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Riflessioni sparse sui rapporti tra bancarotta ed omesso versamento dell’impresa in crisi

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Academic year: 2021

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Riflessioni sparse sui rapporti tra bancarotta ed omesso versamento dell’impresa in crisi.

di Mattia Miglio

1. La vicenda qui in esame può essere così sinteticamente riassunta: a valle del fallimento della propria impresa individuale, all’odierno imputato venivano rimproverate diverse violazioni della normativa penal-fallimentare, tra cui spiccava sicuramente la contestazione di bancarotta per dissipazione per aver omesso di versare nel corso degli anni contributi previdenziali per un importo intorno ai 1.900.000 di Euro.

Già prima facie, incuriosisce non poco la scelta di inquadrare in tale istituto il sistematico omesso versamento commesso da un’impresa dichiarata fallita.

La spiegazione è tuttavia presto detta; la vicenda qui esame vedeva coinvolta un’impresa individuale e, pertanto, la Pubblica Accusa non poteva (tale passaggio è illustrato in sede di ricostruzione dei fatti) far ricadere il sistematico omesso versamento all’interno della fattispecie di bancarotta impropria per causazione del fallimento con operazioni dolose.

Infatti, tale ipotesi delittuosa – solitamente contestata nei confronti dei Legali Rappresentanti delle Società insolventi – contempla tra i propri soggetti attivi, solamente gli amministratori, i direttori generali, i sindaci e i liquidatori di Società dichiarate fallite, e non poteva certo essere estesa agli imprenditori individuali in crisi, salvo incappare in un'ipotesi (malaugurata e vietata) di analogia in malam partem, espressamente vietata dall’ordinamento penale.

Ciò premesso, scorrendo le motivazioni della pronuncia, la Suprema Corte esclude che tale condotta possa integrare il delitto di bancarotta per dissipazione.

Quest’ultima fattispecie, precisa la Cassazione, “si configura in presenza di operazioni incoerenti con le esigenze dell'impresa, che ne riducono il patrimonio”1

; al contrario, la condotta contestata, “pur potendo espressamente essere qualificata come un'operazione, o per meglio dire una serie di operazioni, incoerenti con il legittimo esercizio dell'attività di impresa, non incide direttamente sulla consistenza patrimoniale dell'impresa stessa, viceversa esponendo quest'ultima all'eventuale insorgenza di un obbligo sanzionatorio nei confronti dell'erario”2.

Tutt’al più, tale ipotesi potrebbe – astrattamente e in presenza di certe condizioni fattuali – integrare il delitto di bancarotta per distrazione: “a diverse conclusioni potrebbe giungersi laddove la condotta addebitata fosse delineata nella spendita ad

1 Cfr. p. 6.

2 Cfr. p. 6.

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altri fini di risorse destinate al pagamento dei contributi, o la cui uscita sia comunque contabilmente giustificata in questi termini; situazione nella quale, e solo nella quale, troverebbe peraltro applicazione l'ipotesi della bancarotta per distrazione nella quale il Procuratore generale in sede ha chiesto la riqualificazione della condotta in esame”3.

2. Quindi, a detta della Suprema Corte, il sistematico omesso versamento potrebbe configurare il delitto di bancarotta per distrazione, nell’ipotesi in cui le risorse destinate al pagamento dei tributi e dei contributi previdenziali fosse speso “ad altri fini”.

Sennonché, una tal soluzione potrebbe esporsi ad una serie di obiezioni.

Come si è accennato in sede introduttiva, il sistematico omesso versamento commesso dai Legali Rappresentanti di una persona giuridica sembra integrare – secondo l’orientamento prevalente – la fattispecie di bancarotta impropria ex art.

223, comma 2, nr. 2 l.f.4

Al contrario, all’imprenditore individuale fallito che ometta sistematicamente di versare i contributi fiscali e previdenziali, può essere contestato il delitto di bancarotta per distrazione, ove le risorse destinate all’Erario vengano deviate ad altre finalità.

Orbene, già alla luce di questi brevissimi cenni, è del tutto evidente che ci troviamo davanti a fatti identici che vengono inquadrati in due diverse fattispecie del diritto penal-fallimentare, a seconda che l’impresa insolvente sia individuale o abbia assunto forma di persona giuridica.

Il che pare evidentemente un’anomalia.

D’altro canto, si potrebbe rilevare che l’obiezione appena esposta si attesti su un piano prettamente teorico e non produca conseguenze pratiche in capo all’imputato;

infatti, è sufficiente leggere le pene edittali previste dagli artt. 216 comma 1, nr. 1 e 223 l.f., per rendersi conto entrambe le fattispecie qui coinvolte prevedono la medesima cornice edittale e non vi sarebbe alcun riflesso in termini sanzionatori in capo all’imputato5.

3 Cfr. p. 6.

4 Si vedano, nella giurisprudenza di legittimità, ex plurimis, Cass. Pen., Sez. V, 15 maggio 2014, n. 29586; Cass. Pen., Sez. V, 18 giugno 2014, n. 42811; Cass. Pen., Sez. V, 25 settembre 2014, n. 47621. Nella giurisprudenza di merito, si veda, GUP Milano, 27 gennaio 2016.

5 Infatti, ai sensi dell’art. 216, comma 1, nr.1, “è punito con la reclusione da tre a dieci anni, se è dichiarato fallito, l'imprenditore, che: 1) ha distratto, occultato, dissimulato, distrutto o dissipato in tutto o in parte i suoi beni ovvero, allo scopo di recare pregiudizio ai creditori, ha esposto o riconosciuto passività inesistenti”. Ai sensi dell’art. 223, comma 2, nr. 2 “si applica alle persone suddette (ndr: amministratori, ai direttori generali, ai sindaci e ai liquidatori di società dichiarate fallite) la pena prevista dal primo comma dell'art. 216 (ndr.

reclusione da tre a dieci anni), se:[…] 2) hanno cagionato con dolo o per effetto di operazioni dolose il fallimento della società”.

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2.1 Piuttosto, sembra esservi un secondo argomento in grado di procurare conseguenze pratiche nettamente più rilevanti.

Torniamo un attimo alle parole della Cassazione appena riportate: “a diverse conclusioni potrebbe giungersi laddove la condotta addebitata fosse delineata nella spendita ad altri fini di risorse destinate al pagamento dei contributi, o la cui uscita sia comunque contabilmente giustificata in questi termini; situazione nella quale, e solo nella quale, troverebbe peraltro applicazione l'ipotesi della bancarotta per distrazione”.

In sostanza, secondo la Suprema Corte, il sistematico omesso versamento integra il delitto di bancarotta per distrazione, nell’ipotesi in cui le risorse destinati all’Erario vengano spese per soddisfare altre finalità.

Orbene, nella stragrande maggioranza dei casi, le risorse destinate all’Erario vengono utilizzate per un’unica finalità: garantire la sopravvivenza dell’impresa in crisi.

Sennonché, in questi casi, l’evasione fiscale altro non è che una irregolare forma di autofinanziamento dell’impresa in crisi di liquidità, la quale sceglie di privilegiare alcuni creditori strategici per il suo sostentamento, a discapito di altre posizioni creditorie come l’Erario.

E che tale ipotesi non sia un caso di scuola è presto detto: una recente pronuncia del GUP di Milano – chiamato a pronunciarsi su un sistematico omesso versamento inquadrato ai sensi dell’art. 223 l.f. – ha infatti affermato che "TIZIO ha operato una precisa scelta non necessitata, scegliendo di assolvere i debiti verso i creditori strategici (fornitori e dipendenti) e, nel contempo, di non assolvere le obbligazioni verso l'INPS e l'Erario"6.

Sennonché, parlare – come fa il GUP milanese – di scelta (pur non necessitata) significa presupporre una preferenza.

Del resto, una scelta è che un’indicazione o un’assunzione in base a una preferenza motivata da una valutazione oggettiva o soggettiva di caratteristiche e requisiti nei confronti di una disponibilità più o meno larga o di un'alternativa.

Proprio per queste ragioni, eventuali "preferenze" nei pagamenti da parte dell'imprenditore in crisi – anziché integrare la fattispecie di cui all'art. 223 l.f., comma 2, n. 2 e/o l’istituto della bancarotta per distrazione ex art. 216, comma 1 nr.

1 – sembrano meglio adeguarsi (ovviamente, in linea astratta) alla fattispecie di bancarotta preferenziale ex art. 216, comma 3, l.f., che, come noto, punisce con la pena della reclusione da un minimo di un anno fino a un massimo di 5 anni "il fallito, che, prima o durante la procedura fallimentare, a scopo di favorire, a danno dei creditori, taluno di essi, esegue pagamenti o simula titoli di prelazione", con una cornice edittale ben più lieve (di fatto, è dimezzata) rispetto alla sanzione prevista dall'art. 223 l.f e dall’art. 216, comma 1, nr. 1 l.f.

6 Cfr. GUP Milano, 27 gennaio 2016.

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2.2 Peraltro, a ben vedere, anche un'eventuale contestazione ex art. 216, comma 3, l.f. andrebbe necessariamente contestualizzata, alla luce degli elementi concreti che possono emergere in sede processuale.

Infatti, calando la struttura della norma alla vicenda che qui ci interessa, il delitto ex art. 216, comma 3, l.f. potrebbe astrattamente perfezionarsi (salvo quanto si dirà fra un istante) solo quando l'imprenditore intenda privilegiare il pagamento di un credito strategico per la sopravvivenza dell'impresa, a scapito dei crediti previdenziali ed erariali, mentre tale fattispecie non potrà dirsi integrata qualora venga privilegiato il pagamento degli stipendi dei lavoratori, a scapito di altri crediti.

Infatti, non solo la prevalente giurisprudenza7 sembra escludere ogni responsabilità penale in capo all'imprenditore che abbia privilegiato il pagamento dei salari al personale, ma tale soluzione pare trovare conforto anche sulla scorta del dato normativo di cui all'art. 67, comma 3, l. f., in forza del quale i pagamenti dei corrispettivi per prestazioni di lavoro effettuate a favore dei dipendenti non sono soggetti, in caso di fallimento, ad azione revocatoria, così che non è possibile ipotizzare che questi fatti possano integrare il delitto di bancarotta preferenziale, proprio perché, come detto, non sono idonei a pregiudicare le ragioni degli altri creditori.

Non solo; su un piano generale, occorre sicuramente ricordare come le eventuali contestazioni in ordine al delitto di bancarotta preferenziale dovranno necessariamente armonizzarsi con l’attuale contesto normativo, che sembra propendere a favore delle soluzioni negoziali della crisi dell’impresa.

E tutto ciò, ovviamente, comporta importanti ripercussioni sul versante penalistico.

2.3 Andiamo con ordine.

Come noto, l’introduzione dell’art. 217-bis “esenta” da responsabilità penale ex art.

216, comma 3, l.f., nelle ipotesi in cui i pagamenti preferenziali trovino giustificazione nell’ambito di alcune procedure paraconcorsuali tipizzate proprio all’interno della struttura dell’art. 217-bis (concordato preventivo, accordo di ristrutturazione dei debiti omologato, accordo di composizione della crisi).

Orbene, come chiarito in un’importante pronuncia del GUP di Bologna, tale norma

“prefigura un'esenzione da responsabilità per le condotte realizzate in esecuzione di uno degli istituti sopra indicati, con la conseguenza [...] che l'oggettivo aggravamento del dissesto non sarebbe destinato ad assumere rilevanza penale laddove misuri l'effetto medio tempore prodotto dall'attività esecutiva di strumenti di regolazione conservativa dei quali si sia tuttavia ex post certificato l'insuccesso”8. Ma la pronuncia del GUP bolognese si spinge ben oltre il mero dato testuale dell’art.

217-bis, sino a riconoscere carattere esimente anche a soluzioni atipiche di riassetto organizzativo dell’impresa in crisi, a patto che queste ultime risultino comunque

7 Cfr. Cass. Pen., Sez. V, 28 maggio 1991, Martelli.

8 GUP Bologna, 25 novembre 2015, n. 2228.

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congrue ed concretamente idonee ex ante a procurare capitale fresco alla Società in crisi, così da garantirle la possibilità di continuare l'attività.

Queste indicazioni, davvero rilevanti, non sono circoscritte alla sola giurisprudenza di merito.

La stessa Suprema Corte di Cassazione9, chiamata a pronunciarsi sul crac finanziario che aveva colpito un'impresa operante nella gestione dei multisala, ha mostrato un atteggiamento di chiaro favore nei confronti delle soluzioni negoziali "atipiche"

adottate dalle imprese in crisi di liquidità.

Pur non menzionando espressamente l'art. 217-bis l.f. (del resto, la contestazione concerneva un'ipotesi di bancarotta per operazioni dolose) la Corte sembra escludere il delitto di cui all'art. 223, comma 2 nr. 2 l.f. nei casi in cui la Società fallita abbia tentato di attivare operazioni gestionali, tutt'al più imprudenti (e, a posteriori, rivelatesi infruttuose), ove finalizzate esclusivamente a massimizzare i profitti economici della Società.

Infatti, si legge nelle motivazioni, "gli imputati hanno allegato una serie di circostanze, quale l'attivazione di un ricorso al T.A.R. e la predisposizione di un piano di fattibilità economica dell'operazione commerciale, per dimostrare la volontà di portare a termine proficuamente l'operazione commerciale intrapresa con il cd. Multisala, non ottenendo, tuttavia, sul punto, un'adeguata risposta motivazionale da parte della Corte distrettuale [...] Peraltro l'ampliamento della metratura per i locali commerciali già prevista dalla convenzione urbanistica, se, da un lato, denota la commissione di eventuali irregolarità amministrative ovvero forse sin anco di reati edilizi, dall'altro, evidenzia tuttavia la volontà di

"massimizzare" il profitto ricavabile dalla complessiva operazione edilizia e commerciale, con una intenzione certamente non diretta a cagionare con dolo il fallimento della società"10.

In sostanza, la Cassazione valuta positivamente l'attivismo (pur imprudente e infruttuoso) del management per escludere che l'(eventuale) insuccesso della politica imprenditoriale (e il relativo dissesto che ne è derivato in capo alle finanze sociali) possa essere, del tutto acriticamente, imputato a finalità spoliative o distrattive: "in ragione della scarsa forza finanziaria di quest'ultimi e della inesperienza nel settore commerciale (le cd. Multisale cinematografiche) [...] dall'attivismo imprenditoriale dimostrato da (omissis) che, nonostante le notevoli difficoltà frappostesi alla conclusione della complessiva operazione commerciale, aveva comunque dimostrato di essersi attivato, dal punto di vista amministrativo, per far ottenere alla Multisala la destinazione commerciale progettata e per stipulare contratti d'affitto di azienda con la (omissis) e preliminari di vendita con la (omissis), prima e con la (omissis), dopo"11.

9 Cass. Pen., Sez. V, 14 ottobre 2016, n. 533.

10 Vedi nota precedente.

11 Cass. Pen., Sez. V, 14 ottobre 2016, n. 533.

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3.Orbene, per le ragioni anzidette, quanto appena esposto non fa altro che confermare il favore con cui le recenti riforme del diritto penale dell'economia valutano gli spazi dell'autonomia privata nella fase della gestione della crisi di impresa, (si pensi, ad es., alla c.d. transazione fiscale ex art. 182-ter l.f. etc.), permettendo così all'imprenditore sia di onorare il debito con l'Erario, sia di ristrutturare la sua azienda così da onorare gli ulteriori debiti pendenti in una prospettiva di continuità aziendale, senza la minaccia della sanzione penale.

Per realizzare tale obiettivo, sarà ovviamente compito del legislatore penale coordinare gli istituti tipici del diritto penal-fallimentari con le peculiarità del diritto penale tributario, al fine di ridurre la minaccia penale alle sole ipotesi in cui l'inadempimento abbia origine fraudolenta.

In attesa di queste (auspicabili) riforme, gli imprenditori in crisi dovranno comunque percorrere gli istituti c.d. pre-concorsuali attualmente vigenti, al fine di incrementare una sana riorganizzazione delle imprese scongiurando il rischio di possibili contestazioni penali, sia di carattere penal-tributario sia di carattere penal- fallimentare.

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