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Discrimen » “Non avrai altro creditore all’infuori di me!”. Riflessioni sparse sul delitto di omesso versamento IVA

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“N

ON AVRAI ALTRO CREDITORE ALL

INFUORI DI ME

!”

RIFLESSIONI SPARSE SUL DELITTO DI OMESSO VERSAMENTO IVA*

Giovanni Flora

SOMMARIO 1.L’art.10-bis come incriminazione estranea all’impianto di fondo del D.lgs. n. 74 del 2000 e alla legge delega di riforma del sistema sanzionatorio tributario del 2014 (L. n. 11.3.2014, n. 23).

2. In particolare: l’incostituzionalità della norma per violazione dell’art. 8 della legge delega (c.d.

vizio di “eccesso di delega”). 3. Lo stravolgimento giurisprudenziale della struttura tipica della norma incriminatrice. In particolare: dall’“omesso versamento” all’“omesso accantonamento”. 4. Omesso versamento e “crisi di liquidità”: nessuna via di scampo? 5. La via dell’assenza di dolo e del limite implicito di tipicità dell’omissione (“ad impossibilia nemo tenetur”). 6. Conflitto di doveri e respon- sabilità per omesso versamento: pagare l’iva o salvare l’impresa? This is (quite often) the question. 7.

Considerazioni conclusive.

1. L’art.10-bis come incriminazione estranea all’impianto di fondo del D.lgs. n. 74 del 2000 e alla legge delega di riforma del sistema sanzionatorio tributario del 2014 (L. n.

11.3.2014, n. 23)

È ormai opinione comune degli studiosi del diritto penale tributario che il delitto di omesso versamento iva contemplato dall’art. 10-ter D.lgs. n. 74 del 2000 (così come quello di omesso versamento delle ritenute certificate, art. 10-bis stesso decreto1) co- stituisca una incriminazione del tutto estranea alla “filosofia” ispiratrice originaria di fondo della legge nella quale è stata poi disarmonicamente inserita2.

La legge del 2000, infatti, era sostanzialmente volta a colpire le più intollerabili

*Il presente contributo è destinato agli Scritti in onore di Lucio Monaco.

1 D’ora in poi le citazioni normative non seguite da alcuna indicazione devono intendersi riferite al D.lgs. n. 74/2000 e succ. mod.

2 Cfr., ad es., A. LANZI - P. ALDROVANDI, Diritto penale tributario, Padova, 2017, p. 59; G. GAM- BOGI, La riforma dei reati tributari, Milano, 2016, p. 252; A. MARTINI, Reati in materia di finanze e tributi, in Trattato di Diritto penale, diretto da C.F. GROSSO - T. PADOVANI - A. PAGLIARO, p.

spec., vol. XVII, Milano, 2010, p. 604; E. MUSCO - F. ARDITO, Diritto penale tributario, Bologna, 2016, p. 28 segg. e 287 segg.; A. TRAVERSI - S. GENNAI, I delitti tributari. Profili sostanziali e proces- suali, Milano, 2011, p. 159.

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violazioni degli obblighi dichiarativi nonché i comportamenti consistenti nelle più insidiose forme di falsità documentale (emissione di fatture per operazioni inesistenti, art. 8), realizzate anche nella forma della soppressione/occultamento (art. 10). Il mo- mento della riscossione era tutelato solo dalla condotta di sottrazione fraudolenta alla esecuzione esattoriale (art. 11, da qualche tempo divenuta la incriminazione maggior- mente valorizzata nella prassi applicativa). Evidentemente il legislatore ha ritenuto di dover sanzionare penalmente, ritenendo non sufficienti le pur severe sanzioni ammi- nistrative3 anche il mancato pagamento dell’iva (sia pure solo quando l’importo dovuto in base alla dichiarazione annuale sia superiore a rilevanti soglie quantitative, oggi fissate in duecentocinquantamila euro). I criteri di criminalizzazione originariamente assunti erano dunque essenzialmente due: dimensione dell’offesa patrimoniale e par- ticolare insidiosità della condotta e il D.lgs. n. 74 del 2000 vi aveva fatto ricorso ora congiuntamente (per esempio nel delitto di dichiarazione fraudolenta “mediante altri artifici”, art. 3), ora singolarmente (per es.: dichiarazione fraudolenta mediante utiliz- zazione di fatture per operazioni inesistenti, art. 2, che non richiede alcuna soglia quantitativa di evasione; omessa dichiarazione dei redditi o iva che richiede invece lo scavalcamento di soglie quantitative di evasione, oggi determinate in cinquantamila euro), ma costruendo pur sempre reati incentrati su condotte volte a rappresentare al fisco una posizione contributiva diversa da quella reale (quando non a nasconderla del tutto) o a tentare di ostacolarne l’accertamento. Con l’introduzione del reato di omesso versamento invece il legislatore abbandona del tutto quei criteri e si ispira a tutt’altra filosofia: usare la sanzione penale come mero deterrente per “incentivare” il paga- mento. La dichiarazione iva è stata fedelmente presentata (anzi la sua presentazione costituisce presupposto della condotta4, nessun ostacolo il contribuente frappone alla esatta individuazione della sua posizione verso il fisco, solo che egli non effettua il pagamento dovuto. Sembrerebbe per questa via reintrodursi nel sistema l’odiosa figura dell’“arresto per debiti”, sia pure per debiti “qualificati”.

Non solo, ma mentre tutte le altre fattispecie incriminatrici contenute nella

3 Con tutte le conseguenti problematiche di una possibile violazione del principio del ne bis in idem, stante la natura sostanzialmente penale delle sanzioni amministrative tributarie. Problematiche sulle quali ci permettiamo di rinviare a G. FLORA, La “tela di Penelope” della legislazione penale tributaria, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2017, p. 495 segg. e agli Autori e alla giurisprudenza ivi citati.

4 Per tutti, G. GAMBOGI, La riforma, cit., p. 254; A. MARTINI, Reati in materia di finanze e tributi, cit., p. 611. Secondo A. LANZI - P. ALDROVANDI, (Reati tributari, cit., p. 444) la presentazione della dichiarazione costituirebbe la “componente attiva” del reato, da considerarsi a condotta mista, attiva e omissiva.

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legge del 2000 erano (e sono ancor oggi) caratterizzate, in funzione selettiva della ri- levanza penale, dal dolo specifico o intenzionale di evasione (propria o altrui), a se- conda che l’evasione sia o meno elemento costitutivo del fatto materiale, il delitto di omesso versamento iva (così come quello di omesso versamento di ritenute certificate) non richiede nessuna particolare qualificazione del dolo, cosicché – si afferma5 – può bastare anche un esangue “dolo eventuale” .

Quali che siano le giustificazioni politico criminali di una scelta del genere (che – ripetiamo – sembrano però banalmente riconducibili a pure esigenze di esazione) non ci si possono nascondere le perplessità che detta scelta desta, sia di per sé, sia per come è costruita. Non può certo infatti dirsi che l’iva riscossa sia “già” di proprietà dell’Erario; basterebbe solo riflettere che l’obbligo di versamento non concerne certo l’iva riscossa, ma – come tutti ben sanno – solo la differenza tra iva pagata e iva riscossa.

Ci si potrebbe per vero obiettare che vi possono esser casi in cui il contribuente, per così dire, “si autofinanzia” attraverso il mancato pagamento dell’iva o in cui il mancato pagamento costituisce il perfezionamento di una più ampia strategia evasiva che ha inizio con la dichiarazione fraudolenta. Ma se l’intento era quello di colpire forme essenzialmente appropriative, allora la fattispecie avrebbe dovuto essere costruita di- versamente, quanto meno sotto il profilo del dolo. Se invece il “retropensiero” fosse quello della “consumazione” (in senso tecnico) di una iniziale frode, allora bastano e avanzano i delitti di frode fiscale (artt. 2 e 3) in relazione ai quali il delitto dell’art. 10- ter si trova in relazione di incompatibilità, avendo come presupposto la presentazione di una dichiarazione fedele. E senza bisogno di scomodare la categoria del post fatto non punibile6. Insomma, la norma sembra in definitiva proprio reintrodurre una forma dell’odioso istituto dell’“arresto per debiti”, evocativo di particolari nefandezze quando ad esigere il pagamento era il Sovrano7.

5 Opinione assolutamente consolidata. Cfr., in dottrina, A. LANZI - P. ALDROVANDI, Diritto pe- nale tributario, cit., p. 455. In giurisprudenza, S.U., 28 marzo 2013 (dep. 12 settembre 2013), n. 37424 in Cass. pen., 2014, p. 38 segg. con nota di A. CIRAULO (La punibilità degli omessi versamenti dell’IVA e delle ritenute certificate nella lettura delle Sezioni Unite) con ampi richiami di dottrina e giurispru- denza, anche di merito. Per una vasta e puntuale panoramica giurisprudenziale, M. GENOVESI, I reati di omesso versamento in tempo di pandemia, in Il fisco, n. 23 del 2020, p. 2260 e segg.

6 Sulle ragioni politico-criminali dell’incriminazione, v. A. MARTINI, Reati in materia di finanze e tributi, cit., p. 615, il quale sottolinea come la struttura della norma “tradisca” la sua verosimile ratio politico-criminale, dopo avere ricordato che la norma (nelle intenzioni del legislatore n.d.r.) sarebbe nata per colpire forme preordinate di inadempimento. Sul punto, v. anche S. GENNAI - A. TRAVERSI (I delitti tributari, cit., p. 159) secondo i quali la norma sarebbe stata introdotta per l’avvertita necessità di contrastare l’omesso versamento IVA connesso al fenomeno delle c.d. “frodi carosello”.

7 Così anche A. DEL SOLE, I reati tributari omissivi al tempo della crisi, in Corr. trib., 2013, p. 979.

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Ma, se i sentimenti di ripulsa che i ricordi dello Sceriffo di Nottingham possono emotivamente suscitare, si possono superare considerando che lo Stato democratico sociale necessita delle risorse provenienti dalla riscossione dei tributi proprio per assi- curare a tutti i servizi pubblici essenziali e, in definitiva, il pieno sviluppo della vita individuale e sociale dei consociati (art. 3, comma 2 Cost.), tuttavia la scelta di ricor- rere alla sanzione penale a presidio del pagamento di un tributo dovuto in base ad una corretta auto-rappresentazione da parte del cittadino del proprio debito contributivo, non trova comunque nessuna plausibile giustificazione in base ai principi fondamen- tali, anche costituzionali, del diritto penale. A cominciare dal principio della tutela penale come extrema ratio. Non bastano le sanzioni amministrative a scoraggiare una omissione del genere? E non ha l’Erario strumenti coercitivi alternativi per soddisfarsi sul debitore, se capiente? E se “incapiente” la sanzione penale per il mancato paga- mento “impossibile” che senso ha? E quale funzione rieducativa assolve la pena che colpisce il mero omesso pagamento in costanza di un comportamento assolutamente leale del contribuente?

Ma c’è di più. La norma è palesemente incostituzionale per vizio di “eccesso di delega”.

2. In particolare: l’incostituzionalità della norma per violazione dell’art. 8 della legge delega (c.d. vizio di “eccesso di delega”)

La legge delega del 2014, si occupa – come è noto – anche del riassetto del sistema sanzionatorio e detta al legislatore delegato i criteri direttivi cui si deve conformare.

In particolare, con riguardo alla costruzione delle fattispecie incriminatrici, stabilisce (art. 8), che dovrà essere dato rilievo, “tenuto conto di adeguate soglie di punibilità, alla configurazione del reato per i comportamenti fraudolenti, simulatori o finalizzati alla creazione e all’utilizzo di documentazione falsa”. Si tratta di una indicazione estre- mamente precisa, dal tenore inequivoco, che non lascia margini di discrezionalità al legislatore delegato. Nonostante che si tenti di darne una lettura “riduttiva”, soste- nendo, in sostanza, che la delega non imponeva una “rifondazione” del sistema penale tributario, ma solo una sorta di revisione (quasi fosse il “tagliando” di un’auto), una

“riverniciatura” dell’esistente8 oppure invertendo il rapporto di gerarchia

8 G. CERNUTO - F. D’ARCANGELO, I reati omissivi e di indebita compensazione, ne La nuova giustizia penale tributaria. I reati. Il processo, a cura di A. GIARDA, A. PERINI, G. VARRASO, Padova, 2016, p. 373.

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costituzionale tra legge delega e decreti delegati9, il problema della conformità alla delega dell’incriminazione contenuta nell’art. 10-ter è ineludibile. Tanto più che la norma è stata completamente riscritta in sede di attuazione della delega. Il legislatore delegante, dunque, tra tutti i possibili criteri di “criminalizzazione” delle violazioni del dovere contributivo astrattamente ipotizzabili e storicamente utilizzati10 presceglie quello della particolare insidiosità della condotta che si concretizzi però anche nello scavalcamento di significative soglie di evasione. Si tratta di criteri cumulativi: disva- lore di condotta e disvalore di evento segnano i confini della meritevolezza della san- zione penale. E si tratta di criteri così precisamente determinati da non lasciare alcun margine di discrezionalità al legislatore delegato, almeno in ordine ai dati strutturali significativi del disvalore penale delle trasgressioni tributarie.

Orbene, poiché la condotta tipica del reato di omesso versamento dell’iva, dovuta in base ad una dichiarazione assolutamente fedele, non è né fraudolenta né simulatoria e non consiste certo né nella creazione né nell’uso di documenti falsi, come si potrà mai sostenerne la conformità ai criteri direttivi della legge delega? Ne consegue inevitabil- mente la incostituzionalità dell’art. 10-ter per vizio c.d. di “eccesso di delega”11.

3. Lo stravolgimento giurisprudenziale della struttura tipica della norma incriminatrice.

In particolare: dall’“omesso versamento” all’“omesso accantonamento”

La struttura della fattispecie tipica è notoriamente organizzata su una condotta omissiva che presuppone un debito verso l’erario superiore a duecentocinquantamila euro, maturato a seguito di una fedele dichiarazione iva (che ne costituisce dunque un presupposto12), il cui termine di adempimento penalmente rilevante è fissato,

9 G. CERNUTO - F. D’ARCANGELO, I reati omissivi, cit., p. 369.

10 Sul punto ci sia consentito rinviare a G. FLORA, Profili penali in materia di imposte dirette ed iva, Padova, 1979, p. 17 segg. e, volendo, al più recente La “tela di Penelope”, cit., pp. 476 segg.

11 Sui profili generali del tema cfr. per tutti, oltre al classico Istituzioni di diritto pubblico di Costan- tino MORTATI, Vol. II, p. 767 segg., con particolare chiarezza F. SORRENTINO, Le fonti del diritto amministrativo, in Trattato di diritto amministrativo, diretto da G. SANTANIELLO, Padova, 2004, p.

126 segg.; nonché S. STAIANO, voce “Legge di delega e decreto legislativo”, in Enc. Giur. del Sole 24 Ore, vol. VIII, Milano, 2007, p. 756 segg. e part. pp. 769-770 con ampia bibliografia e citazione della più rilevanti sentenze della Corte Costituzionale in materia di vizio di “eccesso di delega”.

12 A. MARTINI, Reati in materia di finanze e tributi, cit., p. 610; diversamente, A. LANZI - P. AL- DROVANDI, Diritto penale tributario, cit., pp. 443-444, secondo i quali la presentazione della dichia- razione costituirebbe la componente attiva del reato che sarebbe strutturato in forma mista: attiva e omissiva.

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altrettanto notoriamente, in un momento diverso e “più lungo” rispetto a quello sta- bilito dalla normativa tributaria in materia: il pagamento deve infatti intervenire entro il termine in cui deve essere effettuato il versamento dell’acconto relativo al periodo d’imposta successivo. Sotto il profilo dell’elemento soggettivo, non è neces- sario il dolo intenzionale (essendo il quantum di imposta non versata elemento del fatto materiale tipico, non si può parlare, correttamente di “dolo specifico”13), cosic- ché è sufficiente anche – come già detto – il dolo eventuale. La soglia quantitativa di rilevanza è poi espressa solo in cifra fissa, senza alcun riferimento ad una percentuale del volume d’affari. Non si tiene dunque alcun conto della “dimensione” del contri- buente così come accade non solo per le ipotesi di omessa o infedele dichiarazione (artt. 5 e 4 D.lgs. n. 74 del 2000), ma perfino per l’ipotesi di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici14.

Orbene, mentre sulla struttura del dolo avremo modo di tornare più avanti, vale qui la pena di sottolineare come la giurisprudenza, chiamata ad affrontare il tema dell’omesso versamento in condizioni di “crisi di liquidità”, abbia operato un vero e proprio stravolgimento della struttura del fatto tipico (operazione certo non incon- sueta per i Giudici della nostra Repubblica), costruendo a carico del contribuente un obbligo di accantonamento dell’iva riscossa, che colloca al centro della fattispecie il cui contenuto di disvalore non starerebbe dunque tanto nel mancato versamento, quanto piuttosto nell’omesso accantonamento. Quello che il legislatore ha costruito come reato di omesso versamento viene trasformato nella prassi giurisprudenziale in reato di mancato accantonamento, con spostamento, per così dire, all’indietro del si- gnificato di disvalore penale del fatto. Il “buon contribuente” dovrebbe preoccuparsi di accantonare le somme che dovrà versare a titolo di iva, diligentemente distribuendo le risorse necessarie all’espletamento della sua attività15.

13 Di dolo specifico potrebbe ovviamente parlarsi se si ritenesse di qualificare la soglia di rilevanza penale come condizione obiettiva di punibilità.

14 Vale la pena di ricordare che la Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla questione della determinatezza del requisito della “alterazione rilevante” del risultato della dichiarazione contemplato dall’art. 4, n. 7 della l. n. 516 del 1982, con sentenza n. 247 del 1989, ebbe a “salvare” la norma preci- sando che la “rilevanza” avrebbe dovuto essere còlta sia in riferimento ad un ordine di grandezze “fisso”, sia ad un ordine di grandezze espresso in termini percentuali rispetto alla “dimensione” del trasgressore.

15 Cfr. Cass. S.U., cit., part. p. 52 ove fa espresso riferimento all’obbligo di accantonamento, oltre ad una nutrita serie di decisioni conformi (ad es.: Cass., Sez. III, 11.05.2016, n. 30397; Sez. III, 25.02.2014, n. 14953). Anche se si deve sottolineare che le S.U. ricorrono alla enunciazione di questo principio per sostenere che non costituisce violazione del divieto di retroattività punire omissioni relative ad un pe- riodo di imposta il cui termine fiscale di adempimento scadeva anteriormente all’entrata in vigore della

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Probabilmente alla base di una tale trasfigurazione vi sono due errori di fondo.

Il primo è quello di ritenere che l’iva riscossa sia “già” di proprietà dello Stato del quale il contribuente sarebbe una sorta di “esattore”. Il secondo, logica conseguenza del primo, è che il reato in parola, costituisca una sorta di “appropriazione indebita” a danno dell’Erario. Non per nulla, in un passato remoto, la giurisprudenza, in assenza di una apposita norma incriminatrice, cercò di utilizzare proprio quella sulla appro- priazione indebita comune (art. 646, c.p.) per colpire il fenomeno. Tentativo però nau- fragato sul nascere.

Vero è che, in materia di iva, sul contribuente grava fiscalmente una obbliga- zione di versamento della differenza tra iva riscossa e iva pagata, qualora ne risulti un suo debito nei confronti dell’erario. Le norme fiscali non lasciano alcun dubbio in proposito. Fiscalmente non v’è alcun obbligo di accantonamento dell’iva riscossa:

l’importo dell’iva riscossa non è “già” dello Stato; non si sa se dovrà essere versata, né in che misura. Il ragionamento non cambia di molto nemmeno se si ha riguardo alla circostanza che al momento in cui scatterà l’obbligo penalmente rilevante di versamento, il contribuente, sulla base della dichiarazione relativa all’anno d’impo- sta precedente, sa se e quanto dovrà versare a titolo di iva. La circostanza che la tesi del dovere di accantonamento e del dovere di contingentare le risorse in modo da essere in grado di pagare l’iva dovuta sia stata costruita ai fini di risolvere, in senso negativo, la rilevanza “esimente” della crisi di liquidità, non giustifica certo una così evidente trasfigurazione dei connotati tipici della fattispecie, costruita – ripetiamo – su un inesistente dovere di preservare le somme che dovranno essere versate16. Tesi giurisprudenziale che viene invece peraltro implicitamente ripudiata, ma a fini re- pressivi, da una recente sentenza, peraltro in linea con precedenti conformi, la quale stabilisce che v’è ugualmente responsabilità penale per l’omesso versamento di im- porti iva fatturati, ma non effettivamente riscossi17. Sentenza che, da un lato, sembra riconoscere che il reato di omesso versamento costituisce solamente la trasgressione di una obbligazione tributaria e non quella di un dovere di accantonamento (se l’iva

norma incriminatrice, vigente però al momento dell’inadempimento penalmente rilevante (notoria- mente “più lungo” di quello tributario).

16 Sembrano invece aderire alla impostazione giurisprudenziale A. LANZI - P. ALDROVANDI, Di- ritto penale tributario, cit., p. 451 segg.

17 Cass., Sez. III, 27.06.2019, n. 41070, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2020, p. 452, con nota di M. GRASSI, ove si citano però anche orientamenti per i quali il mancato incasso potrebbe rilevare sotto il profilo dell’assenza di dolo: Cass., Sez. III, 3.07.2018, n. 29873; IDEM, 16.07.2015, n. 40352, IDEM, 6.02.2014, n. 15176. Per una tagliente critica alla soluzione più severa, cfr. E. MUSCO - F. ARDITO, Diritto penale tributario, cit., p. 255.

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non è stata riscossa v’è ben poco da accantonare); dall’altro rimane pervicacemente insensibile alla mancanza materiale delle risorse economiche necessarie per adem- piere a quella obbligazione.

4. Omesso versamento e “crisi di liquidità”: nessuna via di scampo?

Il problema più spinoso che si pone nella prassi – ormai lo si sa bene – è infatti proprio quello del trattamento delle ipotesi (sempre più frequenti, specie nella attuale temperie socio-economica) di omesso pagamento dovuto ad una (incolpevole) crisi di liquidità.

I tentativi di soluzione equitativa, adottati essenzialmente dai giudici di merito18, si sono però scontrati con un granitico orientamento negativo della Corte di Cassa- zione che, pur con qualche lodevole eccezione19, ha sempre negato rilevanza “esi- mente” alla “impossibilità” di adempiere per mancanza delle necessarie risorse20.

D’altra parte, invocare lo “stato di necessità”, o addirittura la “forza maggiore”

in funzione esimente del mancato pagamento per (incolpevole) mancanza di risorse non può avere all’evidenza alcun fondamento dogmatico. Ed infatti par di capire che si tratta di argomenti che cercano di conferire veste giuridica ad approdi decisionali fondati essenzialmente sul “buon senso”, ispirati ad equità21. Si invocano insomma stato di necessità e forza maggiore in una accezione, per così dire “laica”, attirando così facili “controdeduzioni” critiche. Lo “stato di necessità” come scriminante non solo “sconta” i noti ristrettissimi limiti strutturali, ma è notoriamente destinata ad operare in assenza di disciplina normativa (necessitas non habet legem)22 e quando

18 Orientamento che risulta essere stato adottato per primo da G.I.P. Trib. Firenze, 27.07.2012, in Riv. dott. comm., 2013, p. 962; seguita poi da molte altre, tra le quali GIP Trib. Milano, 7.12.2013, in www.penalecontemporaneo.it; Trib. Venezia, 5.01.2013, in Dialoghi trib., 2013, p. 220 segg.; Trib. No- vara, 20.03.2013, Dir. prat. trib., 2013, II, p. 1093 segg.

19 Tra le più recenti, v. in particolare, Cass., Sez. III, 5.06.2019 – 16.10.2019 n. 42522, relativa al caso di un imprenditore che aveva dato la precedenza a pagamenti in grado di assicurare la continuità azien- dale rispetto al pagamento del debito IVA; Cass., Sez. III, n. 41602 del 2019, in relazione al caso di un imprenditore che aveva posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale per recuperare le somme per pagare il debito IVA e di cui non aveva disponibilità per im- provvisa crisi di liquidità.

20 Tra le molte: Cass., Sez. III, n. 7644/2019; IDEM, n. 9/2019; IDEM, n. 39500/2017; IDEM, n.

38715/2018; IDEM, 52971/2018; IDEM, n. 54345/2018.

21 A. LANZI - P. ALDROVANDI, Diritto penale tributario, cit., p. 447.

22 F. MANTOVANI, Diritto penale, p. gen., cit., 2020, p. 285 segg.; E. MEZZETTI, Necessitas non habet legem?, Torino, 2000, passim.

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per l’ordinamento è indifferente la soccombenza di uno dei due interessi che ven- gono in conflitto23. Altro ragionamento andrebbe fatto in riferimento allo stato di necessità come “scusante”, operante quindi sul piano della colpevolezza, per vero estraneo alla nostra tradizione giuridica (tranne nei casi espressamente contemplati di altrui minaccia dall’art. 54, comma 3 c.p. e di esecuzione di ordine illegittimo insindacabile secondo l’art. 51, comma 4 c.p.), ma – come vedremo – recuperabile allorquando, come nel caso di specie, venga in gioco un “conflitto di doveri”.

Men che mai può venire in rilievo la forza maggiore che implica una condotta fisicamente determinata da una vis cui resisti non potest24.

5. La via dell’assenza di dolo e del limite implicito di tipicità dell’omissione (“ad impossibilia nemo tenetur”)

Per vero le strade più semplici e dogmaticamente fondate per escludere la sussi- stenza del reato per “impossibilità di adempiere” potevano e posso essere fondamen- talmente due: la prima che fa leva sulla esclusione della stessa tipicità del fatto; la se- conda che si fonda sulla mancanza di dolo.

Quanto alla prima, la (ragionevole) possibilità di agire costituisce notoriamente un limite esegetico implicito di tipicità della condotta. “Ad impossibilia nemo tenetur”

è brocardo da intendersi nel senso di assenza di una umana pretesa di adempimento dell’obbligo di agire e non può certo riferirsi alla sola impossibilità fisica, nel qual caso si potrebbe invece più correttamente parlare di difetto di “suitas” (anche qui a volte invocata a sproposito)25. Soluzione da non confondersi nemmeno con quella, pure pro- spettata, per vero con un certo fondamento26, della “inesigibilità” evocativa della cate- goria delle “scusanti” incentrate sulla non rimproverabilità dell’atteggiamento antido- veroso della volontà dell’agente la cui “decisione” di agire si è formata sotto la spinta emotiva di circostanze straordinarie condizionanti27.

La seconda, in teoria più semplice strada, poteva e può essere quella della assenza

23 Per tutti, F. MANTOVANI, Diritto penale, p. gen., cit., 2020, p. 285 segg.

24 Nello stesso senso A. LANZI - P. ALDROVANDI, Diritto penale tributario, cit., p. 454.

25 A. LANZI - P. ALDROVANDI, Diritto penale tributario, cit., p. 454.

26 Trib. Milano, 15.12.2015 (dep. 18.02.2016) in A. LANZI - P. ALDROVANDI, Diritto penale tri- butario, cit., p. 460 e nota 327.

27 Nella dottrina italiana, imprescindibili i riferimenti a G. FORNASARI, Il principio di inesigibilità nel diritto penale, Padova, 1990; M. ROMANO, Giustificazione e scusa nella liberazione da particolari situazioni di necessità, in Riv. it. dir. proc. pen., 1991, p. 40 segg.; E. VENAFRO, Scusanti, Torino, 2002.

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di dolo: il soggetto incapiente ha sì la consapevolezza di non versare quanto dovuto, ma, difettando la possibilità di scelta tra pagare e non pagare, in realtà “non decide” di non pagare e quindi “non vuole non pagare”. Né la correttezza della soluzione po- trebbe essere inficiata adducendo che si tratta di delitto punito a titolo di dolo generico che potrebbe dunque assumere anche le forme del dolo eventuale. Orbene a prescin- dere dalla necessità di ripensare di sana pianta la ragionevolezza di una generalizzata estensione della punibilità a titolo di dolo eventuale a tutti i delitti, in particolar modo a quelli economici, le più recenti ed ormai consolidate acquisizioni in materia richie- dono che anche chi versa in “dolo eventuale”, non solo si rappresenti come possibile il risultato offensivo ma anche che effettivamente “decida” di agire anche a costo di realizzarlo28.

Piuttosto ritengo si debba fare chiarezza distinguendo due diverse possibili si- tuazioni:

a) Il contribuente/imputato ha deliberatamente programmato l’inadempimento mettendosi nelle condizioni di non poter adempiere.

b) Il contribuente/imputato si è trovato incolpevolmente, per le più varie ragioni, in una situazione imprevedibile di illiquidità.

A me la soluzione del secondo caso sembra per vero assai semplice. Qui davvero si potrebbe dire che c’è solo l’imbarazzo della scelta: manca la “possibilità di agire” e quindi non siamo in presenza del fatto tipico decritto dalla norma; o, quanto meno, manca il dolo. Vanno solo effettuate alcune precisazioni. Insussistenza del fatto tipico o insussistenza del dolo vanno valutate al momento in cui scade il termine di perfe- zionamento del delitto, non al momento in cui scade il termine di versamento stabilito dalla normativa tributaria29. Può infatti ben accadere che il contribuente “decida” di procrastinare l’adempimento tributario ad un momento successivo, nella ragionevole convinzione (es.: la riscossione di crediti ritenuti fondatamente “sicuri”) di poter avere a disposizione la provvista necessaria al momento in cui l’omesso versamento diviene penalmente rilevante, ma eventi imprevedibili o comunque a lui non imputabili non gli consentano di avere a disposizione le somme necessarie; nel qual caso parrebbe sicuramente difettare qualsiasi forma di dolo e fors’anche anche di colpa. Piuttosto bisognerebbe ancora ragionare su due diverse sotto ipotesi. La prima: il nostro soggetto

28 Cass. pen., S.U., 18 settembre 2014 (ud. 24 aprile 2014), n. 38343, Presidente Santacroce, Relatore Blaiotta, in Riv. it. dir. proc. pen., 2014, p. 1926 segg., con nota di G. FIANDACA (Le Sezioni Unite tentano di diradare il “mistero” del dolo eventuale, p. 1938 segg.) e di M. RONCO (La riscoperta della volontà nel dolo, p. 1953).

29Contra, A. LANZI - P. ALDROVANDI, Diritto penale tributario, cit., p. 453-454.

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agente ha deciso di procrastinare perché privo di mezzi finanziari, ma fiducioso di poterli tempestivamente reperire; il nostro soggetto aveva già alla scadenza del ter- mine fiscalmente rilevante i mezzi per pagare, ha deciso di procrastinare, dando la precedenza al pagamento di altri creditori (fornitori, dipendenti, utenze, mutui ban- cari), ma sempre confidando di poterli reperire in tempo per evitare l’omissione costi- tuente reato.

La prima sotto ipotesi poi si biforca ulteriormente a seconda che i mezzi repe- riti non consentano un pagamento integrale, ma solo di addivenire ad un accordo con l’Agenzia delle Entrate per un pagamento rateale, ma non esauribile nei termini che consentano di guadagnare la non punibilità (art. 13, commi 1 e 3). Premesso che il contribuente non può effettuare un pagamento rateale di propria iniziativa, ma deve attendere il c.d. “avviso bonario” da parte dell’Ufficio che di solito arriva non certo nell’immediatezza (arg. ex artt. 36-bis D.P.R. 600/1973 e 54-bis D.P.R.

633/1972), resta da stabilire se l’assolvimento del debito anche in tal forma possa rivelarsi indicativo di mancanza di dolo, come sembrerebbe potersi sostenere, se è vero come è vero che anche il comportamento susseguente possa essere valorizzato ai fini della prova dell’elemento soggettivo del reato. Ma mi rendo conto che si tratta di conclusione problematica.

La seconda sotto ipotesi si incrocia invece con la prima delle due ipotesi di fondo sopra enunciate, cosicché se ne rende opportuna una trattazione congiunta.

6. Conflitto di doveri e responsabilità per omesso versamento: pagare l’iva o salvare l’impresa? This is (quite often) the question

L’inadempimento programmato può sottendere due diverse rationes: la destina- zione delle somme a spese non inerenti all’esercizio dell’attività imprenditoriale o pro- fessionale del contribuente o comunque per esse non “necessarie”, oppure la destina- zione delle somme per fini con esse coerenti ed effettuate per mantenerle in vita, cir- costanza che rileverà soprattutto allorché venga data la precedenza al pagamento di debiti finalizzato ad evitare la crisi irreversibile dell’impresa.

Insomma, di fronte alla alternativa se versare l’iva dovuta o garantire la soprav- vivenza dell’impresa la scelta cade su quest’ultima.

Nel primo caso, ci si trova insomma in presenza di una condotta sostanzialmente (anche se non tecnicamente) “appropriativa”. La situazione di incapienza è frutto di una scelta deliberata e gli elementi della pur discutibile fattispecie sembrano

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pienamente integrati. Naturalmente si tratta di evenienza diversa da quella di una de- stinazione a profitto proprio delle somme che dovevano essere versate alla scadenza fiscalmente rilevante, ma accompagnata dalla ragionevole convinzione di poterne di- sporre in ugual misura al momento della scadenza del termine penalmente significa- tivo. Ponendosi qui il tema dell’accertamento dell’“eventuale dolo eventuale” (confi- gurabile solo nei termini già ricordati).

Nel secondo caso, ci si trova invece in presenza di un vero e proprio “conflitto di doveri”30 che non può però essere qui risolto su base normativa. Il soggetto tenuto al versamento dell’iva deve decidere tra destinare le somme all’adempimento del do- vere contributivo o utilizzarle per salvare l’azienda e i posti di lavoro dei dipendenti (più difficilmente il problema si porrà in presenza di rischi di “dissolvimento” dell’at- tività professionale in ragione della elevatezza delle soglie quantitative di punibilità).

Che sussista per l’imprenditore anche un dovere di salvaguardare l’integrità del patri- monio aziendale è infatti fuor di dubbio. Non solo perché è funzionalmente correlato alla libertà di iniziativa economica (art. 41 Cost.) e alla tutela dei lavoratori (art. 35 Cost.), ma anche perché lo si può agevolmente ricavare da tutta una serie di norme sia del codice civile, sia del “nuovo” codice della insolvenza e della crisi di impresa (D.lgs.

12.01.2019, n. 14) che considera la sopravvivenza dell’impresa come valore socio-eco- nomico da tutelare nel massimo grado possibile, nell’interesse stesso della comunità sociale, configurando un vero e proprio percorso vòlto, quando possibile, al pieno re- cupero delle residue energie dell’impresa in crisi. Dovendosi altresì tenere conto dei

“vantaggi compensativi” che la conservazione in vita dell’impresa possono essere con- seguiti dalla stessa amministrazione finanziaria: se l’impresa sopravvive continua a produrre reddito tassabile e transazioni soggette ad iva.

È indubbiamente proprio questa l’ipotesi di più tormentata soluzione, risolta re- centemente in senso positivo da una sentenza della Corte di Cassazione (Sez. III, n.

42522 del 5.06.2019, dep. 16.10.2019), che, nel rigettare il ricorso del Procuratore Ge- nerale osserva che la Corte territoriale aveva rilevato che la scelta dell’imputato (la cui società si trovava in una crisi finanziaria che egli aveva tentato di fronteggiare anche ricorrendo a risorse personali) di provvedere al pagamento di dipendenti e fornitori era avvenuta nella prospettiva di garantire la continuità aziendale. Condotta sorretta dalla convinzione che la prosecuzione dell’attività d’impresa avrebbe consentito di

30 Sul tema, nei suoi profili generali, v., in modo esemplare, F. VIGANÒ, Stato di necessità e conflitto di doveri, Milano, 2000, part. p. 485 segg.

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ottenere ricavi e utili da destinare al pagamento dell’imposta, con conseguente dubbio sulla effettiva sussistenza del dolo31.

Il conflitto di doveri è situazione che certamente richiede un delicato bilancia- mento, la cui soluzione è inevitabilmente lasciata all’apprezzamento del Giudice nel caso concreto. Il giudizio di “prevalenza” non può infatti all’evidenza risolversi in base al bilanciamento di indici normativi in grado di orientare la scelta verso la prevalenza dell’uno o dell’altro. Né sembra possibile un “contemperamento” (da operare pur sem- pre in via giurisprudenziale) come è accaduto quando si è trattato di costruire i limiti alla libertà di manifestazione del pensiero con riguardo alla tutela dell’onore e della re- putazione. Non si tratta, infatti, qui di garantire l’esercizio di un diritto scaturente dalla norma (o dal complesso di norme) prevalente, ma l’adempimento di un dovere (quello di salvaguardare la sopravvivenza dell’attività imprenditoriale e dei diritti, anche di terzi, che vi sono connessi) che entra in conflitto con un altro dovere (quello del paga- mento delle imposte), entrambi di rilevanza costituzionale ed in relazione ai quali non è possibile reperire indici sicuri di gerarchia. Ancorché la giurisprudenza, salvo ecce- zioni, sia orientata verso la prevalenza del secondo, pur senza offrirne alcuna motiva- zione convincente, anzi ritenendo risolto il conflitto in base alla stessa norma incrimi- natrice, con tipica inversione metodologica, la questione non è affatto da ritenersi chiusa. Tanto per intenderci: non viene dunque in rilievo un limite scriminante32, ma semmai un limite di colpevolezza riconducibile alla categoria delle scusanti33. Categoria con la quale la nostra giurisprudenza – come già sottolineato - non ha per vero molta

31 Sentenza commentata negativamente da L. GIANZI - A.P. CASATI, Crisi di liquidità e omessi versamenti IVA, in www.cdpt.it, 4.12.2019. Del resto, la giurisprudenza della Cassazione, proprio sullo specifico punto, sembra orientata nel senso che debba sempre darsi prevalenza all’obbligo di versa- mento dell’IVA: cfr. Cass., Sez. III, n. 35900/2017 (“nel sanzionare penalmente l’omesso versamento dell’IVA il legislatore ha inteso anteporre il versamento stesso a qualsiasi altra scelta imprenditoriale – pagamento di stipendi, fornitori, pregressi debiti erariali – privilegiando quindi il pagamento dell’IVA, scelta che risponde a criteri di priorità – non sindacabili in questa sede e che non viola norme di rango costituzionale”); Cass. 52971/2018.

La tesi della sentenza citata nel testo è invece condivisa, ad es., da S. TUCCELLA, Crisi di liquidità aziendale: tra criticità giurisprudenziali e aperture legislative, in GT – Riv. giur. trib., 2019, p. 145.

Propendono per l’assenza di dolo in ipotesi del genere anche L. TROYER - A. INGRASSIA, I delitti di omesso versamento ai tempi della crisi e le (as)soluzioni giurisprudenziali, “Tout comprendre c’est tout pardonner”, Riv. dott. comm., 2013, p. 977.

32 Come accade quando, dal coacervo delle norme confliggenti, emerge nitidamente il dovere pre- minente. Sul punto, v., ancora, F. VIGANO’, Conflitto di doveri, cit., p. 519 segg. Errato sarebbe dunque anche solo prospettare la soluzione incentrata sull’esercizio di un diritto.

33 La sentenza sopra citata che ha valorizzato questa prospettiva propende invece per la mancanza di dolo.

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dimestichezza e che comunque non garantisce certo uniformità di trattamento, poiché incentrata sulla umana inesigibilità di un comportamento diverso che non necessaria- mente deve ritenersi riscontabile nel caso che la volontà si sia formata in condizioni di particolare “drammaticità”, ma inevitabilmente richiede un apprezzamento di come il conflitto di doveri sia stato “vissuto” nel caso concreto e che può essere condizionato perfino dalle “sensazioni,” dalla “cultura” e, in fondo” anche dal “vissuto” del Giudice stesso. Diventa in definitiva una scelta ispirata ad umana equità.

7. Considerazioni conclusive

Anche da quanto abbiamo appena detto ritengo emerga la necessità di un inter- vento abrogativo della Corte costituzionale. Un intervento abrogativo del Legislatore non sembra invece seriamente ipotizzabile. Men che mai sembra pronosticabile un intervento modificativo della norma che la ristrutturi in una ipotesi di insolvenza preordinata o simulata o che, quanto meno, inserisca nella fattispecie il requisito del dolo intenzionale, che almeno contribuirebbe a mitigarne l’assurda severità. Se il leit- motiv che ispira l’attuale Governo-Legislatore è quello che emerge dalla recente

“spazza-evasori” (così può etichettarsi la legge n. 157 del 2019) le speranze di una re- sipiscenza che conduca ad una razionalizzazione della legislazione penale tributaria sono ormai destinate a rimanere a lungo deluse.

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