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LA PREVISIONE DELLA FATTISPECIE GENERALE DI “CORRUZIONE TRA PRIVATI” (art. 2635 C.c.), INTRODOTTA CON LEGGE n.190/2012

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86 CAPITOLO QUARTO

LA PREVISIONE DELLA FATTISPECIE GENERALE DI “CORRUZIONE TRA PRIVATI” (art. 2635 C.c.), INTRODOTTA CON LEGGE n.190/2012

Sommario:

1. Premessa. - 2. La mancata attuazione della delega governativa prevista dall'art. 29 della legge n. 34/2008. - 3. L'introduzione della legge 6 novembre 2012, n. 190, comunemente chiamata “legge anticorruzione”. - 3.1. Le principali novità introdotte dalla legge anticorruzione, tra strumenti preventivi e strumenti repressivi. - 4. La fattispecie generale di “corruzione tra privati”, prevista dal novellato art.

2635 del Codice civile. - 4.1. Analisi delle modifiche formali. - 4.2. Il bene giuridico protetto dalla norma. Analisi delle modifiche sostanziali, ed esame esegetico della norma. - 4.2.1. Il bene giuridico protetto. - 4.2.2. I soggetti attivi. - 4.2.3. L'elemento oggettivo. - 4.2.4. L'elemento psicologico. - 4.2.5.

Le forme di manifestazione. - 4.2.6. La cornice edittale. - 4.2.7. Il regime di procedibilità. - 4.2.8. Il rapporto con gli altri reati a sfondo corruttivo. - 5.

Considerazioni conclusive.

1. Premessa.

Dopo aver compreso che la norma introdotta nel 2002, in occasione della riforma dei delitti societari, si è rivelata essere insufficiente sotto diversi aspetti, essendosi risolta sic et simpliciter in una forma di

“infedeltà prezzolata” (1), orientata in via principale alla tutela dell'integrità patrimoniale delle società commerciali, è facile intuire che il legislatore abbia nuovamente dovuto mettere mano alla materia.

La dottrina prevalente auspicava l'introduzione di una nuova norma specifica, preferibilmente all'interno del codice Penale, questa volta davvero improntata alla tutela della libera e leale concorrenza, in ossequio alle indicazioni ricevute dall'Azione comune e dalla decisione-quadro.

Si è messo in luce quanto fosse importante, per lo Stato e per l'intera collettività di conseguenza, avere un'economia di mercato moderna, sana e realmente competitiva; tutti aspetti questi, che sarebbero divenuti possibili soltanto mediante la creazione di un sistema salubre, all’interno del quale gli operatori economici potessero agire con la piena garanzia della tutela della concorrenza.

Allo stesso tempo non si è omesso di far notare anche che, tale realtà auspicata, sarebbe potuta diventare possibile solo se si fossero adottate delle norme realmente adeguate per riuscire nell'intento.

In tale contesto, è facile comprendere perché la criminalizzazione della corruzione privata (e di conseguenza, l'attenzione per la tutela della libera e leale concorrenza) rappresenti, ormai da un decennio a questa parte, l'ultima frontiera del “diritto penale degli affari”, verso

(1) L'espressione è di V. NAPOLEONI, “Quale modello di intervento per l'ordinamento italiano?”, in AA. VV.. “La corruzione tra privati”, pag. 282.

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cui convergono, a livello internazionale, gli auspici di una maggiore eticizzazione dei costumi aziendali e professionali ( 2 ).

La visione della corruzione privata in questi termini, deve essere inquadrata all'interno di quell'orientamento chiamato “etica degli affari”: esso considera gli ingenti danni potenziali che possono verificarsi nei confronti dei molteplici soggetti che compiono attività economiche (dai concorrenti, ai consumatori ecc.), e richiede la criminalizzazione di condotte che, sebbene non siano pregiudizievoli sul piano del disvalore di evento, sono comunque capaci di arrecare danni all'economia pubblica nel suo complesso.

Una richiesta, appunto, che si è fatta sempre più accorata negli ultimi anni, anche in ragione della crescente (e comprensibile) pretesa dei soci ad avere una gestione sociale caratterizzata da legalità e correttezza.

Va infatti segnalato che le violazioni sistematiche ai principi della libera concorrenza, compiute da soggetti operanti all'interno di persone giuridiche private, possono produrre gravi perturbamenti nell'ordinario funzionamento dell'economia di mercato: poiché la concorrenza coinvolge aspetti come la simmetria informativa e come il rispetto e la fiducia nel libero mercato, la lesione dei predetti principi può finire col compromettere i fondamenti stessi dell'intera economia di mercato e delle libertà economiche in genere.

In conclusione: le tangenti fra privati non possono più essere considerate come dei meri “costi” per le imprese, ossia come degli aspetti problematici circoscritti solo ad alcuni soggetti, ma piuttosto come un fenomeno pericoloso per l'intero sistema economico capitalistico, proprio in ragione del fatto che finiscono per incidere sulle colonne portanti dell'economia, ovvero le libertà economiche in generale.

Ragionare diversamente significherebbe sostenere un capitalismo malato, esattamente come quello che ha condotto agli scandali finanziari degli ultimi anni (3).

Oltre a ciò, è opportuno fare una considerazione anche su un piano di teoria generale: il concetto di corruzione privata si presenta del tutto neutro, nel senso che designa (esattamente come l'inganno, la violenza o la minaccia) una forma di aggressione suscettibile di colpire qualunque settore della vita sociale ( 4 ), e a ben vedere tale peculiarità finisce per incrementare notevolmente il suo potenziale grado di pericolosità e di diffusione.

Infatti: l'unico presupposto necessario per poter parlare di corruzione privata, è la cosiddetta “relazione di agenzia”, che si ha ogniqualvolta

(2) V. MONGILLO, ““La corruzione tra sfera interna e dimensione internazionale”, pag. 192.

(3) R. ZANNOTTI, “La corruzione privata: una previsione utile nel nostro ordinamento? Riflessioni su un dibattito in corso”, in “L'indice Penale”

(2005), pag. 552-555.

(4) V. MONGILLO, ““La corruzione tra sfera interna e dimensione internazionale”, pag. 191.

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un soggetto “agente” sia incaricato di svolgere un determinato ruolo all'interno di un una organizzazione sociale, e debba operare con lo scopo di perseguire gli interessi di un “principale” (con cui si intende qualunque centro di imputazione di interessi, naturale o ideale).

Ebbene: l'essenza del fenomeno corruttivo tra privati consiste nel

“tradimento prezzolato” di tale relazione, che si verifica ogni volta in cui l'agente corrotto riceva un indebito vantaggio da un terzo, per compiere una condotta che è sì ricollegabile al proprio ruolo lavorativo (ossia esercitare un potere, oppure adempiere o meno ad un dovere, entrambi inerenti al proprio ufficio), ma che non viene esercitata nell'interesse del “principale”.

Così facendo, l'agente corrotto finisce col porsi “al servizio di due padroni” (il “principale” ed il corruttore), ingenerando dunque una situazione di conflitto di interessi, nonché integrando un'ipotesi di corruzione inter privatos ( 5 ).

E' dunque chiaro che la riforma dei reati societari del 2002 non ha esaurito l'argomento 'corruzione privata', avendo rappresentato semmai un punto di partenza nella trattazione della materia,

e che la necessità di un nuovo intervento legislativo riformatore, teso a colmare le lacune di disciplina ed a risolvere i problemi lasciati aperti, si è palesata sin da subito.

2. La mancata attuazione della delega governativa prevista dall'art.

29 della legge n. 34/2008.

Un primo passo del legislatore nella giusta direzione, sarebbe stato rappresentato dalla legge 25 febbraio 2008, n. 34 (cosiddetta Legge comunitaria 2007).

Il condizionale è d'obbligo dal momento che il governo non ha mai dato attuazione alla delega prevista dall'articolo 29 di tale legge, trasformando così di fatto i criteri ed i principi direttivi ivi contenuti in lettera morta.

La legge n. 34/2008 merita tuttavia di essere egualmente esaminata, poiché ha rappresentato un tratto significativo lungo il percorso seguito dal legislatore italiano, che ha portato all'introduzione della fattispecie generale di “corruzione tra privati” ad opera della legge n.

190/2012.

L'art. 29 della legge n. 34/2008 delegava il governo a dare attuazione alla decisione-quadro del 2003 (si noti bene: quando il termine per l'adeguamento a tale fonte comunitaria era già scaduto da tempo), mediante l'introduzione nel libro II, titolo VIII, capo II, del Codice penale, di una nuova fattispecie che incriminasse la condotta di “chi, nell'ambito di attività professionali, intenzionalmente solleciti o riceva, per sé stesso o per un terzo, direttamente o tramite un intermediario, un indebito vantaggio di qualsiasi natura, oppure accetti la promessa

(5) Commento di V. NAPOLEONI, “Art. 1, comma 76, L. 6/11/2012, n. 190 (corruzione tra privati)”, pag. 2.

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di tale vantaggio, nello svolgimento di funzioni direttive o lavorative non meramente esecutive per conto di una entità del settore privato, per compiere o omettere un atto, in violazione di un dovere, semprechè tale condotta comporti o possa comportare distorsioni di concorrenza riguardo all'acquisizione di beni o servizi commerciali”

(art. 29, lettera a).

La legge prevedeva la pena della reclusione anche per l'extraneus, ovvero colui che intenzionalmente, nell'ambito di attività professionali, direttamente o tramite un intermediario, dia, offra o prometta un indebito vantaggio di qualsiasi natura.

Si tratta in altre parole del corrispettivo, in ambito privato, di colui che offra o prometta denaro o altra utilità ad un pubblico ufficiale o ad un incaricato di pubblico servizio, che rivesta la qualità di pubblico impiegato, per indurlo a compiere, ad omettere od a ritardare un atto del suo ufficio, ovvero ad eseguire un atto contrario ai propri doveri;

reato, questo, previsto dalla fattispecie di “istigazione alla corruzione”.

La legge in esame mirava a colpire la sola corruzione propria antecedente, escludendo pertanto sia la rilevanza delle condotte che, sebbene siano viziate dalla presenza di un accordo corruttivo, si traducano nel compimento di un atto conforme ai doveri d'ufficio dell'intraneus,

sia la rilevanza delle ipotesi in cui la dazione dell'indebito vantaggio sia successiva al compimento dell'atto.

Delineava poi un reato proprio, in quanto prevedeva che l'agente corruttibile svolgesse “funzioni direttive o lavorative non meramente esecutive per conto di una entità del settore privato” (non era più sufficiente che svolgesse qualunque “funzione direttiva o lavorativa di qualsiasi tipo”, come veniva previsto dalla decisione-quadro del 2003).

Qualche problema di interferenza applicativa si era presentato con riferimento alla fattispecie di “infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità” introdotta nel 2002: infatti poteva ben darsi che un medesimo fatto fosse sussumibile sotto entrambe le fattispecie.

Tale problema è stato però prontamente risolto facendo ricorso al criterio di specialità tra le due norme: occorre infatti notare che, oltre ad una maggiore delimitazione soggettiva, l'art. 2635 C.c., ai fini della rilevanza penale, richiedeva che dalla condotta tipica discendesse un nocumento alla società,

mentre la disposizione ex art. 29 della Legge comunitaria 2007 faceva dipendere la punibilità del corrotto dal fatto che la sua condotta comportasse o potesse comportare distorsioni di concorrenza riguardo all'acquisizione di beni o servizi commerciali.

Tale ultimo requisito dimostra l'accoglimento da parte del legislatore italiano, della medesima impostazione della decisione-quadro del 2003, volta ad individuare il bene giuridico messo in pericolo dalle condotte corruttive in ambito privato, nella libera concorrenza di mercato.

La scelta del legislatore si è posta in sintonia anche con altri strumenti

sovranazionali (come le Convenzioni sottoscritte dall'Italia o alcuni

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rilievi effettuati dall'OCSE), i quali avevano già messo in luce alcuni degli effetti economici preoccupanti causati dalle condotte corruttive, ed invero avevano sottolineato come la corruzione presenti legami con la criminalità economica, minacci lo “sviluppo sostenibile”,

“colpisca tutte le società e tutte le economie”, possa “essere pregiudizievole per le istituzioni democratiche, le economie nazionali e lo stato di diritto”, ed “alteri le condizioni internazionali in materia di concorrenza”.

Da tutto ciò, è nata la presa di coscienza del fenomeno-corruzione come “una delle patologie più subdole e perniciose per lo sviluppo di un mercato sano e basato su di una concorrenza libera e leale” ( 6 ), che influenza in negativo la crescita economica, che produce inefficienze sul mercato e che scoraggia gli investimenti stranieri.

E soprattutto, che può essere efficacemente osteggiata solo facendo ricorso alla minaccia della sanzione penale ( 7 ).

Ebbene: come si è già anticipato, la Legge comunitaria 2007 di fatto è stata lasciata cadere dall'esecutivo, sebbene fosse in piena sintonia con lo spirito della decisione-quadro del 2003, che ancora necessitava di essere attuata.

Ma non è tutto: si è dovuto attendere sino al 2009 per ottenere la ratifica della Convenzione di Merida ( 8 ) (attraverso la legge 3 agosto 2009, n. 116), ed addirittura il 2012 per ratificare la Convenzione di Strasburgo ( 9 ) (con la legge 28 giugno 2012, n. 110), ma nessuna

(6) A. SPENA, “Punire la corruzione”, pag. 805.

(7) D. PERRONE, “L'introduzione nell'ordinamento italiano della fattispecie di corruzione privata: in attesa dell'attuazione della L. 25 febbraio 2008, n.

34”, in “Cassazione Penale” (2009), pag. 777-779.

(8) La Convenzione di Merida è stata adottata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite il 31 ottobre 2003;

lo scopo della convenzione è aumentare l’efficacia della lotta alla corruzione, promuovere la corretta gestione degli affari pubblici ed incoraggiare la cooperazione internazionale e l’assistenza tecnica.

Elenca in modo dettagliato le misure volte a prevenire la corruzione, compresa l’attuazione di politiche e pratiche di prevenzione, l’istituzione di enti per il raggiungimento di tale obiettivo, l’attuazione di codici di condotta per i funzionari pubblici e criteri obiettivi per l’assunzione e la promozione di dipendenti pubblici e per gli appalti pubblici. La convenzione promuove la trasparenza e la responsabilità nella gestione delle finanze pubbliche e nel settore privato, con parametri di contabilità e di verifica contabile più severi. Sono previste anche misure per prevenire il riciclaggio di denaro e misure per garantire l’indipendenza del potere giudiziario.

(9) La Convenzione penale di Strasburgo è stata adottata dal Consiglio d'Europa il 27 gennaio 1999;

ha lo scopo di coordinare la legislazione negli ordinamenti nazionali dei Paesi firmatari, nell'ottica di perseguire in modo più efficace i reati di corruzione. La Convenzione è aperta anche agli Stati non membri.

La sua applicazione viene controllata dal "Gruppo di Stati contro la Corruzione - GRECO", che ha iniziato le proprie attività il 1° maggio 1999.

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delle due leggi ha dato attuazione al tanto sospirato (quanto necessario) adeguamento sul versante della corruzione privata.

Nel frattempo l'Italia ha continuato ad essere destinataria di varie censure, da parte degli strumenti internazionali previsti per monitorare il livello di corruzione, pubblica e privata, presente nei vari Stati.

Basti citare, come esempio, il rapporto GRECO del marzo 2012, avente ad oggetto la conformità della legislazione italiana ai dettami della Convenzione di Strasburgo: ebbene, è risultato (ancora una volta) quanto la fattispecie di “infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità” fosse inadeguata a contrastare efficacemente il fenomeno della corruzione tra privati (presentando una serie di distonie rispetto ai paradigmi europei), e quanto fosse più che mai necessario un nuovo intervento legislativo in materia, teso ad introdurre una nuova ed autonoma norma incriminatrice, da collocare all'interno del Codice penale ( 10 ).

3. L'introduzione della legge 6 novembre 2012, n. 190, comunemente chiamata “legge anticorruzione”.

Nel mese di novembre 2012, dopo molti anni in cui le valutazioni negative sullo status quo normativo si erano susseguite, e le sollecitazioni dall'esterno a favore dell'adeguamento si erano fatte sempre più pressanti, finendo per mettere a nudo la pressoché totale incapacità dell'ordinamento italiano di condurre una efficace battaglia repressiva della corruzione privata, il legislatore nazionale ha finalmente deciso di adeguare (o perlomeno, ha tentato di farlo) la propria normativa interna ai criteri e ai doveri delineati dalle fonti comunitarie e sovranazionali.

In particolare ci si riferisce agli obblighi previsti dalla Convenzione di Merida del 2003, e dalla Convenzione penale di Strasburgo del 1999.

La portata della Convenzione è molto vasta poiché si occupa di vari argomenti tra cui: corruzione attiva e passiva di pubblici ufficiali nazionali e stranieri; corruzione attiva e passiva di parlamentari nazionali e stranieri e di membri di assemblee parlamentari internazionali;

corruzione attiva e passiva nel settore privato; corruzione attiva e passiva di funzionari internazionali; corruzione attiva e passiva di giudici nazionali, stranieri ed internazionali e di funzionari di tribunali internazionali;

traffico di influenze attivo e passivo; riciclaggio dei proventi della corruzione; reati contabili (fatture, falso in documenti contabili, ecc.) connessi con reati di corruzione.

Gli Stati devono prevedere sanzioni e misure efficaci e dissuasive, ivi compresa la privazione della libertà, fino all’estradizione. Le persone giuridiche saranno anch’esse penalmente responsabili per i reati commessi per avvantaggiarle e potranno essere loro inflitte efficaci sanzioni penali o civili, comprese delle sanzioni pecuniarie.

(10)Commento di V. NAPOLEONI, “Art. 1, comma 76, L. 6/11/2012, n. 190 (corruzione tra privati)”, pag. 7.

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Obblighi, appunto, che lo Stato italiano aveva liberamente assunto, ma ai quali non aveva ancora adempiuto, sebbene fosse consapevole del fatto che non si trattava di mere indicazioni o raccomandazioni, e che ne fosse vincolato ai sensi dell'art. 117, 1' comma, della Costituzione (“La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”) ( 11 ).

Ebbene: con la legge 6 novembre 2012 n. 190 (pubblicata in Gazzetta Ufficiale n. 265 del 13 novembre 2012), il Parlamento ha varato una normativa organica, volta ad assicurare una più efficace attività di prevenzione e di contrasto alla corruzione e all'illegalità nella Pubblica Amministrazione, intervenendo sia sugli strumenti del controllo amministrativo, sia su quelli del controllo penale.

Come si evince dal titolo stesso della legge, l'intento più manifesto del legislatore è dunque stato in primis quello di contrastare la corruzione all'interno della Pubblica Amministrazione (è in ossequio a tale spirito che sono stati introdotti, ad esempio, l'art. 319-quater C.p., e l'art.

346-bis C.p.), ed “in seconda battuta” anche quella che si manifesta nei rapporti inter privatos.

Eppure, pur non rappresentando l'obiettivo primario perseguito, la riscrittura dell'art. 2635 C.c. esprime un punto focale dell'intera legge:

in un'ottica di adeguamento ai paradigmi europei, la nuova configurazione dell'art. 2635 C.c. riprende (talora pedissequamente) alcune delle osservazioni critiche formulate dal GRECO, e corregge alcuni dei difetti che affliggevano la precedente formulazione, rendendo in questo modo più accettabile il contenuto normativo, sia da un punto di vista tecnico, sia da un punto di vista politico-criminale (sebbene, come si vedrà, la struttura portante della fattispecie incriminatrice non è stata alterata) (12).

Va detto che in Italia, la lotta alla corruzione si è sempre svolta principalmente sul piano della repressione penale, nel senso che il ruolo di protagonista è finora sempre stato affidato alla giurisdizione penale, nonché all'operato delle forze dell'ordine (mentre altri Paesi hanno puntato di più sulla prevenzione),

con la conseguenza che la prevenzione della corruzione, mediante gli strumenti tipici del diritto amministrativo, è sempre stata un po' sottovalutata.

La legge n. 190/2012 ha apportato modifiche su entrambi i fronti, anche se il numero di disposizioni dedicate alla prevenzione della corruttela mediante l'uso di strumenti amministrativi, è di gran lunga superiore rispetto al numero di disposizioni che intervengono invece sul piano della repressione penale, modificando ed integrando il codice penale (ma non solo quello) anche con nuove figure di reati.

(11) E. DOLCINI – F. VIGANO', “Sulla riforma in cantiere dei delitti di corruzione”, pag. 232, in www.penalecontemporaneo.it.

(12) A. SPENA, “La corruzione privata e la riforma dell'art. 2635 C.c.”, in “Rivista italiana di diritto e procedura penale” (2013), pag. 693.

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Tale scelta legislativa è pienamente condivisibile poiché, come è noto, lo strumento sanzionatorio penale deve costituire la risorsa di ultima istanza, quella a cui fare ricorso solo quando gli altri tipi di misure non appaiono sufficienti a reprimere l'illecito in questione.

In realtà, anche prima di questa legge esistevano nell'ordinamento dei riferimenti normativi dedicati alla prevenzione della corruzione:

basti pensare, ad esempio, alla legge n. 3/2003 che istituì l'Alto commissario per la prevenzione della corruzione (poi soppresso), o alla legge n. 150/2009 che attribuì alla Civit (acronimo di

“Commissione indipendente per la valutazione, l'integrità e la trasparenza”) diverse funzioni in materia; però si trattava di disposizioni episodiche, che non consentivano di individuare un corpo normativo previsto ad hoc per la lotta alla corruzione, come invece è possibile fare oggi, in seguito alla legge n.190/2012 ( 13 ) (non a caso, è chiamata comunemente anche “legge anticorruzione”).

Per tirare le fila del discorso: nonostante la nuova legge presenti diversi profili di criticità, non si può non apprezzare l'impegno del legislatore, che finalmente è intervenuto su una disciplina che sembrava refrattaria a qualsiasi intervento di riforma ( 14 ).

3.1. Le principali novità introdotte dalla legge anticorruzione, tra strumenti preventivi e strumenti repressivi.

Prima di proseguire nella trattazione, pare adesso opportuno ricordare le principali novità introdotte dalla legge in esame, tanto sul piano preventivo che su quello repressivo:

gli strumenti preventivi sono stati potenziati grazie alla previsione della “Autorità nazionale anticorruzione”, che viene precisamente individuata nella Commissione per la valutazione, la trasparenza e l'integrità delle amministrazioni pubbliche (cosiddetta Civit).

Essa, oltre ad approvare il Piano nazionale anticorruzione predisposto dal Dipartimento della funzione pubblica, è destinata a svolgere importanti funzioni: sia per l'analisi delle cause della corruzione, che per l'individuazione degli interventi a carattere preventivo auspicabili;

che per la formulazione di pareri aventi ad oggetto la conformità degli atti e dei comportamenti dei funzionari pubblici alle leggi, ai codici di comportamento e ai contratti di lavoro; che per la vigilanza ed il controllo sulla effettiva applicazione e sulla efficacia delle misure preventive adottate dalle singole amministrazioni pubbliche.

Le pubbliche amministrazioni centrali infatti devono, a loro volta, predisporre un piano di prevenzione al fine di diagnosticare il grado di

(13) M. CLARICH – B.G. MATTARELLA, “La prevenzione della corruzione”, in B.G. MATTARELLA – M. PELISSERO, “La legge anticorruzione:

prevenzione e repressione della corruzione”, pag. 59-61.

(14) M. PELISSERO, “La nuova disciplina della corruzione tra repressione e prevenzione”, in B.G. MATTARELLA – M. PELISSERO, “La legge

anticorruzione: prevenzione e repressione della corruzione”, pag. 350.

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esposizione al rischio-corruzione per ogni ufficio, nonché indicare gli interventi considerati necessari per prevenire il rischio medesimo.

E' inoltre previsto un responsabile della prevenzione della corruzione tra i dirigenti, col compito di provvedere all'adozione di misure preventive adeguate, e di vigilare sulla loro osservanza, pena la sua diretta responsabilità amministrativa, disciplinare ed erariale, qualora venga compiuto un reato di corruzione (accertato con sentenza passata in giudicato) all'interno della propria amministrazione.

E' infine prevista (ad opera del governo) la definizione di un codice di comportamento dei dipendenti pubblici, per prevenire il verificarsi dei fenomeni corruttivi, nonché per assicurare la qualità dei servizi, ed il rispetto dei doveri costituzionali di diligenza, lealtà ed imparzialità.

Qualche dubbio è stato espresso in ordine alla reale portata di tali innovazioni: al di là delle buone intenzioni del legislatore, in che misura potranno risultare efficaci nei fatti, e dunque arginare efficacemente la diffusione dei fenomeni corruttivi?

Si è fatto notare che, oltre ad una miriade di norme previste “sulla carta”, sarebbe necessario adottare modelli di organizzazione degli uffici amministrativi che siano realmente idonei, in concreto, a ridurne la esposizione alle pratiche corruttive ( 15 ).

Per quanto attiene al piano repressivo della corruzione, la legge n.

190/2012 ha introdotto rilevanti innovazioni riguardo al delitto di concussione, delineando la nuova figura di “induzione indebita a dare o promettere utilità”; ha ridefinito i delitti di corruzione; ha inserito nel Codice penale il nuovo reato di “traffico di influenze illecite”; ha previsto la “corruzione tra privati”; ha attuato un tendenziale inasprimento del regime sanzionatorio ( 16 ).

Ovviamente, sono gli aspetti penalistici quelli che ci interessano di più ai fini del presente lavoro, ed è su di essi che si concentreranno le valutazioni esposte in seguito.

4. La fattispecie generale di “corruzione tra privati”, prevista dal novellato art. 2635 del Codice civile.

La nuova normativa disciplinante il fenomeno della corruzione tra privati, introdotta con la legge n. 190/2012, ha provocato reazioni molto differenti in dottrina:

da alcuni commentatori è stata percepita come “la grande occasione mancata” dal legislatore, ovvero come l’occasione in cui avrebbe dovuto compiere un intervento ben più deciso, realmente repressivo nei confronti della corruzione privata, piuttosto che (come è stato

(15) G. FIANDACA – E. MUSCO, “Diritto penale. Parte speciale. Volume I. La recente riforma dei reati contro la pubblica amministrazione”, pag. 5-6.

(16) G. FIANDACA – E. MUSCO, “Diritto penale. Parte speciale. Volume I. La recente riforma dei reati contro la pubblica amministrazione”, pag. 6.

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fatto) un mero intervento di maquillage legislativo, consistente in una semplice rivisitazione di una norma già presente nell’ordinamento (ovvero l’art. 2635 C.c.).

Da altri è stata salutata invece con animo benevolo, poiché è pacifico che con essa il legislatore abbia voluto finalmente fornire una prima risposta alle sollecitazioni provenienti dagli strumenti sovranazionali, tentando in questo modo di adeguare la propria normativa interna a quella degli altri Paesi occidentali.

Qualunque sia lo stato d'animo che si intenda seguire, è innegabile che con tale intervento riformatore, il legislatore non si è allontanato molto dalla fattispecie previgente di “infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità”, precedentemente disciplinata all'art. 2635 del Codice civile, adesso novellato e rubricato “corruzione tra privati”.

Mettendo a confronto i due testi normativi infatti, si evince che le novità significative non sono cospicue, anche se alcune godono in realtà di grande importanza.

Più esattamente: le novità introdotte possono essere classificate in base a tre livelli di rilevanza.

Alcune sono assai importanti, si potrebbe dire fondamentali, visto che risolvono alcuni problemi tecnici o politico-criminali che erano originati dal vecchio testo (si pensi ad esempio all'innalzamento del minimo edittale, o all'aspetto della responsabilità degli enti);

altre sono sufficientemente rilevanti, poiché introducono elementi piuttosto significativi (si pensi ad esempio alla modificazione del novero dei soggetti attivi, o al mutamento del regime di procedibilità in caso di distorsione della concorrenza);

altre ancora, infine, si risolvono in una mera “innovazione cosmetica”, perché esplicitano elementi del testo già pacifici (si pensi ad esempio alla specificazione che l'utilità corruttiva può consistere in “denaro o altra utilità”: viene da chiedersi chi, in precedenza, abbia mai potuto dubitare di ciò) (17).

A difesa del legislatore del 2012 però (se così si può dire), nonostante la portata complessiva dell’intervento legislativo non sia affatto rivoluzionaria, occorre ammettere che la norma in esame, confezionata così com'è dal Parlamento di allora, rappresenta l'unico compromesso possibile tra le forze politiche in tema di interventi contro la corruzione, poiché esse sono da sempre oscillanti (con un certo grado di contraddizione) tra la volontà di reprimere le dilaganti condotte corruttive, ed il giustificazionismo nei confronti del pagamento di tangenti (18).

Dunque un risultato più deciso, sarebbe stato molto difficile (per non dire impossibile) da raggiungere.

(17) A. SPENA, “La corruzione privata e la riforma dell'art. 2635 C.c.”, in “Rivista italiana di diritto e procedura penale” (2013), pag. 697.

(18) M. PELISSERO, “La nuova disciplina della corruzione tra repressione e prevenzione”, in B.G. MATTARELLA – M. PELISSERO, “La legge

anticorruzione: prevenzione e repressione della corruzione”, pag. 352- 353.

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Con riguardo al nuovo art. 2635 C.c. dunque, nonostante le critiche che si possono sollevare (una fra tutte: sarebbe stata preferibile una anticipazione della tutela penale, anziché lasciare inalterata la struttura di reato d'evento, con la conseguenza di dover dimostrare il nesso causale tra la condotta dell'agente ed il nocumento alla società), e nonostante gli aspetti deficitari della norma (che, così strutturata, non contribuisce poi molto alla “moralizzazione” dell'etica degli affari) ( 19 ), va dato atto al governo Monti, ed in particolare al Guardasigilli Severino (che ha dato il proprio nome alla legge), di aver compiuto degli importanti passi avanti in materia.

Infatti, sebbene le difficoltà politiche fossero evidenti, la legge anticorruzione è stata comunque varata, e per quanto concerne il versante delle riforme penali (ed in particolare, quelle attinenti alla corruzione privata), deve essere valutata come un importante punto (non di approdo ma) di avvio ( 20 ).

E' vero senz'altro che l'art. 2635 C.c., nonostante la riforma, non contiene ancora una incriminazione diretta della corruzione privata in quanto tale. Ma questo non significa che dalla norma non derivi comunque, sebbene per vie traverse, una punibilità dei fatti di corruzione privata che avvengono in ambito societario.

E' infatti evidente che, già la stipula di un patto corruttivo, può rappresentare essa stessa un atto idoneo e diretto alla commissione di un delitto: come tale, già punibile dunque in forza del combinato disposto degli artt. 56 C.p .(21) e 2635 C.c. (a prescindere dal compimento dell'atto oggetto del mercimonio, e dal verificarsi del nocumento alla società). Pertanto, se i termini attuali del nuovo art.

2635 C.c. non gli impediscono di costituire un tentativo (punibile) di infedeltà da corruzione, non sarebbe corretto sostenere che nel nostro ordinamento la corruzione privata in quanto tale non viene incriminata. E' semmai corretto affermare che non viene incriminata per via diretta con una fattispecie ad hoc, ma che lo è per via indiretta ed accidentale, attraverso la generale applicabilità dell'art. 56 C.p..

Il reale vulnus della disciplina è invece rappresentato dalla previsione del regime di procedibilità a querela della persona offesa:

la decisione circa la perseguibilità è rimessa nelle mani della società- vittima, ben sapendo che le società non hanno alcun interesse a perseguire penalmente le infedeltà dei propri agenti (si pensi al

(19) M. PELISSERO, “La nuova disciplina della corruzione tra repressione e prevenzione”, in B.G. MATTARELLA – M. PELISSERO, “La legge

anticorruzione: prevenzione e repressione della corruzione”, pag. 350- 353.

(20) C.F. GROSSO, “Novità, omissioni e timidezze della legge anticorruzione in tema di modifiche al codice penale”, in B.G. MATTARELLA – M.

PELISSERO, “La legge anticorruzione: prevenzione e repressione della corruzione”, pag. 2.

(21) Delitto tentato: (1' comma) “chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l'azione non si compie o l'evento non si verifica ”.

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clamore mediatico che ne consegue, o alla lesione di immagine che questo può comportare), e che preferiscono semmai agire per via civilistica (il che porta a risultati più appetibili, come ad esempio il licenziamento per giusta causa ed il risarcimento del danno) (22).

Prima di procedere all'esame esegetico della nuova fattispecie, è opportuno riportarne il testo,

disciplinato dall'art. 1, comma 76, della legge 6 novembre 2012, n.

190, e rubricato “corruzione tra privati”.

L'articolo 2635 del Codice civile è stato sostituito dal seguente:

“Art. 2635. - (Corruzione tra privati). - Salvo che il fatto costituisca più grave reato, gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori, che, a seguito della dazione o della promessa di denaro o altra utilità, per sé o per altri, compiono od omettono atti, in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio o degli obblighi di fedeltà, cagionando nocumento alla società, sono puniti con la reclusione da uno a tre anni.

Si applica la pena della reclusione fino a un anno e sei mesi se il fatto è commesso da chi è sottoposto alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti indicati al primo comma.

Chi dà o promette denaro o altra utilità alle persone indicate nel primo e nel secondo comma è punito con le pene ivi previste.

Le pene stabilite nei commi precedenti sono raddoppiate se si tratta di società con titoli quotati in mercati regolamentati italiani o di altri Stati dell'Unione europea o diffusi tra il pubblico in misura rilevante ai sensi dell'articolo 116 del testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e successive modificazioni.

Si procede a querela della persona offesa, salvo che dal fatto derivi una distorsione della concorrenza nella acquisizione di beni o servizi”.

Volendo partire da uno sguardo d'insieme, si può notare che la riforma ha apportato modifiche sia di tipo formale che di tipo sostanziale.

Queste ultime sono a loro volta distinguibili tra quelle che incidono prevalentemente sul disvalore e sull'assetto di tutela, e quelle che invece svolgono una funzione di “razionalizzazione”, ossia servono a raccordare la nuova norma con gli altri reati presenti nell'ordinamento ( 23 ).

4.1. Analisi delle modifiche formali.

(22) A. SPENA, “La corruzione privata e la riforma dell'art. 2635 C.c.”, in “Rivista italiana di diritto e procedura penale” (2013), pag. 698-699.

(23) R. BARTOLI, “Corruzione tra privati”, in B.G. MATTARELLA – M.

PELISSERO, “La legge anticorruzione: prevenzione e repressione della corruzione”, pag. 439-440.

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La prima modifica formale che balza all'occhio, è indubbiamente la sostituzione del nomen iuris:

la rubrica non parla più di “infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità”, ma di “corruzione tra privati”.

E' come se il legislatore, così facendo, avesse voluto prendere le distanze dalla fattispecie di “infedeltà patrimoniale” (art. 2634 C.c.), e avesse inteso sottolineare che la corruzione privata è un'altra cosa.

Infatti: sebbene la modifica della rubrica non abbia nessuna valenza sul piano giuridico-interpretativo, gioca al contrario un ruolo molto importante su quello politico-criminale, sia perché allontana il nuovo art. 2635 C.c. dalla fattispecie che lo precede, sia perché lancia il messaggio di voler incentrare il disvalore del fatto sul patto corruttivo (e non sulla mera gestione infedele) ( 24 ).

“E' chiaro, però, che non basta cambiar nome alle cose per mutarne la sostanza” ( 25 ): sebbene il nomen iuris “corruzione” lascerebbe pensare ad un arretramento della linea di consumazione dell'illecito verso il semplice patto corruttivo (mentre il comportamento

“infedele”, è necessariamente susseguente alla elargizione di un indebito vantaggio), e sebbene la specificazione “tra privati” (anziché

“societaria”) sembrerebbe fare riferimento a tutti i multiformi rapporti che si possono verificare in ambito privatistico,

in realtà la portata innovativa della norma è meno rivoluzionaria di quanto ci si aspetti.

Il legislatore infatti non ha voluto mutare la struttura dell'illecito, che dunque rimane (come era prima della riforma) un reato societario di danno.

La nuova rubrica, probabilmente, è stata prevista in ossequio alla terminologia europea; e a ben vedere tale scelta è perfettamente in linea con la ratio primaria della legge n.190/2012: ovvero accogliere, nella legislazione nazionale, le indicazioni provenienti dal fronte comunitario.

Per quanto riguarda l'oggetto del pactum sceleris, la novella aggiunge il termine “denaro” al sostantivo “utilità”, ma la modifica non è poi così rilevante, poiché è opinione condivisa che esso fosse già ricompreso nel più ampio concetto di utilità.

Molto probabilmente, il legislatore ha semplicemente voluto allineare il lessico normativo della presente fattispecie, con quello dell'art. 319 C.p..

Per la verità, qualcuno in dottrina si è domandato se tale specificazione volesse significare che, ai sensi dell'art. 2635 C.c., rilevano soltanto i vantaggi aventi natura patrimoniale.

(24) R. BARTOLI, “Corruzione tra privati”, in B.G. MATTARELLA – M.

PELISSERO, “La legge anticorruzione: prevenzione e repressione della corruzione”, pag. 441.

(25) V. NAPOLEONI, “Art. 1, comma 76, L. 6.11.2012, n. 190 (corruzione tra privati)”, pag. 7.

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La corrente maggioritaria però ritiene che non sia così, e che dunque rilevi anche la dazione o la promessa di un vantaggio privo di immediato significato economico (si pensi alla attribuzione di una posizione di prestigio, al conferimento di un'onorificenza, alle prestazioni sessuali etc.).

Una particolarità (rispetto agli strumenti internazionali) è infine costituita dal fatto che la norma italiana, non qualifica espressamente come “indebito” il vantaggio.

Tuttavia tale connotazione può essere data per scontata dal momento che il denaro o l'altra utilità, vengono corrisposti per la violazione di un dovere da parte dell'intraneus ( 26 ).

Altra modifica formale che ha scarsa rilevanza, è la specificazione che l'utilità deve essere a vantaggio del corrotto o di terzi estranei al patto (“per sé o per altri”);

era così anche prima, ma il legislatore ha voluto fare questa precisazione, essenzialmente per sgombrare il campo da un dubbio interpretativo che si era posto: ci si chiedeva infatti, se il vantaggio a beneficio del terzo dovesse presupporre, sempre e comunque, anche un vantaggio per il corrotto. In base alla nuova formulazione, si comprende chiaramente che tale legame non è richiesto ( 27 ).

Infine, il riferimento alle “successive modificazioni” previsto al penultimo comma, costituisce un'ulteriore modifica formale, da considerare come un rinvio di tipo recettizio.

4.2 Il bene giuridico protetto dalla norma. Analisi delle modifiche sostanziali, ed esame esegetico della norma.

4.2.1. Il bene giuridico protetto.

Il bene giuridico primario tutelato dalla norma era e resta il patrimonio sociale.

Anche se il legislatore parla di “nocumento” (anzi che di “danno patrimoniale”) e di violazione degli “obblighi di fedeltà”, non si tratta di elementi sufficienti ad affermare che la norma miri a tutelare il rapporto di fiducia che lega il corrotto all'ente.

Pertanto, anche se questa tesi è stata avallata da una recente pronuncia della Corte di Cassazione ( 28 ), non è condivisibile: sia per

(26) V. NAPOLEONI, “Art. 1, comma 76, L. 6.11.2012, n. 190 (corruzione tra privati)”, pag. 13.

(27) R. BARTOLI, “Corruzione tra privati”, in B.G. MATTARELLA – M.

PELISSERO, “La legge anticorruzione: prevenzione e repressione della corruzione”, pag. 441.

(28) Il riferimento è alla sentenza della Corte di Cassazione, sez. V, n. 5848 del novembre 2012, secondo cui: il riferimento alla violazione degli “obblighi di fedeltà”, avvalorerebbe la convinzione che il legislatore

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le considerazioni fatte quando si è parlato del significato da attribuire a “nocumento”, sia perché i concetti di “fedeltà” o di “lealtà” sono troppo astratti ed indeterminati per poter costituire il bene giuridico tutelato dalla norma.

In definitiva: il dovere di fedeltà (ed il correlato rapporto fiduciario) non può esprimere l'interesse protetto, ma rappresenta, nella sua accezione negativa (ovvero: l'infedeltà prezzolata) solo la modalità di lesione del bene, rilevante sul piano del disvalore della condotta.

Appurato dunque che il bene protetto è il patrimonio della società, ne consegue che la tutela ha carattere interno e natura privatistica ( 29 ), e dunque, disponibile.

Il naturale corollario di tutto questo, è l'esclusione della punibilità del corrotto qualora sia stato autorizzato dalla società a percepire l'indebito compenso.

In altri termini: mentre il dovere di fedeltà da parte dei funzionari pubblici costituisce un principio indisponibile, che non può essere derogato in alcun modo, al contrario, il dovere di fedeltà dei dirigenti e dei dipendenti di un'impresa privata, è posto esclusivamente nei confronti del datore di lavoro, il quale può autorizzare il compenso, escludendo per esso ogni rilevanza penale ( 30 ).

Per questa ragione, si ritiene che nei confronti del corrotto operi la scriminante del consenso dell'avente diritto, e ancora prima, venga meno il carattere antidoveroso o infedele del suo comportamento.

Ancora una volta dunque, la scelta del legislatore non è stata conforme alle direttrici sovranazionali.

4.2.2. I soggetti attivi.

Passando adesso all'analisi delle modifiche sostanziali, è indubbio che l'innovazione di maggior rilievo sia quella concernente il novero dei possibili soggetti attivi, ampliato rispetto alla vecchia fattispecie ex 2635 C.c. (anche tale ampliamento è stato dettato dall'esigenza di allineamento con le indicazioni sovranazionali).

Prima di esporla, è però opportuno partire da alcune considerazioni introduttive:

la struttura dell'illecito continua ad essere quella di reato a concorso necessario: ai fini della sua realizzazione, è pertanto indispensabile che vi sia cooperazione tra corruttore e corrotto, ed è importante sottolineare che la condotta del primo, contribuisce ad integrare il fatto tipico previsto dall'art. 2635 C.c., senza dare vita ad una

abbia accolto “una concezione (quanto meno, anche) lealistica della ratio dell'incriminazione”, in linea con un approccio di matrice francese.

(29) Del resto, la natura privatistica della tutela era già emersa parlando del regime di procedibilità, quando si è visto che la distorsione della

concorrenza si limita ad aggiungere una colorazione pubblicistica al fatto, ma non ne sostituisce l'oggetto giuridico tutelato, che è e resta

l'integrità del patrimonio sociale.

(30) S. SEMINARA, “Gli interessi tutelati nei reati di corruzione”.

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autonoma figura di reato (lo si desume dal tenore letterale del 3' comma, che si limita ad estendere le pene previste per il corrotto anche al corruttore, senza operare nessun particolare distinguo tra i due protagonisti, nonché dalla previsione dello stesso trattamento sanzionatorio).

Tale peculiarità discosta la norma nazionale dai dettami europei ( 31 ), che al contrario, tengono distinte le condotte dei due soggetti della vicenda corruttiva, configurandole come fattispecie autonome:

ovvero “corruzione attiva” e “corruzione passiva”.

Altro tratto differenziale che caratterizza la normativa italiana, è che le fonti sovranazionali applicano le suddette fattispecie anche agli atti prodromici all'accordo vero e proprio (il che implica che si possa avere corruzione attiva senza una corrispondente corruzione passiva, e viceversa), mentre tutte le fattispecie di corruzione previste dall'ordinamento italiano (compresa quella privata dunque), postulano che si realizzi il perfezionamento dell'accordo.

Osservando il novero dei possibili soggetti corrotti, si evince che il delitto ha necessariamente la natura di reato proprio;

ma anche questo aspetto, a bene vedere, non costituisce una novità rispetto alla precedente formulazione dell'art.2635 C.c..

Ciò che incarna la vera innovazione, si evince dal 2' comma, il quale estende l'incriminazione ai fatti commessi “da chi è sottoposto alla direzione o alla vigilanza” di uno dei soggetti apicali indicati al 1' comma (ovvero ai sottoposti di: amministratori, direttori generali, dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, sindaci e liquidatori).

Ormai da diverso tempo, la precedente previsione era al centro di svariate critiche, dovute al fatto che contemplava una cerchia di soggetti attivi davvero troppo ristretta.

Sebbene fosse in linea con lo standard tradizionale dei reati societari, di fatto escludeva dall'ambito di applicazione della norma molte figure che, in ragione del ruolo lavorativo svolto, sono assai suscettibili di trovarsi coinvolte in vicende corruttive: si pensi ad esempio alla categoria dei quadri intermedi come direttori finanziari, amministrativi, del personale, preposti all'ufficio acquisti etc. Può ben darsi che a tali soggetti venga offerta una tangente, ed anzi, è forse più probabile che venga offerta loro, piuttosto che a soggetti che ricoprono ruoli apicali.

A questo riguardo, in dottrina sono state individuate due differenti chiavi di lettura della corruzione privata;

la prima individua la “corruzione del concorrente”: essa tende a coinvolgere i vertici dell'impresa, comporta un esercizio disfunzionale del potere da parte dell'agente corrotto e, di regola, proprio perché l'iniziativa corruttiva proviene da un'impresa concorrente, è destinata

(31) Il riferimento è alla Convenzione di Strasburgo, alla Convenzione di Merida e alla decisione-quadro del 2003.

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a produrre pregiudizi di diverso genere a danno dell'impresa in cui il corrotto opera.

La seconda è individuata nella “corruzione del fornitore”: pur essendo anch'essa finalizzata ad un esercizio disfunzionale del potere da parte dell'agente corrotto, si colloca a livello medio-basso nell'impresa e, soprattutto, se non è detto che produca pregiudizi all'impresa in cui opera l'agente corrotto, è invece sicuro che comprometta gli interessi esterni a tale impresa, ovvero quelli delle imprese concorrenti (che si ritrovano ad essere “vittime” inermi del patto corruttivo), e quelli dei consumatori, che sono i destinatari finali del prodotto o del servizio.

In altre parole: la corruzione del concorrente tende ad offendere gli interessi interni all'impresa (e più precisamente: sia il patrimonio, sia il buon funzionamento della stessa), mentre la corruzione del fornitore tende a compromettere gli interessi esterni dei terzi (ovvero la concorrenza leale, e le aspettative dei consumatori).

Ebbene: quest'ultimo fenomeno è, secondo la tesi in esame, il più diffuso ed anche il più pericoloso poiché, a differenza di quanto accade per la corruzione del concorrente, rispetto alla corruzione del fornitore l'impresa non solo può tollerare il fenomeno, ma può anche incoraggiarlo con una consapevole politica d'impresa, qualora si renda conto che la corruzione può arrecarle un vantaggio. Al contrario, le imprese concorrenti ed i consumatori sono destinati a subirne gli effetti pregiudizievoli.

Si pensi ad esempio ad una gara d'appalto, in cui la corruzione favorisce un'impresa che offre un prodotto o un servizio “intermedio”, ad un costo maggiore o di qualità minore, rispetto a quello offerto da un'altra impresa. L'impresa corrotta di certo tollererà la corruzione, perché ad esempio considera l'indebita percezione di utilità da parte dell'agente una sorta di integrazione della sua retribuzione. Inoltre, non è detto che il fenomeno corruttivo comprometta gli interessi del datore, visto che il maggior costo del prodotto o del servizio

“intermedio” può essere caricato sul prezzo finale del prodotto o del servizio. E ancora, la scarsa qualità di questi ultimi può non avere ricadute negative sulla loro vendita (si pensi ad esempio alla presenza di un regime di monopolio, o alla prestazione di un servizio essenziale). Al contrario, tutti questi effetti negativi, non potranno che ricadere sulle imprese concorrenti e sui consumatori: le prime saranno penalizzate nonostante offrano prodotti o servizi a minor costo e/o di migliore qualità, mentre i secondi acquisteranno prodotti ad un costo maggiore o di qualità minore.

Estendendo l'incriminazione ai “sottoposti”, il legislatore ha dunque voluto tentare di porre un argine al fenomeno della corruzione del fornitore.

Tale scelta era da tempo sollecitata anche dagli strumenti

internazionali (uno fra tutti: il GRECO), i quali delineano fattispecie di

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ampia comprensività, riferibili a qualunque persona che, “a qualsiasi titolo, diriga un'entità del settore privato o lavori per essa” ( 32 ).

Rispetto a tali standard, appare ancora meglio quanto la precedente previsione dei possibili soggetti attivi, necessitasse di essere novellata, sebbene la novella non abbia accolto totalmente i precetti sovranazionali.

Infatti, se è pacifico che con soggetti sottoposti “alla direzione o alla vigilanza” si intendono:

sia ciascun soggetto formalmente inserito nell'organizzazione della società in veste di lavoratore subordinato, quali che siano il proprio grado e mansione (pertanto, anche i dipendenti investiti di compiti meramente esecutivi);

sia i soggetti esterni all'ente, cui siano affidati incarichi, anche relativi a singoli progetti o affari, destinati ad essere svolti, per legge o per contratto, sotto la direzione o il controllo dei vertici aziendali (ivi compresi i lavoratori parasubordinati, che hanno con l'impresa rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, pur essendo privi di un vincolo di subordinazione alla stessa);

in dottrina si discute se rientrino nell'ambito di applicazione del 2' comma, anche quei soggetti di per sé indipendenti e dotati di autonomia operativa (si pensi ad esempio agli agenti, ai concessionari alla vendita e ai franchisees),

mentre è pressoché certo che non vi rientrino (sebbene le fonti nazionali lo richiedessero) i professionisti esterni alla società, stante la marcata autonomia operativa che li contraddistingue (si pensi ad esempio all'avvocato di un'impresa).

La norma prevede un trattamento sanzionatorio più afflittivo per i soggetti contemplati dal 1' comma, rispetto a quello previsto per i soggetti sottoposti ad essi.

La ratio del legislatore è stata quella di mettere in luce il diverso grado di disvalore delle rispettive condotte (maggiore in quelle dei soggetti apicali), correlato all'intensità del vincolo di fedeltà che lega l'agente alla società, proprio in ragione della funzione ricoperta.

Tale scelta ha tuttavia sollevato qualche perplessità perché tutela in via principale gli interessi interni alla società, a discapito degli interessi esterni.

E' ovvio comunque che, qualora i sottoposti collaborassero al fatto di corruzione ascrivibile ai vertici societari, risponderebbero a titolo di concorso con questi ultimi, e di conseguenza, la pena loro applicabile sarebbe quella prevista dal 1' comma.

Per quanto attiene alla figura del corruttore, l'illecito continua ad avere la natura di reato comune, poiché non è richiesta alcuna qualifica particolare.

Dunque potrebbe trattarsi anche di un soggetto che opera all'interno della medesima impresa (si pensi ad esempio all'amministratore che

(32) Si vedano: art. 2.1 della decisione-quadro 2003/568/GAI; artt. 7-8 della Convenzione di Strasburgo; art. 21 della Convenzione di Merida.

(19)

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offra una tangente al collegio sindacale, per coprire la propria cattiva gestione; o al dipendente che paghi il superiore, affinché non tenga conto delle proprie malefatte).

Il regime sanzionatorio previsto per il corruttore è il medesimo che viene previsto per il corrotto (3' comma); pertanto è correlato alla qualifica soggettiva di quest'ultimo.

Anche tale scelta è stata criticata da alcuni esegeti, sostenendo che sia utile a tutelare la libera e leale concorrenza, ma che non sia giusta in un'ottica di tutela del patrimonio sociale, dal momento che solo il corrotto è gravato da un obbligo di fedeltà nei confronti dell'impresa.

Anche se la norma non fa riferimento ai fatti commessi tramite un intermediario (come invece le fonti internazionali avrebbero richiesto), l'ipotesi è comunque punibile facendo ricorso all'istituto del concorso di persone nel reato.

Il grande vulnus della norma (che ha discostato l'art. 2635 C.c.

novellato dai dettami europei) è semmai rappresentato dalla permanenza della natura societaria del reato.

Esso è rimasto collocato all'interno del Titolo IX del Libro V del Codice civile, e ciò lascia dedurre che si riferisca ai soli soggetti che operano nell'ambito di società commerciali (e più precisamente: nell'ambito delle società commerciali soggette a registrazione, ai sensi dell'art.

2200 C.c.), escludendo pertanto sia le imprese individuali, sia le società semplici, sia le fondazioni, sia le associazioni (riconosciute e non).

La decisione-quadro del 2003 però aveva fatto un generico riferimento alle condotte realizzate “nell'ambito di attività professionali” (art. 2.1), a prescindere che l'organismo per cui sono svolte abbia o meno scopo di lucro (art. 2.2.), dimostrando così di non tenere conto della strutturazione societaria dell'organizzazione per cui opera il corrotto, né del fine lucrativo della stessa ( 33 ).

4.2.3. L'elemento oggettivo.

Con riguardo alla modificazione dell'elemento oggettivo della norma, l'impegno del legislatore italiano è stato davvero deludente rispetto alle aspettative. Sia la decisione-quadro del 2003, sia le Convenzioni di Strasburgo e di Merida infatti, prevedono fattispecie incriminatrici di mera condotta: esse vengono integrate sia a prescindere dall'effettivo compimento dell'atto contrario ai doveri da parte del corrotto, sia a prescindere dalla conclusione dell'accordo corruttivo tra gli interessati.

In altre parole: si ha corruzione, rispettivamente attiva e passiva, anche quando la condotta si limita alla semplice offerta del vantaggio, o alla sollecitazione della stessa.

(33) V. NAPOLEONI, “Art. 1, comma 76, L. 6.11.2012, n. 190 (corruzione tra privati)”, pag. 8 e ss.

(20)

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Ebbene: leggendo l'art. 2635 C.c. ci si rende conto che il legislatore italiano non ha minimamente recepito tale paradigma, richiedendo, ai fini dell'integrazione del reato, che si verifichi un nocumento per la società.

Più precisamente, il fatto si articola in tre distinti momenti, collegati tra loro da un nesso di causalità psicologica (come si evince anche dall'uso della formula “a seguito”):

– la dazione o la promessa di denaro o altra utilità da parte dell'extraneus corruttore,

– in cambio del compimento di una condotta antidoverosa da parte del corrotto intraneus,

– la quale determina un nocumento alla società.

Come si evince, il legislatore ha scelto di non alterare la natura dell'illecito, che resta dunque (come prima della riforma) un reato di evento a struttura complessa.

A ben vedere, sembra il frutto dell'ibridazione tra lo schema della corruzione propria antecedente (art. 319 C.p.), e lo schema dell'infedeltà patrimoniale (art. 2634 C.c.), dei quali riporta alcuni tratti caratterizzanti.

Il riferimento alla prima fattispecie, è ravvisabile ad esempio nel momento iniziale dell'iter criminis:

la dazione o la promessa devono infatti precedere il comportamento dell'intraneus, ed essere finalizzate proprio a quello.

Di conseguenza, l'art. 2635 C.c. non considera né l'ipotesi in cui la dazione o la promessa sia successiva al comportamento infedele (corruzione propria susseguente), né quella in cui la dazione o la promessa sia antecedente, ma sia finalizzata al compimento di un atto conforme ai doveri del corrotto (corruzione impropria).

Inoltre, vengono considerate le sole ipotesi della dazione o della promessa di utilità, ma non quelle della mera offerta o della sollecitazione della stessa (senza che faccia seguito il perfezionamento del patto corruttivo).

La condotta del corrotto consiste nella ricezione della utilità o nell'accettazione della sua promessa, dando così vita al pactum

sceleris (per questa ragione, poiché alla base del patto vi è un accordo

sinallagmatico, la fattispecie in esame è ascrivibile ai cosiddetti reati- contratto).

Come si è già anticipato, alla pattuizione deve fare seguito l'effettivo compimento o l'effettiva omissione dell'atto da parte dell'intraneus, in violazione degli obblighi inerenti al proprio ufficio e agli obblighi di fedeltà.

E' rilevante qualsiasi manifestazione della funzione ricoperta: dall'atto di disposizione patrimoniale (il solo rilevante ai sensi dell'art. 2634 C.c.), a quello avente natura meramente organizzativa;

dall'espressione di un parere, al ritardo nel compimento di un atto

dovuto; dalla manifestazione di voto (in vista della formazione di una

delibera collegiale), alla mancata partecipazione ad una gara

d'appalto, etc. (la gamma è vastissima).

(21)

106

Si è discusso a lungo (già con riferimento all'art. 2635 C.c. previgente) sul concetto da attribuire a “violazione degli obblighi inerenti all'ufficio”.

Si era delineata una prima opinione restrittiva, secondo cui tali doveri erano soltanto quelli ricavabili dai precetti civilistici;

ma secondo l'opinione maggioritaria, essi andavano ravvisati in tutti gli obblighi facenti capo al soggetto corrotto, dunque non solo quelli previsti dalla legge, ma anche quelli derivanti da fonti negoziali quali lo statuto sociale, gli impegni contrattuali, le delibere assembleari etc., e persino quelli esterni alle dinamiche sociali, come ad esempio le norme tributarie, previdenziali ed ambientali.

E a ben vedere, tale opinione maggioritaria pare oggi confermata dallo stesso 2' comma della norma, che estende la tutela anche ai fatti realizzati dai sottoposti.

Non si è invece compresa bene qual è stata la ratio che ha spinto il legislatore a menzionare gli “obblighi di fedeltà”, visto che ciò non era richiesto né dalle fonti sovranazionali, né dalla dottrina.

Ebbene: si è ipotizzato che, con tale previsione, abbia voluto dilatare il perimetro applicativo della fattispecie, sottolineando che, oltre ai doveri derivanti da norme giuridiche o contrattuali, i soggetti apicali ed i sottoposti hanno anche il dovere di lealtà e correttezza nell'esercizio del proprio ufficio privato.

Tuttavia la previsione è stata giudicata in termini negativi, poiché è ritenuta eccessivamente generica e indeterminata.

Rischia inoltre di trasformarsi in una mera ridondanza, nel senso che:

se per essere sufficientemente determinati, i doveri di fedeltà devono essere previsti a livello normativo o contrattuale (in altre parole:

devono essere positivizzati per non restare troppo vaghi), ciò finisce per farli confluire nella categoria degli “obblighi inerenti all'ufficio”

(34).

In realtà, con un'analisi un poco più attenta, ci si accorge che l'espressione “violazione degli obblighi di fedeltà” avrebbe un riferimento normativo piuttosto preciso: ovvero l'obbligo di fedeltà di cui all'art. 2105 C.c., che grava sul lavoratore subordinato (agente) nei confronti del proprio datore di lavoro. Il problema, semmai, è che già in ambito civilistico non è affatto pacifico quale sia la reale estensione di tale obbligo. Infatti: è vero che la norma elenca una serie precisa di divieti in capo al lavoratore subordinato (si pensi ad esempio a quello di “trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l'imprenditore”, o a quello di “divulgare notizie attinenti all'organizzazione e ai metodi di produzione dell'impresa”), tutti tesi a tutelare la lecita concorrenza (intesa in chiave civilistica: ovvero come interesse dell'imprenditore alla competitività della propria impresa), ma l'atteggiamento della giurisprudenza tende ad eccedere i limiti della norma stessa.

(34) V. NAPOLEONI, “Art. 1, comma 76, L. 6.11.2012, n. 190 (corruzione tra privati)”, pag. 8 e ss.

(22)

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La giurisprudenza tende infatti ad estendere il contenuto dell'obbligo di fedeltà del lavoratore oltre i casi di leale concorrenza previsti dall'art. 2105 C.c., fino a ricomprendervi ogni caso in cui il lavoratore tenga un comportamento in conflitto con le finalità e gli interessi dell'impresa, o che comunque sia tale da incrinare il rapporto di fiducia con il “principale”.

Con tale atteggiamento, rapportato all'art. 2635 C.c., si finisce però per radicare il disvalore nel fatto che l'agente, in forza della corruzione, accetti di agire senza avere l'interesse del 'principale' come guida della propria condotta, correndo così il rischio di cadere in una sorta di “spiritualizzazione” della fedeltà richiesta all'agente, ed allontanandosi dai principi di oggettività ed offensività del reato, che invece devono caratterizzare ogni fattispecie incriminatrice.

Ciò spiega perché, la dottrina giuslavoristica prevalente, ritiene che i contenuti dell'obbligo di fedeltà siano da ravvisare esclusivamente nell'art. 2105 C.c.: il rapporto di lavoro avrebbe dunque un carattere contrattuale, e richiederebbe il solo adempimento delle prestazioni contrattuali implicite nel rapporto, e non di certo una fedeltà in senso affettivo.

A questo punto, occorre solo segnalare che: “quanto in tal modo si guadagna in termini di offensività del reato e tassatività della fattispecie incriminatrice, si perde invece in termini di carica di innovazione imputabile all'introduzione dell'elemento normativo in questione. E' infatti evidente che l'obbligo di fedeltà di cui all'art.

2105 C.c. rientra senz'altro nel novero di quegli obblighi inerenti all'ufficio dell'agente” (35).

Sebbene dunque, a giudizio di molti commentatori, tale innovazione non avrà certamente un impatto pratico significativo, è innegabile che essa sia densa di valore simbolico: indica infatti l’apertura dell'ordinamento giuridico italiano, non più rivolto esclusivamente al modello patrimonialistico, ma adesso anche agli altri tre rilevanti.

In sintesi si potrebbe dire che: più che ad innovare i contenuti della fattispecie, tale nuova previsione mira a metterne in risalto un profilo che già era implicito nella vecchia formulazione (36).

Un altro aspetto che ha disilluso le speranze di quanti auspicavano un pieno allineamento con le previsioni sovranazionali, è quello concernente l'elemento del “nocumento alla società”.

La novella infatti non ha eliminato questo requisito, lasciando così inalterata la natura di reato di danno.

E' evidente che il legislatore nazionale non si è accontentato della condotta prezzolata antidoverosa da parte del corrotto, ma ha richiesto il verificarsi di un evento dannoso ulteriore.

Il nocumento deve colpire la società in cui opera il corrotto;

(35) A. SPENA, “La corruzione privata e la riforma dell'art. 2635 C.c.”, in “Rivista italiana di diritto e procedura penale” (2013), pag. 708.

(36) A. SPENA, “La corruzione privata e la riforma dell'art. 2635 C.c.”, in “Rivista italiana di diritto e procedura penale” (2013), pag. 705-709.

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