• Non ci sono risultati.

Il pittore e la città. Tempesti e le prime grandi commissioni.

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Il pittore e la città. Tempesti e le prime grandi commissioni. "

Copied!
32
0
0

Testo completo

(1)

Capitolo 7.

Il pittore e la città. Tempesti e le prime grandi commissioni.

1- Nel 1766 in Duomo venne inaugurata una delle grandi tele finanziate col Negozio dei parati, una delle più significative tra quante celebravano il paradiso pisano: Il ritrovamento della testa di S. Torpé, del veronese Giambettino Cignaroli

1

. Molto si è discusso sulle ragioni di una scelta che, tutto sommato, apparve piuttosto eccentrica rispetto alle strade romane percorse fino ad allora dai Deputati del Negozio. Certo, Cignaroli era un pittore d’impostazione classica, anzi, esponente di un classicismo intrigante perché tendeva ad innestare su di un sostrato compositivo e disegnativo assai disciplinato, il fascino della perturbata sensibilità cromatica dei Veneti

2

. Cignaroli poi era reduce da un importante soggiorno parmense, dove, oltre alla bellissima tela di S. Maria della Steccata, aveva lasciato l’eredità di una approfondita conoscenza con Carlo Innocenzo Frugoni, che è come dire tutta l’Arcadia in una sola persona

3

.

Cignaroli era in rapporti col Gabburri (a cui donò un disegno), e il suo coinvolgimento nelle cose pisane è stato letto come il risultato di un’influenza esercitata proprio dallo storico e collezionista fiorentino che, benché morto ben prima della commissione dell’opera, si ritiene avesse avuto modo di convincere i Pisani sulla validità dell’artista, come segno della volontà di una collettività di sprovincializzarsi

4

. Ma la sua fu invece una candidatura maturata completamente in ambienti pisani. Non solo grazie alla mediazione dell’architetto veronese Ignazio Pellegrini,

                                                                                                               

1

Il dipinto venne collocato in Duomo il 30 aprile 1766. Nell’occasione, secondo una modalità già adottata come metro di misura estetico a proposito del Batoni, si notò come il dipinto fosse buono, nonostante le “poche figure”

(Da Cosimo III 1990, pp. 121-22, scheda di C. Sicca). Per Da Morrona il quadro era interessante, specie nel “gruppo de’ Sacerdoti”, con forme “scelte dal bello ideale” e “sugose e vaghe tinte”, e dava ragione a Mengs che aveva giudicato il pittore ben degno della tradizione veneta (DA MORRONA 1787, I, pp. 145-46).

2

Anche in recenti letture panoramiche della pittura neoclassica, Cignaroli è stato letto come un pittore dal solido impianto classico, in un contesto dove. non certo per caso, ci si soffermava a lungo proprio sul ciclo di dipinti settecenteschi per il Duomo di Pisa: MORANDOTTI 2002, p. 82.

3

Sul Cignaroli esistono ormai precisazioni e riferimenti bibliografici generali sufficientemente completi:

BEVILACQUA 1771; WARMA 1988; ZATTI 1989.

4

Su questo v. COLEMAN 2002 (dove però fin troppo s’insiste sui rapporti fiorentini del pittore).

(2)

presente a Pisa in corpus et spiritus, e non soltanto come lontana autorità intellettuale

5

, ma anche per una circostanza più ricca di possibilità. Tra i Deputati incaricati di scegliere i pittori per i quadroni del Duomo vi era il nobile Niccolò Rosselmini, che fu in rapporti così intimi con Francesco Algarotti da essere ricordato nel suo testamento pisano col dono di una scatola d’oro smaltata “di rilievo”

6

. Difficile pensare che nei conversari pisani il Rosselmini non avesse avuto occhi per apprezzare i quadri del Tiepolo posseduti dal Conte, e da questi donati a Cosimo Mari, funzionario granducale abitante a Pisa dal 1762 al 1794, che non avrà certo negato agli intendenti – dilettanti o professori che fossero -, la vista di quel bendiddio

7

. Ed è allora ancor più difficile ritenere che la scelta di un pittore come il Cignaroli che, come unanimemente accordato dalla critica, riannodava i fili con la tradizione veneziana in generale e tiepolesca in particolare, fosse stato il frutto di una geniale improvvisazione o di una scommessa.

Inoltre Giambettino nel 1764 era stato eletto Direttore perpetuo dell’Accademia di Verona, che parve l’ufficializzazione di un ruolo che il pittore si era accortamente scelto. Se i rapporti dell’artista con Pisa si aprirono e si chiusero con due doni offertigli dal Comune (dietro richieste lasciate cadere con studiata sprezzatura, come si addiceva all’uomo di mondo), e questi non furono del vil denaro, ma il Theatrum Basilicae del Martini e le Opere del Baldinucci, qualcosa avrà voluto ben dire sul temperamento del pittore

8

.

La vasta tela, nonostante le molte patenti del suo autore, non convince completamente, perché non tutto è alla stessa altezza, ma non si può negare che si tratti di un esemplare affascinante di quella cultura a metà tra classicismo sentimentale e filologico, che sarà uno dei momenti chiave della cultura settecentesca. E infatti piacque molto ai suoi committenti che, forti anche di un

                                                                                                               

5

Sull’interessamento dell’architetto Ignazio Pellegrini per il dipinto del Cignaroli cfr. WARMA 1988, pp. 89-90, 337. Sulla presenza pisana dell’architetto veronese (che meriterebbe una radicale riconsiderazione) v. CHIARELLI 1966.

6

Il testamento dell’Algarotti è stato pubblicato e commentato in DA POZZO 1963-64.

7

Su Cosimo Mari, amico stimato di Vittorio Alfieri durante i suoi agi pisani, qualche nota in FABRIZI 2001, pp.

82-83, 95. I due dipinti (“uno rappresentante Cristo condotto al Calvario, l’altro un Convito di Marco Antonio e Cleopatra”), non rientrano tra gli oggetti preziosi che vennero rubati nell’abitazione pisana del Mari nel 1794, un furto “con scasso” che destò scalpore e che conobbe l’onore delle cronache (“Gazzetta Universale” n. 67, 1794, pp.

529-30).

8

Il dono dei volumi del Martini e del Baldinucci aprirono e chiusero i rapporti dei Deputati con l’artista (ASP,

Comune D 1380, cartella 4, docc. alle date 31.7.1760, 19.8.1766).

(3)

esplicito e benevolo consiglio dell’Imperatore Giuseppe II (rimasto folgorato dalla tela durante una visita al Duomo), tentarono di convincere il pittore ad eseguirne una seconda

9

.

La fisionomia che l’impegnativa serie di tele in cattedrale stava ormai assumendo era infatti qualcosa che cominciava ad esorbitare la normale e prescrittiva pratica devozionale. In un passo della lettera del 1766 del citato carteggio tra Francesco Carattoli e Marcello Oretti, a pochi giorni dall’inaugurazione del Ritrovamento, il cantante romano giudicava estasiato l’interno del Duomo in termini che meritano di essere citati: “veramente è una macchina sorprendente in tutto; la chiesa l’è una vera galleria”

10

.

L’insieme dei dipinti moderni posti lungo le pareti, che ormai cominciavano ad essere numerosi, aveva il potere di aggiungere alla chiesa un valore artistico a quello meramente devozionale: ne trasformavano gli assetti e perfino l’atmosfera, il carattere più intimo e riposto. Non solo un luogo di preghiera, una Cattedrale piena di memorie e di corpi santi, ma anche un luogo d’arte, lucidamente, consapevolmente esaltato da arredi che ne trasformavano l’aspetto in una sorta di luogo espositivo. Verrebbe insomma da dire che se Pisa in tutto il Settecento non ebbe gallerie ufficiali – se escludiamo le rapsodiche mostre degli allievi del Tempesti -, fu anche a causa della modificata identità della sua cattedrale. Questa era lo spazio espositivo, il pubblico Museo dei Pisani.

Ma nell’anno della morte dell’Algarotti, Pisa fu movimentata dall’organizzazione di un fatto importantissimo e assolutamente inedito: la vendita al pubblico di una intera collezione di 59 dipinti, che fu ritenuta così importante, da beneficiare di uno scrupoloso catalogo a stampa delle opere

11

. L’episodio merita grande attenzione non solo perché è il primo documento pisano                                                                                                                

9

Secondo il biografo, quando Cignaroli venne presentato all’Imperatore, questi “gli rammemorò i dipinti [suoi]

veduti a Torino, a Milano e principalmente gli fece parola del bel quadro nel Duomo di Pisa …”. Nicolò Rosselmini e Giovanni Battista Lanfranchi Lanfreducci dichiararono di aver cercato di coinvolgere di nuovo Cignaroli approfittando di un suo passaggio pisano nel 1768, ma la cosa naufragò per l’eccessiva richiesta economica del pittore, forte probabilmente delle lodi tributategli dal monarca proprio davanti alla tela del Duomo, in quello stesso anno (ASP, Comune D 217, alla data 2.10.1769; v. anche Settecento pisano 1990, pp. 388-90). La decisione di non affidargli il secondo quadro venne presa ufficialmente nel 1769 (ASP, Comune D 111, c. 185, 2.10.1769).

10

PERINI 1984, p. 301, lettera di Francesco Carattoli a Marcello Oretti, 12.5.1766.

11

ASP, Upezzinghi-Rasponi (95) 546, aff. 1. Si tratta di un foglio a stampa ripiegato senza indicazione del luogo di

stampa, recante il titolo: “In Pisa 1764. Sono in vendita gli appié descritti Quadri con molti altri non notati per

brevità. Chi desidera farne acquisto, mandi in Pisa i suoi Ordini a’ rispettivi Amici, e Corrispondenti prontamente”.

(4)

settecentesco di vendita di una raccolta di dipinti di cui si abbia notizia. Ma anche perché la collezione – eccetto pochissime eccezioni - era estranea all’ambiente pisano, bensì costituita da pittori genovesi (il Clementone, ad esempio), senesi (Ventura Salimbeni), bolognesi (Guido Reni), un Giudizio di Salomone di Caravaggio, un “Diogene al vivo, fino a mezza coscia con Libbri, ed altro” di Salvator Rosa, e perfino nordici (Alberto Duro e Rubens), ma soprattutto veneti: due Palma il Vecchio, due Paolo Veronese, un Tintoretto “bello soprannaturale”, uno della scuola di Tiziano, uno Schiavone, un altro di scuola veneziana

12

.

La pittura veneta, anche se ovviamente era ben possibile studiare e ammirare nelle collezioni fiorentine (ma anche altrove in Toscana: a Cortona ad esempio, dove Tempesti aveva rapporti diretti e buone entrature

13

) e nei palazzi della Dominante (Sebastiano Ricci tra tutti), era benissimo visibile e visitabile anche a Pisa e nei dintorni, senza molti affanni

14

. Ma la cosa davvero importante è che nella busta dell’archivio Upezzinghi che contiene la carta, questa è conservata con acclusa al suo interno un foglio manoscritto, con l’esatta trascrizione del noto testamento pisano di Francesco Algarotti

15

. La raccolta messa in vendita sembrerebbe insomma essere la parte più consistente della collezione personale del conte, che per ragioni ignote – ma forse riconducibili ad una situazione debitoria - non era stata ricordata nel testamento.

La vicenda meriterebbe un approfondimento che esula da questo lavoro; a noi basta la conferma di come la conoscenza della pittura veneta godesse anche a Pisa di opportunità di prima mano, resa possibile da ‘gallerie’ strutturate e variate a sufficienza per spiegare non solo la scelta dei Deputati dei Parati verso un pittore neo-veneto come il Cignaroli, ma anche il senso più segreto di alcune predilezioni stilistiche di Giovan Battista, finora indiziate da qualche pregiudizio.

                                                                                                               

12

Ibid. Gli unici dipinti pisani erano quattro: due dei Melani, uno di Domenico Salvi – artista pistoiese, ma a lungo attivo a Pisa -, e uno del francese François de Troy, eseguito evidentemente nel suo periodo pisano. In coda erano poi elencati anche un piatto decorato con una scena raffigurante il Giudizio di Paride di Raffaello; quattro statuette di Donatello; tre busti d’imperatori.

13

Come è noto sin dagli anni Quaranta a Cortona arrivarono dipinti veneti di notevole importanza come il Piazzetta, grazie all’iniziativa del musicista Antonio Baldi: FORNASARI 2007, pp. 76-87.

14

Nella chiesa di S. Martino a Pisa è tuttora conservato un dipinto d’altare di Palma il Giovane; ma ben più ricche erano le possibilità di aggiornamento offerte da Lucca, dove i veneti erano per tradizione acquistati e collezionati (basti citare Bernardo Bellotto), specie dalla famiglia Conti, con la quale, come vedremo, Tempesti ebbe un intenso rapporto artistico.

15

Il testo del testamento dell’Algarotti, riproducente alla lettera quello citato nelle carte notarili, è conservato

all’interno del foglio a stampa di cui sopra con l’elenco dei dipinti in vendita, come se fosse un allegato. Per il testo

legale del testamento v. ASP, Gabella dei Contratti 276, c. 41.

(5)

Perché se è ben vero che il Nostro risentì – noi stessi lo abbiamo notato – della pittura di Domenico Corvi, tra i suoi maestri romani, è ancor più vero che fino a tutti agli anni Sessanta la pittura del Viterbese non aveva ancora acquisito come sigla assoluta quell’indagine sui fenomeni luminosi e sui contrasti di luce segnati da brucianti contrasti chiaroscurali che pure aveva già iniziato a sperimentare. Fino a quelle date la ricezione tempestiana del Corvi, legata all’apprendimento accademico e alla pratica del nudo, fu semmai legata alla strepitosa abilità disegnativa di questi, e alla sua capacità d’inserire il senso di un racconto all’interno di spazi aperti: l’equilibrio insomma tra percezione naturalistica e innesto di una sensibilità accademica.

Le trame chiaroscurali del Tempesti fino agli esordi degli anni Settanta a noi pare allora che probabilmente furono almeno in parte legate anche alla lettura della pittura, o almeno alla volontà di abbandonare i toni luminosi di tanta parte della sua pittura, per una forzatura dei toni scuri e drammatici, sostenuti però da una pari attenzione alla correttezza del disegno, che fu in qualche nmodo la cifra più evidente del Cignaroli quella almeno che aveva già espresso nel suo quadrone pisano

16

.

2- Il Cignaroli, richiesto dunque di una seconda opera per il Duomo, rispose con una pretesa economica ritenuta eccessiva, segno che aveva annusato l’aria, e la raccomandazione imperiale ai Deputati ben valeva un aumento del compenso precedentemente pattuito. La situazione di stallo sembrò essere ideale: dopo i Melani, il tempo era arrivato per coinvolgere nell’impresa dei dipinti del Duomo un terzo artista pisano. E questo fu, ovviamente Giovan Battista Tempesti

17

, che aveva del resto appena concluso con generale soddisfazione il grande dipinto del Costanzi . Nel novembre del 1769 al pittore venne così ufficialmente commissionato il dipinto

18

: trattandosi di uno di quelli che erano destinati alle pareti della “galleria” del Duomo, la scelta significò la consacrazione ufficiale dell’artista. La decisione dei Deputati – opportunamente richiamati                                                                                                                

16

In questo senso appare assai interessante l’indicazione di un quadro con Due teste di vecchi del Tempesti che, al momento della sua donazione da parte di Giuseppe Piazzini all’Accademia di Belle Arti di Pisa, venne segnalato come “dipinto colle mani”, cioè senza pennelli, alla maniera veneta per l’appunto (AOP, Fondo Lasinio 890/3. C.

n.n., s. d.: il dipinto non è rintracciabile).

17

ASP, Comune D 163, c. 4, 18.11.1769: si desidera che venga commissionato al Tempesti per scudi 550 un quadro per la cattedrale; c. 5, 25.11.1769: si delibera di ordinare al Tempesti “di fare il bozzetto del quadro…” (fig. 85.1).

18

ASP, Comune D 111, c. 188, 25.11.1769. La commissione definitiva del dipinto, una volta consegnato il bozzetto,

fu però del settembre successivo (ASP, Comune D 112, c. 42, 7.9.1770).

(6)

all’ordine dai Priori, perché non si permettessero troppe libertà in sede di commissione e di scelta dei temi

19

( con un gesto che ribadiva come quello dei quadroni fosse un affare di Stato, sebbene del minuto Stato pisano) – ricadde su un soggetto che rivestiva una doppia importanza:

La Messa di Eugenio III (fig. 85).

Da una parte infatti il dipinto si proponeva di celebrare colui che non solo era annoverato tra i Beati pisani, ma che era stato l’unico concittadino a essere insignito della dignità papale.

Dall’altra ricordava invece il pontefice che nella chiesa dei SS. Pietro e Paolo aveva posto fine alla divisione sorta nel 1142 tra i vescovi greci, armeni e siriaci intorno “alla forma ed ai riti liturgici del sagrifizio della Messa” (perché “non da altri apprender si deggiono le norme di Religione, che dalla infallibile Sede Romana, colonna, e fondamento della Verità”

20

), con una scelta che si riannodava all’attualità politica. Il richiamo all’indiscussa autorità papale non poteva non alludere alle controversie accese da Clemente XIV nei confronti dei Gesuiti e alle loro mire autonomistiche in materia di dottrina; ma soprattutto il dipinto fu probabilmente segnato dal difficile clima all’interno della Chiesa, che in quello stesso 1769 portò all’enciclica Cum Summi Apostolatus, dove il pontefice si appellò ad una rinnovata unità della chiesa sotto il segno del vicario di Cristo

21

.

Per dare maggior credibilità al dipinto, Tempesti approfondì la documentazione sulle vesti indossate dai personaggi, in modo che l’immedesimazione storica fosse la più veridica possibile, ed in una lettera ai Priori dichiarò di essersi fatto appositamente prestare oggetti “d’importante valuta”, come “velluti, pianete e simili arredi sacri”

22

. Il dipinto non cercò soluzioni alla maniera seicentesca, come attualizzazione di un messaggio lontano ma eterno; ma, secondo una                                                                                                                

19

ASP, Comune D 111, delibera del 27.1.1770: si ricorda ai Deputati dei quadri “che qualora stimino proprio di commettere a qualche pittore altri quadri per ornamenti della sud.a Primaziale, devino prima ciò partecipare al Mag.to loro per attenderne l’approvazione”.

20

Applausi poetici 1779: pp. II-V. Il commento e lo scioglimento del significato del dipinto spettò ad un autore che si firmò L. L., sigla che forse nascondeva un canonico della Primaziale. L‘intento pedagogico del dipinto era ribadito alla fine della nota, dove l’esegeta ricordava che la rappresentazione “in aria” della Chiesa, “serve non tanto all’ornato, che stà totalmente in libertà dell’immaginazione Pittoresca, quanto alla maggiore coerenza e dichiarazion del Soggetto”. Anche i giornali indugiarono sulla scelta del pittore di aver “arricchito con vasta idea il gran Quadro ponendovi in aria maestosamente la S. Chiesa che sopra candide nuvole stà placidamente assisa, avendo alcuni Angioli che l’ornano mirabilmente” (“Gazzetta Toscana”, n. 34, 1779, pp. 135-36).

21

Sul pontificato di Clemente XIV, la sua azione pastorale e l’enciclica, v. ora L’età di papa 2010.

22

ASP, Comune D 218, ins. 10. Lettera del Tempesti ai Priori, 16.9.1773 (cfr. anche FROSINI 1981, pp. 164-65).

(7)

suggestione più aggiornata, divenne uno scavo antiquario

23

, come ricerca del vero storico, teologico e dottrinale.

In questa ricerca vi era molto dello scrupolo d’artista evidentemente, dell’ansia di far bene e di non offrire il destro a contestazioni. Ma ci sembra di poter dire che vi era anche altro. Vi era la scandita misura del metodo muratoriano, reinterpretato da Giovanni Lami nelle sue “Novelle letterarie”, la necessità d’inverare la santità nella storia, lo svolgimento della necessità di Dio in quella degli uomini. In questo accostamento alla cultura maurina si respirava un atteggiamento antiquietistico che trovò precisi agganci nella cultura pisana, e in particolare nel modo di reinterpretare l’agiografia.

Nel 1772 il pisano“Giornale de’ Letterati”, nel recensire quel monumento alla storia ecclesiastica locale che fu l’Ecclesiae Pisanae Historia di padre Antonio Felice Mattei, non si sottrasse al compito di discutere l’inaspettata esclusione dalla pur ponderosa trattazione di quel “S. Torpete da Pisa” appena celebrato dal Costanzi e dal Cignaroli, per il fatto, protestato dal teologo francescano, che non vi erano fonti storiche sufficienti per delinearne con certezza profilo e fisionomia, mettendone implicitamente in dubbio l’esistenza storica, dunque la validità per l’esercizio della pietà popolare

24

. Era insomma un clima nuovo, suggestionato per l’appunto dalla diffusione del pensiero muratoriano (che a Pisa, come abbiamo visto, si rifletteva ampiamente nella pratica storiografica di Flaminio Dal Borgo, amico del pittore), e la gran tela del Tempesti sembrò aderirvi e rilanciarlo al tempo stesso, così come sembrò rispecchiare le direttive del vescovo Francesco Guidi nei confronti di una predicazione intesa come piana e comprensibile e per una pratica catechistica semplice e diretta

25

.

Il dipinto fu il risultato di un parto molto lungo. Commissionato ufficialmente nel 1770, venne consegnato solo nel 1779

26

per lo scrupolo d’artista del Tempesti, ma anche per alcune

                                                                                                               

23

La lettera del Tempesti è in ASP, Comune D 218, ins. 10, in data 16.9.1773. La “rigorosa osservanza del costume, e questa principalmente degli abiti convenienti de’ Vescovi Armeni”, venne sottolineata anche dal Da Morrona (1787, I, p. 73).

24

Per la fonte principale v. MATTEI 1768, pp. 2, 8-9. Per la recensione: “Giornale de’ Letterati”, t. VIII, 1772, pp.

274-79.

25

BATTISTELLA 1996-1997, pp. 131-36.

26

ASP, Comune D 166, c. 175, 30.8.1779: il Comune stanzia 20 zecchini per il Tempesti per l’assistenza “prestata

in far mettere al posto in questa Primaziale il nuovo quadro, e in fare ripulire gli altri quadri, e ciò per animarlo ad

avere la solita attenzione per i medesimi quadri …” (v. anche AOP, Negozio dei Parati 225, c. 53, 16.12.1771-

(8)

disavventure che ne segnarono il percorso. A causa delle sue grandi dimensioni la tela non venne realizzata nello studio del pittore, ma in più ampi locali presi di volta in volta in prestito. Una volta fu l’ex refettorio dei padri Domenicani di S. Caterina (cari a Giovan Battista, perché nel loro convento vi erano sotterrati i genitori

27

), stanza “stata già conceduta gratuitamente al supplicante per tutto il tempo che abbisogna ad eseguire le sue applicazioni ed incombenze concernenti l’opera suddetta”, ridotta com’era ormai a fienile

28

. Successivamente fu una cappella della chiesa di S. Francesco (quella nei pressi dell’entrata, oggi scomparsa), che nel 1777, quando ormai il quadro era pressoché terminato, venne danneggiato dalle acque

“ridondanti del fiume Arno”, finendo “sommerso sotto più d’un braccio d’acqua”, che rese così umide le pareti della cappella, da far temere il “distaccarsi la pittura dalla tela dal che verrebbe a perdersi la di lui non indifferente fatica …”. Infine una stanza dismessa dai Cavalieri di S.

Stefano, già adibita al gioco della Palla a Corda, concessa grazie al diretto interessamento dell’Operaio del Duomo, perché l’artista potesse con calma riparare i danni dell’inondazione e dare le ultime pennellate

29

.

Il risultato fu soddisfacente, e il dipinto venne ben accolto dal pubblico

30

. Ben apprezzata “per lo sfuggimento delle parti”, ovvero per il “grato effetto della degradazione degli oggetti”

31

, la scena piacque molto per l’acquisita maturità del pittore, capace ormai di orchestrare una scena gremita                                                                                                                

25.8.79: spese per il quadro Tempesti, compresa la collocazione del bozzetto nel palazzo pubblico; c. 55, 25.8.1779:

altre spese per il quadro del Tempesti).

27

ASDP. Archivio Parrocchiale dei SS. Clemente e Margherita, Libro dei Morti 3, c. 234, 26.9.1766.

28

ASP, Comune D 218, ins. 10, lettera del Tempesti ai Priori, 16.9.1773. Nella lettera Tempesti supplicava affinché venisse tolto il fieno dalla stanza, perché la polvere avrebbe altrimenti rovinato il dipinto, e anche che si rendesse il grande vano più ospitale e sicuro, col farvi almeno un’impannata ed un uscio di legname (v. anche FROSINI 1981, pp. 164-65).

29

Sui danni procurati al dipinto e sullo spostamento v. ASP, Comune D 225, c. 377. s. d. , lettera del Tempesti ai Priori; Id., c. 376, 30.1.1777, lettera di Camillo Borghi al Gonfaloniere e Priori; Id., c. 399, 28.1.1777; Comune D 166, c. 20, 4.2.1777; AOP, Negozio dei Parati 225, c. 56, 8.2.1777 (v. anche BARSANTI 1995, pp. 83-4; PANAJIA 1999, pp. 44-5). La stanza della Palla a Corda era probabilmente situata all’interno del palazzo della Carovana dei Cavalieri di S. Stefano. Da segnalare che in una precedente occasione avevamo erroneamente pensato che le acque dell’Arno avessero danneggiato opere imprecisate del Tempesti, anziché quella di cui si è detto: Paliaga-Renzoni 2005, p. 56 (ma la scheda è firmata dallo scrivente).

30

Fu così incerto e apprensivo che, prima di consegnar la tela, Tempesti “volle a viva forza” che il pesciatino Innocenzo Ansaldi - amico, storico e pittore dilettante -, “espressamente là [nello studio] si recasse per sentirne il di lui sentimento” (ANSALDI- MORENI 1816, pp. 23-4 (v. anche PELLEGRINI 2008, p. 118 n.).

31

V. rispettivamente Descrizione 1792, p. 13; DA MORRONA 1816, p. 12.

(9)

e complessa, sottoposta ad una regia unica eppure ricca di episodi minori, di divagazioni e retropensieri. Così ad esempio la donna che si alza il velo

32

(fig. 85.3), il gruppo della madre con i figli al centro – quasi una Charitas -, e i vescovi sulla destra, che fu la parte che Tempesti sottopose ai maggiori cambiamenti nel passaggio dal modello alla tela

33

, forse perché quella sforbiciata delle braccia di sbieco suggerivano un maggiore coinvolgimento dello spettatore.

Quanto alla definizione grafica dei singoli personaggi, il classicismo pausato e come in cifra, rimandava sicuramente, più che al Costanzi, al classicismo postmarattesco di Giuseppe Chiari e Tommaso Pozzi, ma con un gioco dei volti perduti, delle ombre appoggiate e come acide, che ricordavano Domenico Corvi e i suoi esercizi chiaroscurali, anche quelli sperimentati da Felice Torelli nel S. Ranieri che resuscita una fanciulla sulle pareti dello stesso Duomo

34

. Eppoi l’insieme degli astanti, dove come in un soprassalto accademico l’identità degli stessi non si smarriva nel tutto, non si faceva insomma folla, ma rimaneva ritagliata e bene in vista, una teoria rapsodica e netta, con ricordi del classicismo di Benedetto Luti, così facile da trasformare in maniera. Come di chi, insomma, non si accontentava di essere bravo, ma si sentiva in dovere di esibirlo

35

.

3- La gestazione del gran quadro del Duomo fu così lunga e spossata da costringere Giovan Battista a inframezzarne la redazione con il soddisfacimento di altre commissioni, mentre l’attività didattica, come abbiamo visto, prendeva sempre più tempo, rischiando di diventare

                                                                                                               

32

Secondo una tradizione non verificata, la donna sarebbe la moglie di Giovanni Battista, Teresa Beaugnot (GRASSINI 1838, p. 79).

33

Il modello è attualmente conservato presso il Museo di palazzo Reale a Pisa, assieme agli altri modelli dei quadri del Duomo (v. CARLI 1974, pp. 113-14; SICCA 1990, pp. 273, 282 n; Da Cosimo III 1990, p. 122, scheda di C. M.

Sicca). Nel Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi è conservato anche il disegno complessivo dell’opera, che anticipa la versione definitiva (fig. 85.2) (FERRI 1890, p. 145; TONGIORGI TOMASI- TOSI 1990, pp 308, 310;

Da Cosimo III 1990, p. 107, scheda di L. Tongiorgi Tomasi - A. Tosi). Nel Cabinet des dessins del Louvre esistono poi altri studi parziali della grande tela, cfr. MONBEIG GOGUEL 2005, pp. 392, 395-96.

34

Per le suggestioni del Corvi, SICCA 1994, p. 55. Sul dipinto v. anche PAPINI 1912, p. 116; CIARDI 1990 c, pp.

131-32, 147 n.; CIAMPOLINI 1993, pp. 175-76 n.; Il Duomo di Pisa 1995, I, pp. 483-84; scheda di A. Ambrosini.

35

La figura in alto della Fede, assisa sulle nubi impugnante le chiavi, col volto riverso e il corpo ad arco, si rivelava

semmai come una riscrittura di quella Allegoria della Pace che Giovanni Battista aveva dipinto in una delle stanze della

sua casa in via Tavoleria.

(10)

Direttore di quella vaticinata Accademia di Belle Arti caldeggiata al Granduca da Raimondo Cocchi.

Non distante dal dipinto che aveva appena licenziato per Faenza, fu l’impegnativa e inedita pala d‘altare portata a termine dal Tempesti nel 1772 e raffigurante i SS. Crispino e Crispiniano (fig.

91). Il dipinto, ricomparso recentemente sul mercato antiquario, è da individuare con certezza in quello che già secondo la testimonianza di Bartolomeo Polloni

36

era situato sull’altare della cappella della villa Lanfreducci Upezzinghi a Crespignano di Calci

37

, dove Giovan Battista lasciò anche delle prove a fresco, e che, come documentato da una iscrizione antica sul telaio, venne per l’appunto realizzata da “Giovanni B.ta Tempesti 19 ag.to 1772”

38

.

La tela fa parte di certo di quelle sperimentazioni che Tempesti esplorò nel momento in cui si trattò di stringere le fila per il quadrone del Duomo, ma con un senso così struttivo delle forme, così solido e pietroso, da far pensare a un richiamo a un Batoni senza fronzoli, a una meditazione sulle sue pale d’altare di smisurata dimensione. Ma qui, in questa materia quasi abrupta, emergeva una laconicità che portava Tempesti ad un passo dalla sperimentazione di un linguaggio apertamente neoclassico.

La figura di S. Crispiniano, dai toni slavati e sucré, è condotta con un fare assai attento ai risultati della pittura d’intonazione romana (non estranea probabilmente alle suggestioni della coeva pittura francese), con una salda impostazione volumetrica, attenta alle soluzioni di Placido Costanzi, come ad esempio il S. Gregorio della volta di S. Gregorio al Celio a Roma, e con una bilanciata e disciplinatissima dizione nella disposizione delle figure e nell’esercizio dei sentimenti, che qualcosa dicevano sui ricavi che Tempesti poté trarre da Mengs e da Carlo Maratta.

                                                                                                               

36

POLLONI 1837, p. 88 n.

37

Secondo una comunicazione orale degli attuali proprietari, la vendita della tela e la sua sostituzione con l’attuale (eseguita da un modestissimo pittore locale), deve essere messa in relazione alla cessione della villa agli inizi del Novecento.

38

Secondo i documenti di pagamento, Tempesti ricevette L. 80 “per acconto del quadro a olio dell’altare della cappella

rappresentante S. Crispino e Crespigniano” solo nel luglio del 1773. La conferma che la tela era stata però realizzata

ben prima, lo attesta un pagamento ad un certo “Stelli” (da identificare nell’allievo Giovanni Stella) del maggio del

1771, “per imprimitura della tela per dipingere il quadro della cappella” (AFDR, Fabbrica della Villa di Crespignano,

c. 44, 12.5.1771; c. 52, 21.7.1773).

(11)

Una simile intonazione romana è ravvisabile anche nei due inediti affreschi ovali monocromi posti lungo le pareti laterali della piccola cappella, rappresentanti un S. Ranieri insolitamente pensoso e dall’aria dotta e malinconica, e un S. Francesco rapito di fronte alla luce

39

(figg. 90). I due santi sull’altare come militari romani solidissimi, e quelli lungo le pareti come intellettuali malinconici, come modo per offrire un’interpretazione dell’estasi religiosa sottratta alle ansie del martirio, che fu un modo per rispondere alle aspettative del committente: quel Giovan Battista Lanfranchi Lanfreducci ben noto per aver spedito il Tempesti a Roma, che in quanto affiliato all’Arcadia avrà ben apprezzato il senso di una religiosità dominata dalla ragione e da una vena notturna, che davano alla contrizione spirituale un esito assai vicino a quello intellettuale.

Il Lanfreducci aveva del resto iniziato a ristrutturare radicalmente la propria villa a partire dal 1762, “col disegno, e direzione del sig. conte Ignazio Pellegrini di Verona”

40

, e, per quanto riguarda gli apparati decorativi, con l’intervento di Domenico Tempesti e di Jacopo Donati (poi sostituito da Cassio Natili), che dal 1763 furono impegnati per circa un anno in diverse stanze della villa, arricchendone le pareti con quadrature e scene allegoriche e mitologiche

41

.

                                                                                                               

39

Gli affreschi furono conclusi nell’inverno del 1771, in anticipo dunque sul quadro d’altare, quando Tempesti ricevette L. 200 “per suo onorario per le pitture fatte nella sud.a cappella” della villa di Crespignano (AFDR, Fabbrica della Villa di Crespignano, c. 51, 25.11.1771). L’affresco sulla volta, raffigurante S. Giovanni Battista, di qualità assai modesta, non è riconducibile al Tempesti, ma semmai ad un suo collaboratore, identificabile in Giovanni Stella. Per una citazione degli affreschi v. GRASSINI 1838, p. 80. Frosini, riconosceva negli affreschi – che datava al 1757 – un Cristo trionfante anziché un S. Giovanni: FROSINI 1967-68, p. 9 (v. anche FROSINI 1981, p. 149). Gli stucchi furono eseguiti dai Bulani, in particolare da Domenico con la probabile collaborazione del figlio Paolo Antonio, entrambi a lungo impegnati nella villa (AFDR, Fabbrica della Villa di Crespignano, c. 51, 21.9.1771).

40

Così sulla coperta della filza di conti, tenuti personalmente dal Lanfreducci, conservato dalla famiglia Del Rosso a Capannoli (Pisa).

41

Gran parte delle decorazioni di Domenico non sono visibili perché situate nella parte della villa la cui proprietà si è categoricamente rifiutata di concederci di poterli vedere. Nell’altra metà di Domenico sopravvive solo una piccola volta con La Primavera, già nascosta sotto una controsoffittatura. Sulla base della documentazione archivistica sappiamo che Domenico iniziò ad affrescare con Jacopo Donati a partire dall’11 aprile 1763: un salotto con la Morte di Adone, un salottino con le statue (cioè figure dipinte a monocromo) della Sapienza, Umiltà e Prudenza. Una camera detta di Amore e Psiche, eppoi un’altra stanza con le Quattro Stagioni (AFDR, Scartafaccio della fabbrica della villa di Crespignano, cc. 21, 36, 49; Fabbrica della Villa di Crespignano, cc. 12-3, 18, alle date 1.5, 26.6, 18.12.1763). Jacopo Donati morì proprio quando era sul cantiere di Crespignano, nel novembre del 1763 (Ivi, cc.

18-19).

(12)

Terminata questa prima fase dei lavori nel 1765 da artisti di minore livello

42

, nel 1771 il Lanfreducci si rivolse a Giovan Battista, che, dopo il promettente esordio nella piccola cappella, venne reimpiegato qualche anno dopo in più impegnativi lavori per la villa. Tempesti aveva appena terminato la grande tela di Eugenio III per il Duomo, ed era ben pronto per nuove imprese.

Era il 1779, e Giovan Battista Lanfranchi Lanfreducci aveva deciso di rimetter mano ad alcune sale della villa. La prima ad essere interessata fu il salone, dove il quadraturista napoletano Pasquale Cioffo, che già dalla fine degli anni Sessanta abitava a Pisa (alternandovi impegni di scenografo teatrale e di quadraturista), dipinse una serie bellissima – e inedita – di finte architetture

43

, che furono probabilmente alla base della scelta d’Ignazio Pellegrini di condurre poi il pittore con sé a Verona, dove dipinse nel palazzo della famiglia dell’architetto

44

.

                                                                                                               

42

Ad esempio Giuseppe Orsini e Gaetano Piattelli (Ivi, cc. 44, 48).

43

AFDR, Fabbrica della Villa di Crespignano, c. 54, 25.1.1777 (dove Cioffo viene pagato “per aver dipinta la galleria”, oggi non identificabile); c. 83, 6.12.1777 (dove si pagano L. 600 al Cioffo per aver dipinto la sala principale). Secondo Rasario, Cioffo lavora a Pisa per i Roncioni già nel 1767 (RASARIO 1990, p. 181). I documenti tuttavia attestano un intervento continuo del Cioffo presso la villa di Pugnano in un arco racchiuso tra il 1778 e il 1781, culminato nella bellissima decorazione della scala interna, tuttora esistente (ASP, Roncioni (62) 83, c. 34, 14.12.1780; c. 38, 14.1.1781: altro acconto “di lavori fatti e da farsi alla scala”; c. 45, 8.3.1781: altro pagamento per la scala di Pugnano; c. 46, 31.3.1781: saldo al Cioffo). Cfr. RASARIO s. d., p. 57 n.; GIUSTI 1990, pp. 661-62; Il Settecento 2001, p. 163, scheda di A. Mercurio. La prima attestazione documentaria da noi verificata sulla presenza pisana del Cioffo risale tuttavia al 1772, quando lavorerà nel palazzo Alliata, ora distrutto (ASP, Alliata 354, c. 2, 1.8.1772: pagamenti “A Pasquale Cioffo pittore per tutte le pitture fatte nella camera buia”;

18.6.1772: altri pagamenti per la pittura nella camera del caminetto e per lambrì nell’alcova). In un’importante nota autobiografica conservata presso l’Archivio dell’Accademia di Firenze (s. d. ma del 1786), Cioffo dichiarava di essere venuto in Toscana nel 1768 e a Pisa nel 1774, e di stare ancora al servizio di Giovanni Battista Lanfranchi Lanfreducci, avendo rifiutato la possibilità che gli era stata offerta di poter andare a lavorare presso l’Accademia di Siviglia: A.A.B.A.F., B 62: s. d. (ma 18.18.1786).

44

Per il salone di palazzo Pellegrini a Verona – ristrutturato da Ignazio -, decorato dal Cioffo nel 1799 congiuntamente al figurista Antonio Pachera (che forse non casualmente era stato allievo di Giambettino Cignaroli) v. MARINI 1988, pp. 80-1; MARINI 1997, p. 155; MATTEUCCI 1993, p. 69. Nel citato profilo autobiografico, Cioffo dicharava di essere stato a lavorare a Verona per ben due volte, v. A.A.B.A.F., B 62: s. d. (ma 18.18.1786).

Per una voce biografica del Cioffo cfr. Enciclopedia 1956, p. 874.

(13)

Sulla parete principale di quello stesso salone Tempesti intervenne integrando con figure le trabeazioni dipinte, sì che queste risultassero dominate da un ampio riquadro con Orlando che salva Olimpia, episodio tratto dall’XI Canto dell’Orlando Furioso

45

(fig. 104.1).

La scena non è oggi facilmente giudicabile a causa di evidenti ridipinture. Si tratta tuttavia di una scena indubitabilmente tempestiana, come suggerito dalla tavolozza dei colori e dalle fisionomie (e il gesto raccolto dell’eroina abbandonata sull’isola di Ebuda, mentre si ritrae all’attacco dell’orca, varrebbe un’indagine morelliana sui capelli fini e mossi, lo sguardo sperduto sull’incarnato leggerissimo), che nonostante i rammendi riveste tuttora una certa importanza non solo perché ci restituisce una tappa del carnet tempestiano fino a oggi sconosciuta, ma anche per la precisazione di alcuni aspetti dei dibattiti culturali nella Pisa settecentesca. Tra questi vi è la scelta del soggetto tratto dall’Ariosto

46

. Olimpia rappresenta nel poema ariostesco l’idea della bellezza costantemente minacciata, dunque il gesto di Orlando vale a sottrarla all’oltraggio e all’offesa. Allo stato attuale della ricerca è difficile dire se l’episodio si presti tra le mura pisane ad una lettura moralizzata, ma la decisione di ricorrere ad una vicenda non centralissima nell’Ariosto – almeno non come quella simile della Liberazione di Angelica – induce a ritenerla calibrata da una intenzione deliberata, oltre che a costituire la spia di una aggiornata sensibilità culturale del Lanfreducci, se è vero che l’autentica fortuna del poema ariostesco avverrà, come è noto, solo con Ugo Foscolo

47

. La narrazione tuttavia di una bellezza non toccata dalla crudeltà, restituita intatta a se stessa con un gesto eroico e come sottratta al decadimento, suggeriscono l’idea di una funzione strumentale assunta qui dall’episodio, imposta dal pastore Alfeo Giovan Battista Lanfranchi Lanfreducci. Quello dell’Arcadia letteraria e colta, che individuava nel Bello una forma di consolazione, sebbene costantemente minacciata dalle necessità del secolo. Una scena del resto, che bene poteva rispecchiarsi negli arredi, dove il padrone di casa aveva appeso quadri appositamente commissionati a Giovanni Stella, raffiguranti episodi mitologici ma dalla

                                                                                                               

45

Il dipinto risulta terminato nel novembre de 1779, quando Tempesti venne compensato con L. 160 “per aver dipinto a fresco il quadro sul muro di sala rappresentante Olimpia legata allo scoglio” (AFDR, Fabbrica della Villa di Crespignano, c. 84, 4.11.1779).

46

Sulla fortuna figurativa dell’Ariosto in Toscana in età moderna: L’arme e gli amori 2001.

47

CARETTI 1970, pp. 41-51 (dove comunque si accenna alle prime riscoperte del poema come avvenute proprio

nell’ambito della cultura arcadica).

(14)

forte patina letteraria: Apollo e Dafne, Diana e Atteone, alternati a stampe raffiguranti ritratti degli uomini illustri della Toscana

48

.

Era del resto il Lanfreducci colui che aveva fatto dipingere nel palazzo sul lungarno il Giudizio di Paride dallo stesso Giovan Battista. Era stato anche questo un episodio legato al tema della bellezza, ad un parere che diventò occasione di guerra, ma che costituiva anche l’allusione ad un’idea del Bello fondata sulla scelta, e dunque sugli strumenti d’interpretazione, e, siamo nel Settecento, sul Gusto, sull’educato parere come forma di distinzione. Fu, probabilmente, il ritratto che il Lanfreducci volle dare di sé.

Poco dopo, Giovan Battista portò a temine la seconda stanza della villa. Si trattò di un piccolo vano indicato nelle carte come un “salottino” posto verso “il prato”, dove – affiancato ancora una volta dalle quadrature del Cioffo -, eseguì “diverse figure rappresentanti tre statue e diversi puttini”

49

. L’identificazione della stanza è tutt’altro che semplice, in quanto nel vano attualmente riconoscibile per le dimensioni come un “salottino” situato verso il giardino antistante la facciata della villa (ancora oggi “il prato”, per l’appunto) e ornato da architetture e figure con putti e finte statue, queste sono solo due, e per giunta di problematica attribuzione, qualitativamente attribuibili all’allievo Giovanni Corucci, assai spesso citato nelle carte relative ai lavori nella villa

50

. Ma di chiunque siano le due figure, l’importante è che uscirono dalla bottega tempestiana, e che nel raffigurare l’Apollo del Belvedere e la Venere Pudica (ma meglio sarebbe identificarla nella Venere dei Medici degli Uffizi) (figg. 104.3 A-B), si tendeva a ribadire una forte intonazione antiquaria del committente, che al lustro di quelle finte statue ben si appoggiava per esaltare quelli “stimabilissimi avanzi di antichità”, che il Lanfreducci “non senza special gelosia” conservava nella villa

51

.

                                                                                                               

48

AFDR, Fabbrica della Villa di Crespignano, c. 42, marzo 1764 (pagamenti per le cornici di 30 ritratti acquistati a Firenze); c. 44, 18.7.1764 (pagamenti a Giovanni Stella, anche per aver restaurato un dipinto con “Due femmine che escono dal bagno”).

49

AFDR, Fabbrica della Villa di Crespignano, c. 85, 6.7.1780, 16.7.1780 (rispettivamente per pagamenti al Tempesti e al Cioffo, coadiuvato questi da Cassio Natili).

50

AFDR, Fabbrica della Villa di Crespignano, c. c. 90, 29.4.1787.

51

Sulla “opulenta” villa di Crespignano, “non meno deliziosa” che ricca, “ove di presente con altri stimabilissimi

avanzi di antichità non senza special gelosia si conserva” la celeberrima iscrizione proveniente dalla Verruca,

considerata uno dei primi esempi di volgare: FABRONI 1791, II, pp. 108-9 n.

(15)

Tuttavia Giovan Battista tre finte statue nella villa le eseguì comunque, anche se non segnalate dalle carte d’archivio

52

, e dunque probabilmente assegnabili ad un periodo successivo la redazione del quaderno delle spese, orientativamente negli anni Ottanta.

Si trattò di una stanza di dimensioni cospicue, adibita probabilmente a sala da pranzo, ancora oggi arricchita da tre elegantissime figure monocrome, raffiguranti l’Abbondanza (o la Prnavera), Mercurio ed una figura di vecchio forse identificabile nell’Inverno (figg. 104.4 A-B- C). Grazie però ad alcune scene minori lungo le pareti, è possibile identificare il ciclo di dipinti come volti alla celebrazione della vita in campagna, intesa non solo nelle sue potenzialità ludiche, ma anche in quelle economiche, che svela una sensibilità fisiocratica, che meriterebbe diverso approfondimento. Nel 1774, negli anni di allestimento delle delizie di questa villa, Ferdinando Paoletti – che aveva dimestichezza anche col ‘Giornale de’ letterati’ di Pisa - pubblicava a Firenze un interessantissimo volume su L’arte di fare il vino e durevole da poter servire all’esterno commercio, che rappresenta uno dei prodotti più precoci della sensibilità fisiocratica toscana, dove tra l’altro, notava Mario Mirri, nella dedica a Pietro Leopoldo lo stesso Granduca veniva indicato col per noi bellissimo appellativo di “Principe Pastore”

53

. Dove il lignaggio e il riconoscimento del ruolo sovrano non apparivano degradati, anzi, dall’attenzione rivolta ai meccanismo economici della produzione e dell’accumulo della ricchezza. E’ una prospettiva crediamo affatto inedita e per questo meritevole di una lettura calibrata e peculiare, che lascia intendere come nel secondo Settecento la campagna distillata dai versi d’Arcadia e dalle malinconie poetiche, dalle Wanderungen preromantiche e dai sospiri delle nobildonne, fosse ormai una intellettualizzazione delle terra vista come luogo economico. Disinteresse arcadico e vilissimo denaro. C’era già molto dell’Italia Ottocentesca.

4- L’inizio di una committenza piuttosto nutrita e di prestigioso lignaggio fu la prova dell’ascesa professionale e sociale del pittore. Accademico romano, vincitore di premi, pastore arcade, autore di un quadro in cattedrale, Tempesti cominciava ormai a recitare un ruolo di primo piano, ampiamente riconosciutogli dalla repubblica delle lettere pisana

54

. E non era questo solo il frutto                                                                                                                

52

II quaderno delle spese per la fabbrica tenuto dal Lanfreducci non è infatti completo. Nelle carte manca anche l’indicazione di un’altra stanza posta al piano terra – la prima -, che della vecchia decorazione che si estendeva in tutte le pareti (non più esistente), conserva ancora un ovale sulla volta con una deliziosa Fama monocroma.

53

Sui fisiocratici toscani v. l’ancora indispensabile MIRRI 1980.

54

In questo senso va forse interpretato anche il ruolo di connoisseur che ben presto gli venne attribuito, come per il

presunto ritrovamento dei capitelli romani della chiesa di S. Felice a Pisa, che secondo Da Morrona risaliva al 1773,

(16)

del rapido assestarsi della fama, o dall’essere Pisa frequentatissima tappa del Grand Tour (o perché egli veniva giudicato come il solo degno pittore di figura a Pisa

55

), ma anche perché la costituzione di una scuola di disegno costituiva di per sé un polo di attrazione formidabile per i visitatori.

L’impresa di gran lunga più importante e complessa che Giovan Battista svolse a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, e che segnò anche la sua affermazione di pari passo con il grande quadro del Duomo, non ebbe però come teatro la città di Pisa, ma la vicina cittadina di Crespina. Situata tra colline di straordinaria bellezza, dove si poteva parimenti godere dei pregi della campagna e dei silenziosi – e talvolta struggenti – giorni che si succedono ai giorni senza che vi arrivasse il rumore del mondo, ma anche della gran comodità di una distanza che non era poi così eccessiva dalle cure cittadine, Crespina a partire dal XVIII secolo fu luogo di villeggiatura dell’aristocrazia pisana – ma anche della grande borghesia, pisana e livornese -, che amò scandirne le dorsali e i valloni con un sistema di ville di grande bellezza, ancora oggi in gran parte esistente.

Tra queste, una delle più belle fu senza dubbio la cosiddetta villa Belvedere della famiglia Del Testa. Iniziata a costruire nel 1770 sotto la direzione dell’architetto pisano Iacopo Piazza sulle fondamenta di una residenza precedente (ma su un progetto che già sin dall’inizio doveva essere del Tarocchi)

56

, la grande villa sanzionava l’affermazione della famiglia Del Testa nel rango                                                                                                                

e che sembra aver coinvolto direttamente il Nostro, anche sotto l’aspetto della lettura storica delle pitture già esistenti nei sottarchi della chiesa (DA MORRONA 1793, III, p. 433). Di recente è stato però dimostrato come la scoperta dei capitelli antichi fosse precedente, e avvenuta per opera di Anton Francesco Gori con la collaborazione di Bernardino Fabbri, sì che l’intervento del Tempesti è da ritenersi come per così dire limitato alla fase critica (BRUNI 2004).

55

Così il musicista Filippo Gherardeschi, sul suo ritratto fatto dalla pittrice dilettante Aloysia Fauquet con l’assistenza del suo maestro (fig. 93), il Tempesti appunto (in data 18 ottobre 1773): “gl’altri pittori di figure che sono qui [a Pisa], fuori del signor Tempesti che ha le mani o per meglio dire assisté al mio ritratto, sono tanti Giovannini da Capugnano …” (BARANDONI 2001, pp. 290-91).

56

L’attribuzione della villa al Piazzi (o Piazza), architetto pisano altrimenti ignoto, risale al Mariti (Mariti 1991, pp.

56-9); ma questi nel redigere il profilo della villa si basò sulle informazioni contenute in una lettera di Ranieri Tempesti (BMOF, Bigazzi 185.5, Ranieri Tempesti a Giovanni Mariti, 2.1.1790). Il Piazza è attestato come al servizio dei Del Testa a partire dal 1764, quando è documentato sul cantiere del loro palazzo di città, in via S.

Martino (BENASSI 2005, p. 31). Nelle carte pisane Piazzi compare però più come capomastro che come architetto,

al punto da far riflettere sul reale ruolo da questi assunto in villa. Sostituito sul cantiere dal Tarocchi a partire dal

1774, è a questi che si devono le soluzioni architettonicamente più innovative del palazzo. La ristrutturazione della

villa dovette essere inaugurata almeno nel 1770 (come suggerito dalla Benassi), dal momento che nel gennaio

dell’anno successivo si facevano contratti per la fornitura di materiali lapidei (LAZZARINI 1996, pp. 157-58).

(17)

ristretto delle famiglie pisane che avevano qualcosa da dire e molto da spendere nel campo della committenza artistica. Dall’aria elegante, con quell’intonazione barocchetta che cede, specie nelle torri angolari, alla citazione neo-cinquecentesca, con una bellissima scala a tenaglia a doppia rampa, l’edificio divenne ben presto uno dei luoghi di delizia più rari del Pisano, specie dopo che Francesco e Giovanna Del Testa vi aggiunsero un composito labirinto di annessi.

La villa, di cui riesce non facilissimo ricostruire le vicende degli arredi pittorici e scultorei per la scomparsa di gran parte delle relative carte d’archivio

57

, venne completamente decorata, addirittura senza aspettare la conclusione di lavori: man mano che una parte veniva giudicata architettonicamente conclusa, già venivano i pittori e gli artigiani.

Colui che sovrintese alla decorazione pittorica della villa fu come detto un artista pisano che abbiamo già incontrato, di cui fino ad allora era nota una esclusiva attività di scenografo teatrale e di quadraturista: Mattia Tarocchi. Egli viene descritto come colui che diresse il lavoro degli altri, dettandone tempi e modi d’intervento, forse suggerendone anche i pensieri artistici. Fu così ad esempio per l’abilissimo decoratore Vincenzo Piattelli, già impiegato dai Del Testa nel loro palazzo di città, ma che proprio a Crespina approfittò per emanciparsi in una carriera sottotraccia, sebbene piena di episodi significativi (nella villa Roncioni di Pugnano, nel palazzo Arcivescovile di Pisa

58

), fino a misurarsi con sufficiente successo nella pittura scherzosa e di                                                                                                                

57

Le carte dell’Archivio Del Testa, conservate presso l’Archivio di Stato di Pisa, solitamente molto doviziose, sono invece assai laconiche sulla costruzione e decorazione della villa: segno che esisteva uno specifico “quaderno di fabbrica”, scomparso o comunque non rintracciato. L’intervento del Tempesti ad esempio, pur indubitabile per evidenti risorse di stile, e perché come vedremo segnalato dai biografi, non appare mai in alcuna carta relativa alla villa. L’assenza di documentazione relativa alla costruzione della villa Belvedere deve probabilmente spiegarsi col fatto che essa fu acquistata nel 1768-69 da Ottavio Cataldi, suocero di Francesco Del Testa e gestore del gioco del Lotto in Toscana, a Genova e a Vienna, con lo scopo di essere trasformata, ingrandita e abbellita, come infatti avvenne. E’ allora ben possibile che il registro delle spese relative alla villa sia stato a suo tempo rimosso dall’archivio dei Del Testa, perché la villa era stata per l’appunto acquistata con i denari dei Cataldi, e probabilmente trasformata con i loro stessi soldi. Nel 1779 per la contessa Angelica Cataldi Bertolini – sorella di Giovanna Cataldi Del Testa – venne redatto un lungo inventario della mobilia del Belvedere che pare le spettasse per più motivi, non ultimo il fatto che conteneva alcuni mobili originariamente nella casa fiorentina del Cataldi, battuti all'asta dei Pupilli nel 1772 e riacquistati dal Del Testa (devo tutte queste notizie alla gentilezza della prof. C.

M. Sicca, che sull’argomento sta seguendo una tesi di Giuditta Gasperini).

58

L’attività del Piattelli è nota dal 1758, quando venne pagato per aver fatto lavori di pittura di poca entità in una

edizione del Gioco del Ponte (ZAMPIERI 1999, p. 372). Nel 1765-67 è documentato nel palazzo Del Testa di Pisa

(TOGNONI 2005, pp. 49-50). Dal 1776 al 1780 eseguì “varie pitture” nella villa Roncioni di Pugnano, e negli anni

successivi, almeno fino al 1793, risultò impegnato anche nel palazzo di lungarno della famiglia, sempre in lavori di

(18)

figura, come negli affreschi nella villa Berzighelli di Capannoli

59

. Le raffinate ed esuberanti sovrapporte della villa di Crespina che gli si possono attribuire, segnate da colori pastello ed eleganti ma non invadenti ghirigori, lasciano intravedere una sensibilità che non fu certo impacciata

60

.

Nel fulcro invece della villa, - il salone a piano terra -, il Tarocchi assunse su di sé la responsabilità del lavoro, condividendone l’impegno con Giovan Battista Tempesti che, lo abbiamo visto, sin quasi dai suoi esordi lo affiancava nei cicli più compositi e impegnativi.

Ben poco si sa dei latinucci del Tarocchi e dobbiamo accontentarci di quanto dice Da Morrona, che lo pose a fianco del pittore Giuseppe Bracci nella schiera degli allievi dei Melani

61

, sotto l’occhio di Francesco specialmente, che come è noto della coppia fu colui che insegnò la quadratura. Liberatosi dalla tutela dei due maestri, Tarocchi intraprese un’interessante carriera che fu equamente spartita tra una più disciplinata e sorvegliata professione architettonica, e un più disinibito percorso di scenografo e quadraturista, spesso affiancando il Tempesti in un rapporto che presto si consolidò in un sodalizio costante e ricco di esiti.

Se giudicassimo Tarocchi solo dalle architetture realizzate ne trarremmo il partito di un progettista impegnato a tradurre in un linguaggio più piano le proposte pisane di Ignazio Pellegrini. La chiesa di S. Apollonia allora, come esempio grazioso e ammodo di quel tardo                                                                                                                

carattere essenzialmente decorativo, come pittura di stucchi, cornici, e per uno “scenario” (ASP, Roncioni (62) 80, c.

258; Roncioni (135) 18, alla data 22.6.1780; Roncioni (135) 22, alla data 11.1.1788; Roncioni (135) 23, 7.4.1793; v.

anche CIARDI 1990 c, p. 143 n.; FANUCCI LOVITCH 1991, p. 292). Per i lavori in palazzo Arcivescovile, svolti in gran parte assieme al Larucci v. AAP, Mensa, E/U 65, c. 274, 14.4.1791; c. 318, 14.7.1792. Le sue ultime notizie risalgono al 1794, quando risultò impegnato nella villa Prini di Pontasserchio, dove eseguì “uno sfondo rappresentante il tempo, e altri putti”, e dove dipinse “un corpo di guardia di Dragoni, sotto una loggia, all’ingresso del cancello dalla parte di tramontana” (AFP, 204 R, 12.12.1794; 199 R, 12.6.1797).

59

Nel salone di villa Berzighelli di Capannoli, il Piattoli eseguì scene con i Baccanali, che sono da identificare nei due affreschi ancora esistenti e ben conservati raffiguranti arlecchinate, personaggi della commedia dell’arte impegnati in attività conviviali, che traducevano in modo piacevole ma corrivo – e narrativamente ammiccante - , i celebri dipinti di tema analogo del Ferretti: cfr. GIUSTI 1995, p. 107; MARITI 2000, p. 74).

60

Piattelli viene esplicitamente ricordato nella villa Belvedere per aver fatto mostre e sovrapporte, v. ASP, Del Testa 63, conto dell’artista in data 29.7.1774; 61, alla data 23.7.1774. (ma anche GIUSTI 1995, p. 108 n.).

61

DA MORRONA 1812, II, p. 543: “Contemporaneo e condiscepolo [presso i Melani] del Braccino [Giuseppe Bracci] fu Mattia Tarocchi pisano architetto, che un tal nome non usurpava, come tanti fanno dopo di aver misurato poco spazio di terreno o dopo d'aver dato di una cattiva casa il disegno. Egli era vero maestro di architettura”.

L’appartenenza del Bracci alla scuola dei Melani è con sicurezza dichiarata da Ranieri Tempesti (1792, p. 380).

(19)

rococò provinciale che tanto successo ebbe a Pisa nel secondo Settecento, garbato e non invadente, con qualche punta di raffinatezza

62

.

Quando invece Mattia abbandonò la squadra per meglio affidarsi ai pennelli, i risultati furono sicuramente più estrosi e talvolta perfino migliori, come nell’occasione del grande vano di Crespina.

La grande decorazione, miracolosamente intatta e in ottimo stato di conservazione, risente in modo indubitabile delle scenografie teatrali. La distanza ad esempio segnata dallo stacco nitido tra architetture immaginate come in primo piano, e dunque nette e policrome, e quelle in secondo piano, che s’intravedono da sotto le arcate e viste di sbieco e talvolta d’angolo, monocrome e appannate, sono il risultato di un espediente caro alla scenotecnica teatrale per segnare le distanze, e far percepire la differenza tra le architetture finte ma da intendersi come tridimensionali e le altre sullo sfondo, semplicemente dipinte. Erano stratagemmi figurativi colti dal Tarocchi sulle pagine di padre Pozzo

63

, a cui certamente s’ispirò nel dipingere la perduta cupola prospettica della chiesa pisana di S. Michele degli Scalzi

64

, probabilmente integrati dall’aggiornamento sugli studi che il matematico Paolo Frisi dal suo scranno pisano aveva appena affrontato giusto sui problemi relativi alla statica degli archi e delle volte

65

.

                                                                                                               

62

Sulle architetture religiose del Tarocchi v. MELIS – MELIS 1996, passim; PALIAGA – RENZONI 2005, passim.

63

“Quello che di particolare fu in lui, si è che non aveva avuto maestro, e solo aveva studiato sulle opere di P.

Pozzi” (MARITI 2001, p. 58). Lo studio delle opere del Pozzo poteva però essere stata condotta sul posto, dal momento che era sufficiente recarsi ad Arezzo (per tacere di Roma), dove tuttora è possibile ammirare la finta cupola pozzesca della Badia (CASCIU – DROANDI 1995).

64

Gli affreschi del Tarocchi nella chiesa di S. Michele furono in gran parte distrutti entro il 1902, a causa dei lavori di ‘restauro’ della chiesa, in grave dissesto a partire dalla fine del Settecento per il cedimento della navata destra (ASF, Comp. Rel. Soppr. 2779, aff. 78. Giovanni Andreini a Giulio Bernardi, 22.11.1787; ma v. anche Da MORRONA 1793, III, p. 388). Secondo le fonti, “le pareti [di S. Michele degli Scalzi ] son dipinte a fresco con sfondi, colonne, nicchie e balaustrate a chiaro scuro, opera del celebre Mattia Tarocchi, che pure dipinse la cupola bella per il suo effetto. Le pitture però della parete a destra di chi entra furono rinnuovate a tempo del Morrona. I medaglioni dipinti presentano l’effigie di alcuni papi appartenenti all’Ordine dei Lateranensi, tra i quali è S.

Zaccaria …” (SCORZI 1888). Nell’archivio parrocchiale niente resta sull’antica fisionomia della chiesa. Questa è stata poi in gran parte distrutta nel corso dell’ultima guerra e successivamente ricostruita. Della cupola resta solo un disegno autografo, conservato nel GDSU, v. Da Cosimo III 1990, pp. 51-2, schede di L. Tongiorgi Tomasi - A.

Tosi; TONGIORGI TOMASI – TOSI 1990, p. 307.

65

TORRINI 1987. Frisi insegnò a Pisa dal 1756 al 1763, dove come è noto si occupò anche di architettura. Questo

spiegherebbe l’interesse manifestato dal Tarocchi per le cupole come problema statico, che lo condusse ad

interessarsi direttamente della cupola della cattedrale pisana (TEMPESTI 1812, p. 27 n.; RICCI 1857, p. 484).

Riferimenti

Documenti correlati

Dell’impresa ci resta solo un bel disegno 24 (fig. 70.1), che mostra come il pittore sapesse ormai perfettamente adeguarsi al clima medio della cultura figurativa toscana, con

Lo spirito dei tempi era quello dell’incentivazione delle discipline utilitaristiche, e questo spiega almeno in parte come mai Giovanni Stella insegnasse a partire dal 1780

mente appena sotto l’orlo e sul collo del vaso; all’altezza della spalla si snoda una serie di zig-zag, mentre sul ventre altre due fasce orizzontali

Ultima modifica scheda - data: 2020/07/22 Ultima modifica scheda - ora: 11.31 PUBBLICAZIONE SCHEDA Pubblicazione scheda - stato: 1. Pubblicazione scheda - data ultima

Possiamo immaginare che, siccome le condizioni climatiche erano buone anche a causa della vicinanza del mare, fossero adornati con molte piante esotiche come le palme e abbellite

Intermediate Polars (IPs), the hardest X-ray emitting Cataclysmic Variables (CVs), thanks to the Integral, Swift and RXTE slew surveys, are now believed to constitute a

Dati i posti limitati della Sala, è necessaria la registrazione entro il 20 gennaio, inviando una email con oggetto ‘Registrazione Rete Clima’

Infatti il termine serrata va più correttamente a definire l’azione dell’imprenditore che decide la chiusura dei cancelli della propria azienda col chiaro intento di impedire ai