoriali dove l’iniziativa puramente commerciale intercettava le forme assolutamente pertinenti della vera iniziativa culturale. Tra 1774 e 1777 a Firenze si smerciarono dodici incisioni di altrettanti dipinti conservati nelle chiese fiorentine (incise da Giovanni Battista Cecchi e Benedetto Eredi), “per lo più da disegni di Ranieri Allegranti”

67

. Nel 1786, a tre anni dalla sua morte, ancora si pubblicavano le stampe di numerosi dipinti dei Gerini, di cui egli aveva a suo tempo eseguito i disegni

68

. Fino almeno al 1791, anno dell’uscita dai torchi delle tavole dei Ventotto tabernacoli di Firenze, ancora una volta fondate sui disegni di Ranieri, che furono “diffuse anche in esemplari coloriti in acquarello […], e di cui cinque consentono di avere una documentazione di affreschi perduti”

69

. La sua esperienza accademica fiorentina dovette però terminare nel 1776 (non quella professionale, che come abbiamo visto non avrà pause), giacché a partire da questa data il suo nome non comparirà più nei registri accademici. Nel 1782 è documentato di nuovo in patria, nei grandi lavori di decorazione e di rifacimento del palazzo Arcivescovile ordinati da Angelo Franceschi. Questi lavori sono importantissimi per la ricostruzione biografica dell’Allegranti, non solo perché i sui primi conosciuti tra quanti ne fece su parete, ma anche perché attestano una confidenza con l’affresco suscettibile d’incrementi.

L’ovato con le Virtù Teologali sul soffitto dell’abitazione dell’Arcivescovo

70

è condotto con una dizione che tradisce la vicinanza col maestro, non solo per le luci affocate e trascoloranti, ma anche

                                                                                                               

65

FILETI MAZZA 2009, p. 71: l’episodio, accaduto nel 1778, fu risolto solo grazie all’intervento dello Zoffany, che evidentemente garantì l’onestà dell’Allegranti e degli altri allievi ugualmente sospettati a causa della loro abilità.

66

V. BORRONI SALVADORI 1982, p. 100; CIARDI 1990 a, p. 49 (che lo dice impegnato soprattutto nelle copie di Andrea del Sarto, Tiziano, Annibale Carracci, Guido Reni; Van Mieris, Rubens); TONGIORGI TOMASI – TOSI 1990, pp. 321-22.

67

BORRONI SALVADORI 1982, p. 93 e n

68

BORRONI SALVADORI 1982, p. 101.

69

Ventotto tabernacoli 1791; BORRONI SALVADORI 1982, p. 93 e n

70

Sull’affresco, dipinto nel 1782: AAP, Mensa, E/U 64, c. 280, 6.4.1782 (v. anche DOLFI 2000, pp. 117, 191: è un

ovato nella volta della camera d’estate dell’arcivescovo). Secondo Ciampolini (1993, p. 180 n.) era riferibile

(17)

per la Fede dominante al centro, non troppo lontana da quella di Giovanni Battista in palazzo Curini, sebbene con una chiusa formale che non è avventato definire come neoclassica, almeno nella ricerca di un bellettrismo espressivo (i gesti eleganti, i volti ovali, i panni sciolti ma non scossi), che fa pensare ad un aggiornamento sul classicismo romano di primo Settecento (Maratta, Costanzi, oppure, ancor meglio, Benefial), ma anche alla coeva pittura bolognese.

La stessa torsione verso la maniera diaccia di un Neoclassicismo risentito e non ancora bene inteso nelle sue potenzialità espressive, è stato giustamente notata come la cifra espressiva che fa da background alle due belle scene che nel 1783 Allegranti affrescò nella piccola cappella del palazzo dell’Opera del Duomo, raffiguranti la Nascita e lo Sposalizio della Vergine

71

. Si tratta di due episodi che per certe risorse compositive e stilistiche non appaiono distanti da quell’affresco con la Visitazione dipinto lungo la navata della parrocchiale di Molina di Quosa, presso S. Giuliano Terme, databile ai primissimi anni Ottanta, per una analoga tensione narrativa

72

. Se così è, è interessante notare come il Neoclassicismo acerbo e mobile dell’Allegranti si fondasse sulle corde di un classicismo arcaizzante, probabilmente acquisito durante il periodo fiorentino, quando volentieri affinò il mestiere con una vasta platea di copie di esemplari cinquecenteschi che qui sembrano in qualche modo riemergere nella paratassi compositiva, ma non distante dalla narrazione sincopata e persuasiva di Ignazio Hugford, da quel senso monumentale e un poco pesante del disegno, che così facilmente emerge nelle sue prove. Un classicismo dunque, riletto con gli occhi di chi era bene al corrente del Rinascimento fiorentino.

4- La frequentazione della bottega come forma di emancipazione culturale, oltre che tecnica, fu comune ad altri giovani tempestiani, come ad esempio a Saverio Salvioni. Nato a Massa nel 1755, figlio di un agronomo che lavorava nella fattoria d’Agnano per l’Arciduchessa Maria Beatrice, negli anni Settanta fu condotto a Pisa dal genitore, dove dando “segni non equivoci di ottima disposizione per le Belle Arti […] passò alla scuola di Giovanni Tempesti, Pittore non molto                                                                                                                

all’Allegranti anche l’affresco con la Religione che scaccia l’eresia, che invece abbiamo visto essere stato eseguito da Giuria.

71

ASP, Opera del Duomo 672, 25.2.1783. Sugli affreschi dell’Opera del Duomo v. anche BELLINI PIETRI 1909 a, pp.

9-10; CIARDI 1990 a, p. 49; NOFERI 2011, pp. 83-119.

72

Come ricordato nel cap. 10, l’affresco è stato attribuito a Tempesti senza alcun conforto documentario, e datato

addirittura al 1804, l’anno della sua morte, quando l’artista era ormai infermo: NOFERI 2000, pp. 66-74; NOFERI

2003, pp. 33-43. L’attribuzione che qui proponiamo all’Allegranti ci pare sostenuta da evidenti affinità stilistiche e

compositive, comprovate perfino dalle soluzioni fisiognomiche.

(18)

 

eccellente, ma il più distinto che allora si trovasse in quella illustre Città”. Così che il genitore, continuava l’impietoso censore, conoscendo ben presto “che suo figlio con tutte le più felici prerogative non sarebbe mai giunto in quella scuola a divenir Pittore”, lo mandò a Roma, dove per cinque anni “Saverio studiò il disegno con molta passione più consultando ed imitando la natura e gli antichi imitatori di essa, che i maestri, benché si fosse collocato sotto al Corvi …”. Soggiorno che durò fino al 1786, fino a quando cioè, deceduto il genitore, Saverio “dové partirsi di Roma, e recarsi a Pisa per occuparsi degli affari di amministrazione, alla di cui direzione quasi solo rimase”

fino alla conclusione dei medesimi, per poi portarsi di nuovo a Massa

73

.

A dar retta a queste note biografiche, pur sostanzialmente fededegne perché fondate su dirette memorie di famiglia, il periodo di studio pisano del Salvioni fu quasi un impedimento all’impellente genio del giovane massese, bloccato dalla scarsa fama di Giovanni Battista. Eppure a noi sembra che il giudizio sia da rivedere, perché è difficile vedere Salvioni uscire dallo studio del Tempesti per indirizzarsi verso uno dei suoi vecchi maestri romani, senza che quello ne sapesse qualcosa, aver mosso niente, scritto ancor meno. Fu semmai quel viaggio romano del giovane apprendista massese così prossimo a quello stesso che Giovanni Battista aveva fatto venti anni prima, da immaginarlo come la realizzazione di un progetto lungamente discusso tra i due. Un viaggio di perfezionamento allora perfettamente concertato più che il divorzio dalla provincia, che trovò conferma nel ritorno del Salvioni nella bottega del Tempesti, appena il giovane pensionante romano fece ritorno, da orfano, in Toscana.

A giudicare dal frontespizio che nel 1790 Saverio disegnò per il frontespizio del I volume della Fauna Etrusca di Pietro Rossi, gli anni romani non erano per fortuna trascorsi invano. Anzi, se è vero che in esso vi si consumava la traccia evidente di una meditazione sulla pittura mengsiana, ma con un sovrappiù di grazia e smaliziata cadenza discorsiva da far credere ad un suo innamoramento per Pompeo Batoni (ma anche a una evidente virata su Domenico Corvi, specie nella figura che allude ad un fiume)

74

, questo fu un motivo di aggiornamento che ne rese più facile il nuovo inserimento pisano: era giovane, ma aveva qualcosa da dire. Nel 1792 fu ad esempio ricordato assieme al suo maestro nel testamento del barone Presler, segno che il progetto di costituire a Pisa un’Accademia non poté non averlo visto coinvolto

75

.

                                                                                                               

73

Notizie 1834, pp. 457-60. Salvioni venne indicato come allievo del Tempesti anche da Baldassare Benvenuti (CIAMPOLINI 1993, p. 169). Morì a Massa nel 1833.

74

ROSSI 1790 (il disegno fu poi inciso dal Fabbrini). Per il bel disegno preparatorio v. TOSI 2000, p. 350.

75

ASP, Gabella dei Contratti 278, c. 153: il barone morì l’11.6.1792 e donò al Salvioni un orologio d’oro.

(19)

In quello stesso anno Salvioni collaborò anche col Da Morrona (conosciuto nello studio del Tempesti), per il quale disegnò con “esperta mano” il Battistero del Duomo, poi inciso in appendice al II volume della prima edizione della Pisa illustrata

76

. Ma per il letterato non disdegnò neppure una puntata fuori porta, giusto per disegnare la “Madonna col Bambino di Giovanni Pisano sulla porta meridionale del Duomo di Firenze”, pubblicata nello stesso volume

77

.

Ambiente gratificante dunque quello di Pisa, e del resto se a distanza di molti anni –nel 1823 -, Salvioni “si pronuncia[va] sempre scolare del Tempesti”

78

, la ragione non poté che essere individuata non già in una savia predisposizione alla melanconica citazione della gioventù, ma ai frutti che questa aveva dato per la sua carriera.

Quando il pittore massese, finalmente tornato in patria, dopo aver rinunciato sostanzialmente alla carriera artistica attiva anche a causa di problemi alla vista, decise di metter su una Scuola di Disegno

79

, non è difficile immaginare come la sua organizzazione più che all’Accademia romana avesse tratto spunto dalla più accostante, e imitabile, scuola tempestiana, dove non è improprio ipotizzare che Salvioni avesse voluto realizzare almeno una parte di quelle idee che lo stesso Tempesti, assieme a lui, avrebbe voluto realizzare a Pisa.

5- Che il ricordo del Tempesti dovesse essere stato importante nelle pur periferiche vicende pisane, fino a diventare un irrinunciabile punto di riferimento per tutta la generazione di pittori locali a cavallo tra Sette e Ottocento, lo attesta il fatto che uno di coloro che fecero parte della scuola tempestiana, Baldassare Benvenuti, a molti anni di distanza dalla morte di Giovanni Battista sentì l’urgenza di scriverne una biografia, dichiarandosi “fedele espositore, ed infimo scolare di sì caro maestro”

80

.

                                                                                                               

76

DA MORRONA 1792, II, tav. 2.

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DA MORRONA 1792, II, p. 48, tav. 6. Da una lettera non datata di Alessandro Da Morrona al Salvioni, si ricava che l’amicizia tra i due durò anche quando questi se ne tornò a Massa, e il letterato – alludendo ci sembra ad una attività di compravendita di opere d’arte svolta dal Salvioni -, coglieva l’occasione per complimentarsi col pittore, “perché così ancora esercitate il vostro bel genio, e le vostre cognizioni nell’arte nobile del Disegno” (BEM, Autografoteca Campori, s. l., s. d., Alessandro Da Morrona a Saverio Salvioni, Massa Ducale).

78

Settecento Pisano 1990, p. 410.

79

L’inaugurazione della Scuola di disegno (formata “a tutte sue spese”), è da collocare nel primo decennio del XIX secolo, v. Notizie 1834, p. 458.

80

Il manoscritto delle Brevi Notizie di Giovanni Battista Tempesti Pittor pisano, sono conservate manoscritte presso

l’Archivio Storico dell’Università di Siena, tra le carte del naturalista Giuseppe Giuli. Ignote alla moderna letteratura

tempestiana, sono state pubblicate e riccamente annotate da Marco Ciampolini, che le ha datate al 1837 ca.

(20)

 

Amico del Da Morrona, collaboratore di Carlo Lasinio

81

, collezionista di “monete dei tempi di Carlo Magno, e di quegli di Pisa Colonia e Repubblica, ma singolarmente d'artefatti di terra cotta di qualità e di forma diversa, e di pezzi variati di rame e di bronzo, molto usati dagli antichi”

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. Storico dilettante e pittore non di grido

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, Benvenuti seppe ritagliarsi un ruolo per niente secondario come disegnatore, specializzandosi nell’illustrazione botanica, con esiti di qualità alta e per niente occasionale. Per accertamenti basti giudicare dalle incisioni dei tre volumi de I Viaggi per la Toscana di Giorgio Santi, nella Materia Medica Vegetabile Toscana di Gaetano Savi, ma soprattutto nella Fauna Etrusca e nella Mantissa insectorum, pubblicati nell’ultimo decennio del secolo da Pietro Rossi, dove le tavole sono dominate da un segno scientificamente ineccepibile, quasi estraniato nella sigla esatta del reportage filologicamente scrupoloso

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.

                                                                                                               

(CIAMPOLINI 1993, pp. 163-64). Come nota lo studioso, il manoscritto del Benvenuti servì però da cospicua base di partenza per la biografia del Tempesti che Giuseppe Giuli scrisse nel 1841 nel vol. VIII della Biografia degli italiani illustri nelle scienze, lettere ed arti del secolo XVIII, e de’ contemporanei, edita a Venezia nel 1841 per cura di Emilio De Tipaldo (GIULI 1841). Del Benvenuti non sono noti gli estremi cronologici. Doveva essere nato nel 1772, dal momento che nel censimento del 1813 venne indicato come di anni 41, ed abitante nella parrocchia di S. Frediano. La prima sua attestazione conosciuta risale al 1789, quando sappiamo che ritoccò alcune pitture nella chiesa di S. Nicola

“sciupate dai muratori che ristuccarono le crepe […] e dalli imbianchini (ASP, Corporazioni Religiose Soppresse 1442, c. 49, 12.7.1789). La commissione deve intendersi come soddisfatta durante il periodo di frequentazione della bottega del Tempesti. L’ultima documentazione nota risale al 1841, quando firma e data un disegno allegorico donato al sacerdote Luigi Biscioni, oggi conservato nella collezione di Disegni e Stampe della Soprintendenza di Pisa (RENZONI 1997, p. 25).

81

Benvenuti collaborò con Lasinio nella sistemazione e nel restauro del Camposanto di Pisa (LASINIO 1923, p. 12).

Contribuì anche all’incremento delle collezioni dello stesso Camposanto, donando una “ara da sacrifizi di stile barbaro”

(GRASSI 1837, II, p 166), che la critica recente ha identificato in un’acquasantiera (I marmi 1993, p. 177, scheda di A.

Milone).

82

DA MORRONA 1812, I, p. 464 (cfr. anche in appendice dello stesso volume due tavole disegnate dal Benvenuti).

83

RENZONI 1997, p. 23.

84

SANTI 1795-1806; SAVI 1805. Cfr. anche GARBARI – TONGIORGI TOMASI – TOSI 1991, pp. 76, 231, 233, n.

(ai quali spetta il merito di aver per primi individuato e discusso l’attività del Benvenuti nel campo dell’illustrazione botanica). Anche secondo Carlo Lasinio, Benvenuti era “alquanto buono per copiare delle piante di Bottanica”

(RENZONI 1997, p. 24, con riferimenti ad altre tavole redatte dal Benvenuti). Per le dieci e poi otto tavole raffiguranti

gli insetti: ROSSI 1790, I; ROSSI 1794, II.

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