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390/2021 Il gesto fenomenologico

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390

giugno 2021

Il gesto fenomenologico

Pier Aldo Rovatti Il gesto fenomenologico 3 MATERIALI

Enzo Paci “Il selciato sul quale cammino…”

(8 gennaio 1958) 16

Enzo Paci Epoché (1963) 19

Francesco Stoppa A mani vuote 22 Mario Colucci Camminare sul ghiaccio 37 Beatrice Bonato Inattualità della sospensione 48 Raoul Kirchmayr L’epoché come sovversione

e la torsione del tempo 65 Giovanni Leghissa Dalla scienza rigorosa

al diario 84

Pierangelo Di Vittorio Ciò che è ovvio

troviamolo strano. Percorsi fenomenologici 96 Nicola Gaiarin Il gesto che non finisce 112 Damiano Cantone Sospensione e suspense 127 Graziella Berto Il segreto della responsabilità 136 Alessandro Di Grazia L’esercizio dell’attenzione 146 Antonello Sciacchitano Husserl e il soggetto

della scienza 163

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rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti

redazione: Sergia Adamo, Mauro Bertani, Beatrice Bonato, Deborah Borca (editing, deborah.borca@gmail.com), Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Alessandro Di Grazia, Pierangelo Di Vittorio, Nicola Gaiarin,

Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Andrea Muni, Massimiliano Nicoli, Marco Pacini, Ilaria Papandrea, Pier Aldo Rovatti, Massimiliano Roveretto, Antonello Sciacchitano, Francesco Stoppa, Stefano Tieri, Carla Troilo, Davide Zoletto direzione: c/o il Saggiatore, via Melzo 9, 20129 Milano sito web: autaut.ilsaggiatore.com

ISSN: 0005-0601

collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, P. Barone, G. Berto, L. Boella, S. Borutti, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, R. De Biasi, M. Ferraris, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, F. Jullien, J.-L. Nancy, F. Polidori, A. Prete, R. Prezzo, G. Scibilia, G.C. Spivak, G. Vattimo, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek per proposte di pubblicazione: autaut@ilsaggiatore.com

Si fa presente che “aut aut” non pubblica recensioni e non accetta testi di ampiezza superiore a 40.000 battute (note e spazi compresi).

il Saggiatore S.r.l.

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Registrazione del Tribunale di Milano n. 2232 in data 13.1.1951 Proprietà: Francesca Romana Paci

Stampa: Galli Thierry, Milano

Spedizione in abbonamento postale 45% art. 1, comma 1, decreto legge 353/03 convertito in legge 46/04 – Filiale di Milano.

Finito di stampare nel maggio 2021

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Il gesto fenomenologico

PIER ALDO ROVATTI

E cco il bivio filosofico che “aut aut” ha af- frontato fin dalla sua nascita, nel lontanis- simo 1951. La strada scelta dal suo fonda- tore, Enzo Paci, è ancora la nostra: le difficoltà di quella scelta, dopo il ventennio fascista e dopo il trauma della guerra mondiale, non sono comparabili con quelle di oggi, eppure il bivio è ancora lo stesso. Si tratta, oggi come ieri, di scegliere tra una filosofia di tipo istituzionale e un pensiero legato alla vita quotidiana di ciascuno:

tra una “visione del mondo” provvista di una propria verità e un

“gesto” capace di caratterizzare le pratiche nelle quali siamo tutti coinvolti e impegnati. L’aggettivo “fenomenologico” orienta questo gesto, gli fornisce qualità e movenze, perciò è importante. Occorre quindi tentare di precisarlo, capire bene come ci affidiamo a esso senza però pretendere di padroneggiarlo attraverso un sapere.

La distinzione tra una Filosofia (con la maiuscola) e una filoso-

fia (con la minuscola) ci può mettere sulla strada segnalando che

è in gioco un abbassamento e indicando così l’incontro che può

avvenire (ed è registrabile nelle pagine di “aut aut”) tra vocazio-

ne fenomenologica e pensiero debole. Ma bisogna approfondire il

senso e le conseguenze di questo “indebolimento” della Filosofia,

che implica anche un confronto con la fenomenologia stessa intesa

come sistema di idee e ci mostra con evidenza il passaggio da un

sapere organizzato a uno “stile” di pensiero, appunto a un gesto di

tono “etico” che non è una conseguenza della teoria ma la precede

e viene presupposto in ogni atto conoscitivo.

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Vorrei dire – chiedendo scusa agli studiosi – che un’immer- sione nell’opera di Husserl e nella costellazione di pensieri che la accompagna, facendone un evento decisivo del Novecento, è una premessa necessaria ma non sufficiente al gesto fenomenologico.

Se posso aggiungere un tratto personale, da cui ho capito la mia reticenza di fronte alle reiterate sollecitazioni di provare a scrive- re una monografia su Husserl: mi sembrava di fare un passo fal- so, così ogni volta mi sono arenato. Credo che ogni lavoro “acca- demico” (diciamo così) su Husserl corra il pericolo di mancare il bersaglio, se allo studio non si connette fin dall’inizio quel modo particolare di esperienza o di impegno che la parola “gesto” deve veicolare. La fenomenologia rischia infatti di restare un oggetto di ricerca filosofica come tanti altri se si dimentica questo tratto che investe, al di là dello studioso, il soggetto nella sua esperienza complessiva.

Nessuno può considerarsi indenne rispetto a una sorta di en- tropia dello studioso: ognuno tende, in misura maggiore o mino- re, a slittare su questo piano inclinato, per indossare i panni più rassicuranti del commentatore, ma se vogliamo interpretare e con- dividere almeno un poco il gesto fenomenologico dobbiamo im- pegnarci nella risalita, per quanto ci è possibile. Il che significa, a mio parere, cercare di misurarsi in maniera non ovvia con alcu- ne delle parole (e delle indicazioni) chiave che ci provengono da Husserl stesso, a cominciare da quell’immer wieder che tendiamo spesso a dimenticare o a sottovalutare.

Al contrario, il sempre di nuovo è una delle principali com- ponenti del gesto fenomenologico perché ne manifesta esplicita- mente quella tonalità che dovrebbe tradursi in un atteggiamento di costante dubbio per cui nessun raggiungimento, compresa una consapevolezza di sé stessi, è definitivo.

Dovremmo riuscire ad ascoltare ogni volta questa esigenza di

“retroscendere” (come direbbe Lévinas), cioè la necessità di un contromovimento che attutisca il continuo riprodursi della nostra

“volontà di sapere”. Occorre sapersi fermare prima che la coppia

sapere/potere prenda il sopravvento nella nostra corsa verso la co-

siddetta “verità scientifica”. (A volte rifletto su come sia inganne-

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vole l’espressione husserliana strenge Wissenschaft, scienza rigoro- sa, mentre il gesto fenomenologico risulta paradossalmente tanto più “rigoroso” quanto più si contrappone all’inerzia di qualunque logica con il mettere al primo posto la tonalità che sto cercando qui di indicare.)

Associo dunque la tonalità del gesto fenomenologico all’“etica”, ma lo faccio non senza una perplessità che esprimo con le virgo- lette. Infatti, il carattere non conclusivo di questo gesto deve ri- flettersi nell’intenibilità dell’etica stessa nella sua abituale pratica categoriale: se parliamo di etica, come accade quando cerchiamo di passare da un sapere-oggetto a un saper-fare o addirittura a un saperci fare, dobbiamo mettere tra parentesi qualsiasi idea di etica maggiore (alla quale si collega tutto il vocabolario della “morale”

e dei “doveri”) e servirci invece di quella contraddizione in termi- ni che è un’etica minima.

Come può un’etica essere minima? Eppure il gesto fenomeno- logico, nella sua forma di tonalità, non può che retroscendere ri- spetto a ogni etica massima (cioè normale): tuttavia, nel momento in cui produce un simile movimento, dà un’indicazione di com- portamento che dovrà essere minima, svuotata il più possibile di ogni presunzione di precetto.

Ho appena chiamato in causa la più nota e discussa tra le mos- se fenomenologiche, la famosa epoché, nella sua versione filosofica più famigliare, il “mettere tra parentesi”. Si tratta del nucleo prin- cipale del gesto di cui stiamo parlando, trasmigrato dalle pagine di Husserl a molte pratiche culturali contemporanee, al punto da presentarsi come la più cospicua eredità che abbiamo ricevuto dal- la fenomenologia. Se ne è parlato molto dentro e fuori dal terre- no specifico della filosofia. La vicenda della ricezione dell’epoché è nota, dai fraintendimenti filosofici iniziali (complici personaggi di spicco come Heidegger e lo stesso Lévinas) fino ai rilanci più attuali al di fuori della filosofia: un esempio significativo è l’espe- rienza di Franco Basaglia.

Osservo in proposito che l’equivoco gnoseologico (l’epoché ap-

partiene solo alle tecniche ristrette del conoscere) è stato superato

da tutti coloro che hanno capito bene (come nel caso di Enzo Paci)

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“Il selciato sul quale cammino…”

ENZO PACI

8 gennaio 1958

Il selciato sul quale cammino… La durezza, la compattezza, l’im- penetrabilità delle cose. Per il filosofo, per l’uomo che vive nel filosofo, tutto questo può diventare enigmatico, diventa enigma- tico. Tutto: la città, la propria casa, il tavolo sul quale lavora. E tutti gli eventi nei quali vive e le persone. Sono lì. Ma in qualche modo io nego gli eventi e le persone e le cose. Questa negazione è fondamentale. Non posso negare quello che c’è, non posso nega- re il mondo nel quale vivo. Eppure dico di no. Non accetto l’im- penetrabilità, l’opacità delle cose. Dire di no è, fenomenologica- mente, “porre tra parentesi”, esercitare l’epoché, la sospensione del giudizio.

Mi trovo in una strana situazione quando il mondo l’ho po- sto tra parentesi. È ancora come era, ma io lo guardo, lo sento, lo

“sperimento” in un altro modo. Il mondo? Non il mondo, ma gli aspetti particolari del mondo che tocco, che vedo, che odo. Sono al centro di infinite prospettive, sono un punto nel quale si incro- ciano infinite linee che mi attraversano e da ogni parte scompaio- no nell’infinito. Sono io, il soggetto, un centro di infinite relazio- ni. Ma tutte queste linee, tutte queste relazioni, tutto ciò che toc- co, che guardo, che odo, tutte le cose, e gli esseri viventi, le piante, gli animali, gli uomini, sono come sospese, in attesa. Le sento, le guardo, con stupore infinito. Non soltanto come se fosse la prima

Tratto da E. Paci, Diario fenomenologico, il Saggiatore, Milano 1961; nuova edizione, Ortho tes, Milano 2021, pp. 42-44.

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volta che le vedo. È un’esperienza più forte, più profonda. L’albero non vive più nell’aria, si è cristallizzato, e con l’albero tutto. Atten- de. Esiste nell’attesa. Non ha più un significato ovvio, quotidiano.

Il suo significato devo darglielo io. Io, il soggetto, sono colui dal quale il mondo attende il suo senso, il suo significato, il suo scopo.

Sono lo strumento per mezzo del quale il mondo può diventare vero, può trasformarsi in verità. Devo, allora, vederlo come appa- re a me, devo descriverlo, farlo diventare rivelazione, fenomeno.

Il mondo è là: è stato creato, si diceva. Il mondo è là e finora io credevo che fosse naturale, che fosse ovvio il suo essere là. Ora so che questo suo essere là è oscuro, enigmatico, coperto. Il mio no è il no a un mondo senza significato per me, anche se ha avu- to significato per altri, anche se il suo terreno porta le tracce dei passi altrui ed è carico delle sedimentazioni degli innumerevoli si- gnificati che ha avuto per gli altri. Ma questi significati sono cri- stallizzati, dormono. Devo risvegliarli. Per risvegliarli devo dire di no a tutto ciò che dorme, che è oscuro, nascosto. Devo risvegliare me stesso, diventare sveglio come finora non sono mai stato. Ri- trovare in me e nel mondo che sgorga da me la sorgente di tutti i significati. Il mondo nasce in me, nasce in me per la prima vol- ta, perché per la prima volta lo sento significativo. Sono vivo nel- la vita desta, nel Wachleben, come dice Husserl. D’ora in avanti, in me, e negli altri che vegliano con me, che operano con me, il mondo sarà trasformato in mondo vero. Questa verità mi supera, mi appare come un’idea infinita alla quale continuamente cerco di avvicinarmi. Così ho compiuto una rivoluzione. Ciò che era là, il mondo che era già là, è ora davanti a me: non è più un mondo già fatto ma da fare. È diventato un compito, un fine che dà si- gnificato alla vita, alla mia vita e a quella degli altri. L’epoché mi ha fatto scoprire una vita che va al di là di ciò che ho già vissuto, una vita che continuamente si supera, che sempre si trascende tra- sformando il già fatto in un compito, in un significato di verità.

Questa vita nella quale davvero vivo è la vita intenzionale. L’inten-

zionalità risolve continuamente l’oscuro e l’impenetrabile in una

chiara visione, in un orizzonte significativo, in una forma essen-

ziale della verità. Non è dunque la ricerca dell’essere, di un essere

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Epoché

ENZO PACI

S i dice che è una parola di moda ma non si sa cosa significa. Epoché vuol dire sospen- sione del giudizio, intendendo per giudizio il pregiudizio. È un atteggiamento, un esercizio, un metodo. Non è disinteresse per il mondo ma volontà di non lasciarsi imprigio- nare dal mondano in nome della verità che deve guidare ogni atto umano per la trasformazione dell’uomo e del mondo. Conduce così poco alla contemplazione che Husserl la definisce come una

“nuova volontà di vita”.

1

L’epoché sospende i pregiudizi mondani. L’epoché trascenden- tale ci riduce al nostro io, proprio a quell’io che è ognuno di noi e che si scopre, in prima persona, responsabile della guerra. È di- soccultante. Ci pone di fronte alle cose stesse che si svelano, si ri- velano, diventano fenomeni (dalla radice fan, per cui Husserl par- la di fansis).

Il punto importante è questo: il mondano non può dirci nulla di fondato. Ciò che è fondato non lo è mai per sentito dire, ma è tale in rapporto alla nostra esperienza diretta e originaria.

Come principio metodico l’epoché è usata da Husserl ogni volta che l’analisi deve essere allargata e approfondita. Per esempio: se io voglio capire qual è il mio vero rapporto con gli altri, sospendo

Pubblicato per la prima volta su “aut aut”, 74, 1963, pp. 108-109; poi ripreso in Il senso delle parole 1963-1974, a cura di P.A. Rovatti, Bompiani, Milano 1987, pp. 30-32.

1. E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (1959), trad. di E. Filippini, il Saggiatore, Milano 1961, p. 499.

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il giudizio su tutto ciò che, nell’atteggiamento mondano e comune, è altro da me. Scopro così ciò che è mio proprio. E, nel proprio, ritrovo come io, in modo autentico e non mondano, ho esperienza dell’altro e, infine, come l’altro ha un’esperienza, nel suo proprio, di quell’altro che per lui sono io.

Se voglio scoprire il fondamento della matematica comincio a sospendere il giudizio su ciò che credo di sapere della matema- tica e scopro come io stesso e gli altri operiamo quando “faccia- mo” della matematica. Come si può vedere anche nel mio saggio

2

pubblicato in questo numero di “aut aut”, Husserl parla perfino di un’epoché professionale. Come professionista sospendo il giudizio su tutto ciò che è altro dal mio lavoro. È nel mio lavoro che dovrò ritrovare ciò che mi congiunge al lavoro di tutti. Quando sospen- do il mio giudizio sul lavoro altrui non rinuncio a essere uomo come sono uomini gli altri. Non sono soltanto un operaio, un me- dico o un professore: non mi identifico con la mia professione.

Prima di tutto sono un soggetto umano. Analogamente l’epoché trascendentale mira a farmi ritrovare come uomo radicale e come uomo che esperisce le cose alla radice. Posso non cominciare dal- la mia esperienza diretta? Che me ne renda conto o no, lo faccio sempre. La mia esperienza in prima persona, ciò che esperimento e vedo, è un’esperienza apodittica e cioè non può non essere quello che è. Nessun sistema filosofico e nessuna ideologia può far sì che io non percepisca e non veda come percepisco e vedo. E possibile però che io non riconosca di vedere quello che vedo e l’epoché mi deve liberare da tutto ciò che mi impedisce di riconoscere proprio quello che vedo.

Riconoscere quello che vedo, che per me è evidente, mi con- duce, in ogni campo, a una radicale autoresponsabilità. Lo Stato è dell’uomo e non il contrario. Nessuna istituzione si può sostitui- re all’uomo. La stessa cosa vale per la scienza, per l’arte, per ogni praxis. Se gli uomini tornano a se stessi possono agire liberi dai pregiudizi. La filosofia stessa, la filosofia in quanto fenomenologia,

2. Cfr. E. Paci, La psicologia fenomenologica e la fondazione della psicologia come scien- za, “aut aut”, 74, 1963, pp. 7-19.

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A mani vuote

FRANCESCO STOPPA

Q uel pomeriggio la seduta con Paolo sta- va prendendo una piega particolarmen- te drammatica. Diversamente dal solito, non gli riusciva di contenere in brevi allusioni il peso dell’angoscia che si porta addosso; del suo dolore di esistere, a partire dal fatto, naturalmente, di avere un corpo.

A diciotto anni, crocevia esistenziale in cui l’età anagrafica non è mai perfettamente sincronizzata su quella psicologica, il soggetto ha modo di misurare quanto gli stiano stretti i panni dell’adulto nei quali dovrebbe calarsi. Nel dire di sì alla nuova condizione, non è così facile “fare come se” e affidarsi ciecamente al potere di un in- visibile e provvidenziale automatismo evolutivo. Spesso basta un niente, un ultimo sussulto della crisi adolescenziale, perché le cica- trici riprendano a sanguinare e quel corpo ancora in cerca d’autore si riscopra esposto alla disarmonia delle forme e dei vissuti.

Nel caso di Paolo, il richiamo dell’incipiente status di adulto si è da tempo fatto troppo insistente, al punto che anche andare in palestra tutti i giorni nell’attesa di veder lievitare i propri musco- li non sembra risolvere l’enigma di cosa significhi essere un uomo.

Il fatto è che il problema dell’identità sessuale ne cela un altro più

antico e ben più penoso, così che l’incertezza a proposito della pro-

pria virilità finisce per spalancare l’abisso di una ben più inquietan-

te perplessità relativa alla propria stessa consistenza umana. Cosa

che si fa drammaticamente vera in quei momenti nei quali lo spec-

chio gli rimanda un’immagine di sé deformata, a tratti perfino in-

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forme; una figura inquietante che gli si para davanti ogni qual volta Paolo cercherebbe invece il conforto di un sembiante sufficiente- mente rassicurante, capace di arginare quella percezione di fram- mentazione che sempre più spesso lo assale dall’interno. Cosa ne è di lui, lì alle soglie dell’età adulta, alle prese, almeno teoricamen- te, con un passaggio decisivo ai fini della propria umanizzazione?

Una domanda lacerante che nel suo caso crea uno iato incolmabile tra l’immagine attesa e quella forma ibrida che si staglia sulla su- perficie dello specchio, nella quale i tratti dell’umano sembrano sul punto di essere sopraffatti da quelli di un essere alieno o in procin- to di assumere connotati quasi animaleschi.

Nelle situazioni come quella del mio giovane paziente, la natu- rale deriva soggettiva tipica dell’età adolescenziale, che vede il sog- getto alle prese con la rivisitazione e il rimaneggiamento dei propri ideali e delle proprie identificazioni, non trova modo di ricompor- si. L’emorragia identitaria che ne deriva non segnala, come verreb- be da credere, l’assenza di un modello cui aderire, ma al contrario la presenza, a livello del discorso familiare, di un modello del tut- to astratto, ideale e acritico, di maturità; di cosa, nella fattispecie, dovrebbe essere o fare una persona adulta. Come se un miraggio di piena padronanza della realtà, rinvigorito da un’immagine di prestanza psicofisica a tutto tondo, potesse surrogare la comples- sità e i chiaroscuri di quella che è la reale – e mai raggiungibile una volta per tutte – condizione adulta. È contro questo muro di sostanziale mistificazione della realtà dei fatti che va a infrangersi la già in sé zoppicante rinegoziazione con la vita operata dall’ado- lescente; contro un’idea, in altre parole, irricevibile e inabitabile di maturità che, nel caso del maschio, tende, ovviamente, a enfa- tizzare la prestanza fallica.

Tutto questo non permette al giovane di sviluppare un pro- prio immaginario relativo alla condizione adulta che lo attende.

Di escogitare un modo originale, nei limiti del possibile, di indos- sare i panni dell’uomo o della donna. È come se non gli riu scisse di trovare, per dirla con Pier Aldo Rovatti, la “chiave di violino”,

1

1. P.A. Rovatti, Il gesto fenomenologico, in questo fascicolo.

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Camminare sul ghiaccio

MARIO COLUCCI

Q uello che ricordo quando da studente in clinica psichiatrica ho iniziato a incontra- re persone con un disturbo mentale è la curiosità che provavo per le loro storie. Prestavo la massima atten- zione ai discorsi che ascoltavo nel tentativo di recuperare un filo di logica in quei racconti sfibrati dalla malattia. Chiedevo loro lo sforzo di rendere l’eloquio accessibile, di entrare nella logica del- le mie domande perché ero convinto che quella fosse la logica del mondo. Le persone amavano essere ascoltate e quindi si creava un clima di collaborazione. Non per questo cedevano sul loro delirio, né io cedevo sul chiedere certezze, quelle che immaginavo di tro- vare alla fine di un percorso di reciproca comprensione. Non te- mevo le manifestazioni eclatanti e oscure della malattia, quelle su cui la psichiatria ti mette in allarme, e finivo per scambiare questa mancanza di soggezione come attitudine innata alla professione.

Solo a distanza di anni ho capito che forse cercavo di rassicurar- mi, nascondendo l’affetto di angoscia, inevitabile nell’esperienza di incontro con la sofferenza mentale, dietro una comunicazione spontanea. Un dialogo aperto e trasparente, non compromesso dal timore di una reazione dell’altro, quando questo sia sospettato di essere imprevedibile e bizzarro, resta fondamentale. Purché, tutta- via, non siano imposti discorsi di normalità e si sia capaci di tacere al momento giusto.

Oggi, quando mi trovo di fronte a una persona che sta male e

mi accorgo di non riuscire a venirne a capo, quando questa cerca

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di comunicarmi il suo dolore di vivere e ciò che ascolto mi disarma di tutto il mio sapere, che all’improvviso mi appare misero e insuf- ficiente, quando non so più che cosa fare o come intervenire, allora scelgo il silenzio. Non significa semplicemente che sto zitto e lascio parlare l’altro. Piuttosto faccio spazio al silenzio dentro di me. So- spendo le parole e il sapere consueto che mi balena nella mente, chiudo il serbatoio dell’esperienza professionale per non attingere più alle risposte già date, quelle a portata di mano – una spiegazio- ne razionale, un farmaco efficace, un progetto di riabilitazione – e mi addentro nel silenzio, come in un territorio inesplorato. Prendo tempo. Esito. Attendo, quando è possibile, che qualcosa si riveli da parte dell’altro. Lascio avanzare i minuti con una postura che sia al tempo stesso disattenta e concentrata, che fluttui sul discor- so dell’altro ma che sia rapida a precipitarsi in picchiata sul detta- glio che stride, sul rumore insolito nel flusso delle parole, sul pas- so falso, sullo scalpiccio che spezza il ritmo dell’andatura verbale.

Non so se questa sia la sospensione tipica dell’epoché, certo le assomiglia. Mettere tra parentesi la verità sul mondo più che un’opzione appare una necessità. Per non essere travolti dalla mo- notonia di una scena che si ripete, dalla consuetudine di ciò che si sa sulla malattia e dal rapido installarsi davanti agli occhi di uno schema logoro di idee e di gesti reiterati che inquadra quella per- sona lì – quel Paolo, quella Marta – come “uno psicotico”, “una depressa”, perfettamente allineati nella schiera anonima degli psi- cotici e dei depressi, ebbene bisogna sostare sulla soglia delle pa- role della psichiatria, non pronunciarle, magari non pensarle: le definizioni, le diagnosi, le classificazioni…

Di fronte a Paolo e a Marta, alla loro angoscia, bisogna saper

aspettare e trovare una pausa di silenzio, un tempo di incertezza,

in cui sei senza aiuto, con il passo bloccato, come di primavera sul

ghiaccio sottile: avverti all’improvviso il segnale che qualcosa sta

accadendo, una crepa che ne preannuncia la rottura, e senti mon-

tare un sentimento ambiguo sospeso tra il sollievo per la stagio-

ne fredda che muore e l’inquietudine perché su quella lastra stai

camminando. L’angoscia di Paolo, l’angoscia di Marta, si riverbe-

rano nella tua, ma non sono la tua. Per quanto possa crearsi una

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Inattualità della sospensione

BEATRICE BONATO

P ur con qualche esitazione, vorrei qui torna- re a riflettere su una parola a cui sono af- fezionata, che ha un evidente, seppure non ovvio rapporto con il gesto fenomenologico. Sono sempre più con- vinta che la parola “sospensione” nomini una possibilità del pensie- ro e dell’atteggiamento pratico di cui il nostro tempo dovrebbe sen- tire l’urgenza. Anche se, a giudicare dall’orientamento di tanti pro- cessi in corso oggi, nell’economia, nella tecnologia, nella società, si direbbe che rilanciare la sospensione sia un’operazione anacro- nistica, in totale contrasto con la tendenza prevalente. Sospendere la corsa competitiva nella vita, nel lavoro, nelle relazioni personali, nella costruzione della nostra soggettività,

1

suona come una propo- sta inattuale. Dunque una proposta vana, priva di interesse? Non lo credo: penso anzi che il segno dell’inattualità, in quanto si ri- volge oltre l’orizzonte del presente, possa essere interpretato quasi come un pregio. L’inattuale, il più distante dalle categorie e dai va- lori correnti, si rovescerebbe allora nel più attuale, così attuale che arriva persino troppo tardi, come ammoniscono oggi i pensatori più sensibili alla sfida ecologica. Mi pare significativo che Bruno Latour usi proprio il termine “sospensione” per indicare una se- rie di “gesti barriera” volti a contrastare la distruzione del pianeta.

2

1. È quanto suggerivo in Sospendere la competizione. Un esercizio etico, Mimesis, Mi- lano-Udine 2015.

2. “Ciò che rende la situazione attuale così pericolosa non sono solo le morti che si accumulano ogni giorno di più, ma è la sospensione generale di un sistema economico

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Della sospensione mi interessa soprattutto cogliere la colori- tura etica, intenderla cioè come un esercizio le cui implicazioni sono molteplici: esso unisce infatti il distanziamento teorico e pra- tico da determinati paradigmi interpretativi e performativi del- l’esistenza, l’esigenza di mettere a fuoco, quindi di comprende- re meglio, le presupposizioni sulle quali essi trovano appoggio, il proposito, infine, di disattivarne la potenza e di rendere visibili e concepibili forme di vita non competitive, non agonistiche. Con un certo azzardo, nel testo sulla competizione, avvicinavo questa pluralità di sensi all’epoché husserliana, leggendovi quel significa- to etico su cui Pier Aldo Rovatti, in continuità con Enzo Paci, ha in diversi momenti insistito.

3

Credo che esso sia quanto di più pre- zioso si possa trovare nell’esercizio dell’epoché.

Il nesso che teniamo a stabilire e a mantenere stretto tra quel significato e una prospettiva etica concreta non è affatto ovvio, e va perciò nuovamente giustificato. Che ruolo gioca, infatti, l’epoché nell’economia del progetto di Husserl? Non si tratta forse di un passo metodologico preventivo di neutralizzazione di ogni creden- za e pre-giudizio, la cui funzione ultima è quella di far guadagnare al filosofo un campo purificato di evidenze, sulle quali fondare una scienza rigorosa? E non è questo un progetto squisitamente teorico, ispirato a un’idea di scienza che, seppure ben diversa dalle scienze naturali, condivide con queste ultime l’aspirazione alla purezza e al disinteresse? Come è possibile conferire alla fenomenologia una

che offre, a coloro che vogliono andare molto più lontano nella fuga fuori dal mondo planetario, una meravigliosa opportunità per ‘rimettere tutto in discussione’” (B. Latour, Immaginare gesti-barriera contro il ritorno alla produzione pre-crisi, 9 aprile 2020, antino- mie.it/index.php/2020/04/09/immaginare-gesti-barriera-contro-il-ritorno-alla-produzio- ne-pre-crisi/). Si veda anche il contributo di Francesco Remotti, “Sospensione, acceca- mento, Antropocene”, in M. Aime, A. Favole, F. Remotti, Il mondo che avrete. Virus, An- tropocene, Rivoluzione, UTET, Milano 2020. L’obiettivo dell’argomentazione di Remotti è quello di mostrare come una periodica sospensione del ritmo abituale dell’attività produt- tiva sia necessaria alle civiltà umane. Non è l’unico elemento di interesse presente nel sag- gio: altrettanto significativo è il fatto che l’epoché filosofica – sebbene solo nella sua origine scettica e senza riferimenti alla fenomenologia – vi sia convocata insieme a quella antropo- logica, come necessario esercizio preliminare per inoltrarsi in un campo nuovo del pensie- ro e della ricerca (cfr. ivi, pp. 20-22).

3. Cfr. P.A. Rovatti, Abitare la distanza. Per una pratica della filosofia, Raffaello Corti- na, Milano 2007, pp. 47-49.

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L’epoché come sovversione e la torsione del tempo

RAOUL KIRCHMAYR

Stile ed eccesso della fenomenologia

Esistono molti modi per isterilire un pensiero e spegnere quella fiamma della philosophia perennis che Merleau-Ponty, nella celebre premessa della Fenomenologia della percezione, aveva riconosciuto in Husserl e nel progetto della fenomenologia.

1

Tra essi, ne pos- siamo riconoscere due, che si sono consolidati costituendosi per- fino come patrimonio culturale e tradizione. Da essi discende un habitus intellettuale che contraddice quella pratica del pensiero che si fa “maniera o stile”

2

e che la fenomenologia ha incarnato, pure al di là delle intenzioni esplicite del suo fondatore. Il primo modo è di museificare il pensiero, consegnandolo alla galleria delle idee e irrigidendolo così in una maschera fissa che tradisce la fluidità del movimento che lo ha generato. La museificazione del pensiero è un’ulteriore, aggiornata, variazione sul tema della filosofia come

“filastrocca di opinioni” di Hegel o della “musica da organetto” di Nietzsche. Nel lessico della fenomenologia di Husserl essa assume le vesti della “mondanizzazione” del pensiero, della stanchezza e della perdita dell’intenzionalità. Nella galleria della filosofia, ormai fattasi digitale, i cammini di pensiero sono figurine, le opere sono supplementi di quotidiani e il pensiero è “comunicato”.

3

1. Cfr. M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione (1945), Bompiani, Milano 2003, pp. 12-15.

2. Ivi, p. 13.

3. E la creazione dei concetti, come lamentavano ironicamente Deleuze e Guattari, è faccenda dei “creativi”. Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia? (1991), a cura di C. Arcuri, Einaudi, Torino 2005, pp. XVI-XVII.

(17)

Il secondo modo di isterilire il pensiero è di tradurlo in formule che producono un sapere estrinseco, dando luogo a una gergalità scolastica la cui circolazione ristretta ha come obiettivo il ricono- scimento nella microfisica dei saperi settoriali. Le istituzioni della cultura, sempre meno pubbliche e sempre più private, richiedono schiene flessibili e spiriti adattabili. Scomparso il prestigio di cui ancora poteva fregiarsi il mandarinato intellettuale, in quelle con- trade dove esso esercitava una funzione prima dell’avvento del- l’one world neoliberale e della celebrazione della “fine della sto- ria”, le “filosofe” e i “filosofi” non sono che pallide figure di un mondo trascorso, a meno che non si siano tosto convertiti in “faci- litatori”, in “innovatori” e in “imprenditori di sé”.

4

Entrambi i modi perpetuano una tradizione che è tradimento.

Ma se c’è un tradimento che può sancire un legame di fedeltà al pensiero, in questo caso invece esso ne disconosce la vita. Il pen- sare si tramuta in “scuola” e apprendimento di habitus, il lavoro del linguaggio si tramuta in retorica usurata o simulazione, e la domanda è pretesto per l’astrattezza dei discorsi. Il pensiero si fa strumento. La stessa specializzazione settoriale della filosofia, di cui i gerghi sono l’espressione compiuta, sancisce quella che Hus- serl chiama “perdita del mondo” (Weltverlorenheit): essa non è che un altro aspetto della contemporanea desertificazione del senso.

Levigato dalle mole dei modernizzatori à la page fino a cancellarne le asperità, il pensiero viene così predisposto per la sua posterità mummificata, salvaguardata dai riti delle accademie. I “prodotti”

deperibili di un sapere feticizzato riempiono i depositi di carta da macero o occupano spazio di memoria nel mare dell’iper-visibilità della rete, prima di scomparire. Le distorsioni dell’accademismo

4. In generale, e sempre sulla scorta di un topos tradizionale, servirebbe una rinnova- ta antropologia della simulazione e del simulatore, per comprendere il movimento con- temporaneo di svuotamento dell’efficacia del pensiero filosofico e della proliferazione di figure di individui “prodotti” dalla valorizzazione di sé. Deleuze e Guattari avevano ben descritto il senso di questa trasformazione: “Il movimento generale che ha sostituito la Critica con la promozione commerciale non ha mancato di intaccare le filosofia. Il simula- cro, la simulazione di un pacco di spaghetti è diventato il vero concetto e il presentatore- espositore del prodotto, della merce o dell’opera d’arte, è diventato il filosofo, il personag- gio concettuale o l’artista” (G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, cit., p. XVII).

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Dalla scienza rigorosa al diario

GIOVANNI LEGHISSA

L e fenomenologia, in quanto tradizione fi- losofica, non gode di buona salute. Non si può dire che sia morta, ma sembra vivere solo nella forma del commento scolastico. Il che non si addice a un discorso filosofico che si pone, sin dai suoi esordi, come una pra- tica, un esercizio. Come tale, si presume che possa continuare in una forma che non è solo quella del commento dotto e accademi- co al corpus dei Maestri. Nella Krisis, Husserl sostiene che l’epoché, che costituisce la sola via di accesso alla fenomenologia, non è un atto puramente intellettuale, ma un atto che comporta una trasfor- mazione del soggetto che si incarica di attuarla.

Ciò che conta innanzitutto per la descrizione dell’epoché è il fatto che essa è un’epoché attiva, abituale, che ha i propri tem- pi e che in questi tempi viene compiuta attivamente, operati- vamente, mentre altri tempi sono dedicati ad altri interessi, al giuoco e ad altri lavori. […] Forse risulterà addirittura che l’at- teggiamento fenomenologico totale e l’epoché che gli inerisce sono destinati a produrre innanzitutto una completa trasforma- zione personale che sulle prime potrebbe essere paragonata a una conversione religiosa, ma che, al di là di ciò, è la più grande evoluzione esistenziale che sia concessa all’umanità come tale.

1

1. E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (1959), a cura di W. Biemel, trad. di E. Filippini, il Saggiatore, Milano 1983, p. 165 sgg.

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La dimensione pragmatica della fenomenologia, insomma, rende quest’ultima una forma di sapere un po’ speciale, perché nel nu- cleo stesso del suo porsi come teoria vi è un elemento che sfugge, per principio, alla presa teorica. In questo senso, si comprendono meglio le radici platoniche della fenomenologia. Melandri – che, al pari di Paci, ha ben mostrato cosa significhi continuare il lavoro di Husserl, anche con altri mezzi, pur restando dentro la fenomeno- logia – afferma che la teoria platonica delle idee non sarà mai una pura teoria. Nella Repubblica, infatti, si fa ricorso alla dialettica per spiegare ciò che non può essere davvero spiegato fino in fondo, con strumenti puramente concettuali, ovvero il rapporto tra ciò che accade nel mondo – i pragmata – e le idee, che, nella loro fissi- tà, non possono avere i tratti dell’evento. Che gli eventi del mon- do, immersi in un’irrimediabile contingenza, siano spiegabili (che possano essere cioè “salvati”) significa che essi in qualche modo non sono del tutto incommensurabili rispetto alle idee. Se gli uma- ni possono imitare le idee, costruendo quegli edifici di senso che sono le teorie, ciò significa che gli eventi del mondo partecipano alle idee. La mimesi presuppone dunque la metessi.

2

Ma per mostrare che questa funziona, che ha cioè un valore in sede teorica, si deve aver ammesso preliminarmente che le teorie sono anche immagini di ciò che accade nel mondo dei fenomeni.

I nessi che risultano plausibili all’interno della costruzione teori- ca sono supposti avere una qualche relazione con ciò che si osser- va e si esperisce nel mondo. Ma non nel senso di un isomorfismo tra idee e mondo, che sarebbe difficile da sostenere e giustifica- re. Bensì nel senso che quell’immagine del mondo che è la teoria contiene un’eccedenza di significazioni possibili rispetto al mondo – eccedenza che rende l’edificio teorico, per esempio nel caso della scienza post-galileiana, un sistema ipotetico-deduttivo, capace di andare al di là di ciò che si vede davanti agli occhi per poter pro- durre spiegazioni oggettive.

3

2. Cfr. E. Melandri, I generi letterari e la loro origine (1980), Quodlibet, Macerata 2014, p. 42 sgg.

3. Cfr. A. Ferrarin, Galilei e la matematica della natura, ETS, Pisa 2014.

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Ciò che è ovvio troviamolo strano.

Percorsi fenomenologici

PIERANGELO DI VITTORIO

La catastrofe del logos

La pièce di Brecht intitolata L’eccezione e la regola racconta la sto- ria di un viaggio, intrapreso da un ricco mercante per chiudere la trattativa di una concessione petrolifera. Tallonato dalla concor- renza, l’uomo è ossessionato dal bisogno di guadagnare tempo, e usa tutti i mezzi, dalla bruta coercizione alla più sottile mani- polazione, per spronare i suoi sottoposti. In un crescendo di dif- fidenza, il mercante prima licenzia in tronco la guida, poi uccide il portatore. Smarriti nel deserto, ormai allo stremo delle forze, quest’ultimo si era avvicinato al padrone per offrirgli un po’ della sua acqua; ma il mercante, accecato dalla paranoia, aveva scam- biato la borraccia per una pietra, e pensando che il portatore aves- se cattive intenzioni, lo aveva freddato con un colpo di pistola. La moglie della vittima aveva poi deciso di chiedere giustizia, e il caso era finito in tribunale. Dopo aver ascoltato le parti, il giudice aveva emesso la sua sentenza. Considerando del tutto ovvio che il por- tatore covasse un odio profondo nei confronti di chi lo sfruttava e lo vessava, e ritenendo altrettanto logico che il mercante, piutto- sto che immaginare un gesto di amicizia da parte del suo sottopo- sto, ne diffidasse al punto da temere per la sua vita, dichiarava che l’accusato aveva agito in stato di legittima difesa, “e poco importa che fosse realmente minacciato, o che solo supponesse di esserlo:

date le circostanze, doveva necessariamente sentirsi in pericolo”.

Il mercante fu pertanto assolto, e l’istanza della vedova respinta.

Che cosa è ovvio e dovremmo invece trovare strano? Tutto, po-

tremmo rispondere, e non sbaglieremmo. Si tratta tuttavia di una

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totalità composta di molteplici piani. La pièce di Brecht consente di esplorare l’architettura dell’ovvio, invitandoci a riflettere su di essa. Armati di bisturi analitico, proviamo a rispondere in modo più articolato: che cosa sembra naturale e dovremmo invece inter- rogare? Qual è la regola e qual è l’eccezione? E soprattutto qual è il loro rapporto?

Il primo livello dell’ovvio è la disuguaglianza sociale, il fatto che esistono dominanti e dominati, sfruttatori e sfruttati. Di soli- to diamo per scontata la differenza di classe, come se discendesse da un diritto naturale. Su questa differenza organizziamo la no- stra vita quotidiana, senza accorgercene, come se percorressimo fischiettando la strada del paesello natio. Invece bisognerebbe fer- marsi. Fermarsi a pensare. Fermarsi e pensare. Non possiamo cer- to far svanire con la bacchetta magica il mondo in cui viviamo, né il modo in cui lo vediamo, ma è in nostro potere – un potere nel quale si gioca la nostra “libertà” – trasformare l’ovvio in proble- ma, piegare il punto esclamativo per farlo diventare interrogativo.

Invece di procedere incuranti sul nostro sentiero abituale, possia- mo imparare a “inciampare nell’evidenza”. Allora la strada liscia diventa aspra, sul cammino appaiono massi e voragini. Il familiare torna a essere “estraneo”: ecco la prima lezione fenomenologica, che è anche l’anticamera di ogni atteggiamento critico.

Il secondo livello dell’ovvio riguarda il nostro rapporto con la

Terra. E visto come vanno le cose, le parole di Brecht potrebbero

assumere oggi un valore profetico, come un monito che giunge da

lontano. Qui il regime di ovvietà funziona a sua volta su diversi li-

velli. In primo luogo, sembra scontato che il nostro rapporto con

la Terra sia lo sfruttamento delle sue risorse. In secondo luogo,

questo saccheggio è fatto in nome del progresso e del benessere

dell’umanità, ma nessuno sembra preoccuparsi che le risorse natu-

rali siano subito sottratte alla “società umana”, a favore della qua-

le sono prelevate. Lo sfruttamento della Terra è immediatamente

raddoppiato da un furto nei confronti dell’Uomo. “Ho sentito dire

– confida la guida al portatore – che il petrolio, se lo scopriranno,

lo nasconderanno. Chi chiude il pozzo da cui esce il petrolio avrà

del denaro per tenere la bocca chiusa. Per questo il mercante ha

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Il gesto che non finisce

NICOLA GAIARIN

Una parola di moda

“Si dice che sia una parola di moda ma non si sa cosa significa.”

1

Siamo nel 1963 ed Enzo Paci può permettersi di introdurre in questo modo un testo dedicato all’epoché. “Epoché vuol dire so- spensione del giudizio, intendendo per giudizio il pregiudizio. È un atteggiamento, un esercizio, un metodo.” Certo, queste tre pa- role non vogliono dire la stessa cosa. Per capire questa formula- zione così di moda ci vogliono almeno tre termini che si legano l’uno all’altro.

Se fossimo in un film, sarebbe il momento di fare un salto in avanti nel tempo, fino al 2021. Non so quali siano le parole di moda oggi, di certo non epoché. Al punto tale che in questo nume- ro di “aut aut” la facciamo entrare in scena, in un certo senso, “sot- to copertura”. Parliamo infatti del gesto fenomenologico, andando ad aggiungere un altro termine alla serie usata sessant’anni fa: un atteggiamento, un esercizio, un metodo. E anche un gesto. In ogni caso, qualcosa che dev’essere soprattutto praticato.

Nel 1961 Paci aveva già scritto che “l’esercizio della riduzione è, come si sa, fondamentale per la fenomenologia di Husserl. Si parla di esercizio (di “ascesi” nel senso greco) perché la riduzione non è una teoria filosofica ma, appunto, un esercizio, un fare”.

2

E

1. E. Paci, “Epoché” (1963), in Il senso delle parole, 1963-1974, a cura di P.A. Rovatti, Bompiani, Milano 1987, p. 30. Si tratta della seconda puntata della rubrica “Il senso delle parole”, inaugurata su “aut aut” nello stesso anno.

2. E. Paci, Tempo e verità nella fenomenologia di Husserl (1961), Bompiani, Milano 1990, p. 40.

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poi continua: “Non è qualcosa a cui si possa assistere disinteres- satamente ma un’operazione nella quale si è impegnati e che deve essere eseguita, nella quale il filosofo, l’uomo, deve mutare se stes- so, passare dalla situazione nella quale è ‘perduto’ nel mondo […]

alla situazione nella quale è il mondo che deve essere perduto per poi essere riconquistato attraverso una presa di coscienza possibile soltanto per mezzo dell’epoché”.

3

Un’ascesi che consiste nel mettersi in gioco in prima persona fa sì che l’esercizio non possa essere disinteressato. Una formulazione simile Paci la userà nel 1963, ma dando al termine una valenza di- versa: “Non è disinteresse per il mondo ma volontà di non lasciarsi intrappolare dal mondano in nome della verità che deve guidare ogni atto umano per la trasformazione dell’uomo e del mondo”.

4

Mi pare che con questa seconda sfumatura il tema del disinteres- se si sdoppi: nel primo caso, è il soggetto che non deve assistere in modo disinteressato all’esercizio, nel secondo caso il disinteresse contro cui dobbiamo stare in guardia è quello nei confronti del mondo. In ogni caso, sembra dirci Paci, l’epoché è qualcosa che ri- guarda noi e il nostro modo di stare al mondo.

Non possiamo assistere in modo disinteressato all’esercizio di riduzione, come se ci guardassimo dall’esterno. Assumere una po- sizione disinteressata ci porterebbe a perdere il senso e lo scopo dell’esercizio. Il filosofo che cerca di essere disinteressato non met- te in gioco sé stesso. Il gesto fenomenologico ci chiede insomma di non essere spettatori, ci interpella come protagonisti. L’operazione ci vede impegnati direttamente e si tratta di un impegno che rivela fin da subito un movimento temporale di andata e ritorno: emer- ge il senso di una necessità che ci chiama in causa prima ancora di scegliere volontariamente questo impegno.

La messa fra parentesi, lo straniamento del mondo proposto da Husserl e riletto da Paci, ha a che fare con un esercizio da compie- re in prima persona al quale siamo chiamati senza essere del tutto in possesso delle nostre funzioni spirituali. “Lo Spirito non è libe-

3. Ibidem.

4. E. Paci, Il senso delle parole, cit., p. 30.

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Sospensione e suspense

DAMIANO CANTONE

[…] tra i miei tetri cipressi penso che sia ora di sospendere la tanto da te per me voluta sospensione d’ogni inganno mondano; che sia tempo di spiegare le vele e di sospendere l’epoché.

E. Montale

C’ è un aspetto che mi ha sempre colpi- to nel lessico filosofico come in quel- lo cinematografico a proposito del tema della sospensione: il suo rapporto negativo con l’ingenuità e la na- turalezza. È evidente che i due ambiti non sono perfettamente so- vrapponibili, e che la filosofia e il cinema scrivono la loro storia percorrendo strade autonome. Eppure, proprio per la loro capaci- tà di pensare e rimodellare il rapporto tra l’uomo e il mondo, essi hanno costantemente a che fare con problemi simili, ai quali sono chiamati a rispondere ciascuno a suo modo. L’epoché fenomenolo- gica e la suspense cinematografica, se messe in risonanza, mostrano dei punti di convergenza rispetto a un certo tipo di rapporto con il sapere e con la temporalità, istanze che, agli inizi del Novecento quando sia il cinema sia la fenomenologia trovavano la loro prima definizione, sembravano avere ormai ben poco da dire al di fuori dei confini tracciati dall’approccio scientifico.

All’epoca il nemico era l’“atteggiamento naturale” interno alla

scienza stessa, che pensava di poter conoscere il mondo esterno

elidendo il problema del soggetto della conoscenza, rappresen-

tando, in tal modo, l’unione del senso comune, per cui il mondo è

l’insieme delle cose che mi stanno di fronte, a portata di mano, e

che io posso utilizzare ed esperire (compresi i valori, le pratiche, le

abitudini), e della “vera” conoscenza di cui è depositaria la scien-

za. Contro la fiducia quasi fideistica nella capacità della scienza di

offrire la chiave interpretativa di qualsivoglia aspetto della realtà,

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la fenomenologia si diede il compito di “ritornare alle cose stes- se” ovvero alla complessità dell’esperienza del mondo esterno, che non è meramente riducibile ai dati di fatto. Si trattava allora, per usare le parole di Husserl, di “munire di un indice di questionabi- lità” il mondo intero e le scienze che a esso si riferiscono: “Il loro essere, la loro validità, rimane in sospeso”.

1

Non negare senso al mondo esterno, ma metterlo tra parentesi, prendere una certa di- stanza e guardare alla realtà in modo meno ingenuo.

Dunque, la fenomenologia cominciava con un atto di sfiducia, una messa in discussione di saperi consolidati ma incapaci di ren- dere conto della complessità della conoscenza del mondo esterno che si dà sempre nella relazione io-mondo. L’epoché, dunque, ri- mane – fedele alle sue origini – almeno in parte un atto scettico, gettando il sospetto del filosofo là dove fino a quel punto si era vi- sta solamente la solidità del dato e dell’abitudine.

Quando Edmund Husserl introdusse il termine epoché nella se- conda delle lezioni del 1907 confluite nell’Idea della fenomenologia (pubblicata postuma nel 1950), lo fece proprio per distinguere una scienza di tipo naturale da una di tipo filosofico, o, più in generale, l’atteggiamento naturale con cui ci relazioniamo alla realtà (che è solidale con quello della scienza) da quello filosofico. Così come Cartesio – è lo stesso Husserl a proporre il parallelismo – era usci- to dalle secche del relativismo radicale verso il quale lo spingeva il dubbio sistematico attraverso uno scarto, un’intuizione e un cam- bio di prospettiva (perché “nell’atto che io giudico che tutto è du- bitabile per me, è fuori dubbio che io giudico così, e così sarebbe un controsenso voler tener fermo a un dubbio universale”),

2

l’epo- ché husserliana consisteva nel porsi in una prospettiva diversa, con un gesto o un salto, in una dimensione del puro guardare,

3

che co- stituisce ogni vissuto come datità assoluta.

Che il puro guardare poco avesse a che fare con la contempla- zione e molto invece con i vissuti risulta ben chiaro fin dalle pa-

1. E. Husserl, L’idea della fenomenologia (1950) a cura di C. Sini, trad. di A. Vasa e M. Rosso, Laterza, Roma-Bari 1992, p. 54.

2. Ivi, p. 55.

3. Ivi, p. 58.

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Il segreto della responsabilità

GRAZIELLA BERTO

Premessa. Un incontro tra fenomenologi

Negli ultimi giorni del 1981 Jacques Derrida viene arrestato a Praga, dove si era recato, come appartenente all’associazione Jan Hus,

1

per tenere un seminario, attorno alla questione del sogget- to. Si trattava di un seminario clandestino, uno di quelli che in quegli anni si svolgevano nelle case di intellettuali cechi, spesso seguaci di Charta 77, violando una legge che negava loro ogni li- bertà di pensiero e di circolazione delle idee. Derrida viene arre- stato in aeroporto, mentre sta per tornare a Parigi, con l’accusa di

“produzione e traffico di droga”. Viene liberato il giorno dopo, il 1° gennaio 1982, grazie all’intervento del presidente Mitterand.

Egli tuttavia ricorderà questo episodio, cronologicamente breve, in questo modo: “Questo arresto a Praga, nel 1981, fu in fondo il viaggio più degno di questo nome, nella mia vita”: il nuovo, l’inat- teso, che appartiene al viaggio, si dà qui nello spazio angusto della cella, ed è un’esperienza di angoscia, di esposizione totale all’al- tro, di assoluta espropriazione dei diritti e della dignità; qualcosa di simile a quanto accaduto al “piccolo ebreo cacciato dal liceo di Ben Aknoun” nel 1941.

2

1. Si tratta di un’associazione clandestina nata a Oxford ed estesasi in Francia nel mag- gio del 1981, con lo scopo di mantenere contatti culturali con gli intellettuali praghesi, consentendo la circolazione di libri, film, idee, contro la rigida censura attuata dal governo cecoslovacco e la connivenza dei governi europei; tra i suoi membri figurano anche Paul Ricœur e Jean-Pierre Vernant.

2. Cfr., su queste vicende, J. Derrida, C. Malabou, La contre-allée, La Quinzaine lit- téraire-L. Vuitton, Paris 1999, pp. 39, 169-172. Il video del racconto di Derrida filmato

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In quello stesso carcere, pochi anni prima, nel marzo del 1977, pochi giorni prima della sua morte, era stato detenuto e sottoposto a un violento interrogatorio Jan Patocˇka, fondatore di Charta 77, nata in nome della difesa effettiva dei diritti umani, contro ogni forma di limitazione arbitraria della libertà, del pensiero e dell’agi- re: “Oggi la posta in gioco è che le motivazioni dell’agire non con- tinuino ad appartenere solo o prevalentemente alla sfera della pau- ra e del favoritismo, bensì al rispetto di tutto ciò che nell’uomo c’è di più elevato, nella comprensione degli obblighi, del bene comu- ne, della necessità di assumere su di sé, da questo punto di vista, anche gli svantaggi, l’incomprensione e determinati rischi”.

3

Per molti anni Patocˇka, allontanato dall’insegnamento, aveva svolto clandestinamente, attraverso lezioni e seminari, la sua attività di ricerca e di discussione filosofica.

È un incontro a distanza, tra due “allievi” di Husserl, accomu- nati, pur in posizioni e con conseguenze molto diverse, da una scelta di dissenso, di disobbedienza al potere. Tale incontro ri- vivrà, dieci anni dopo, in uno scritto, Donare la morte, dedicato da Derrida alla lettura dei Saggi eretici di Patocˇka, sul terreno di una “paradossale fenomenologia della notte”, che cerca faticosa- mente di orientarsi in una riflessione sulla responsabilità europea e sull’avvenire dell’Europa.

4

Un’Europa prigioniera, per entram- bi, dell’ossessione del funzionamento e dell’accumulo, del calcolo e della previsione, chiusa, quasi “immunizzata”, a ciò che sfugge a tale meccanismo cieco, e quindi incapace di autentica conoscenza.

5

da “Antenne 2” sul treno che lo riporta da Praga a Parigi è reperibile in rete (www.ina.fr/

video/CAB91050879).

3. J. Patocˇka, Cos’è e cosa non è Charta 77, “eSamizdat”, 3, 2007, pp. 71-72.

4. J. Derrida, Donare la morte (1999), trad. di L. Berta, Jaca Book, Milano 2002 (per la citazione, vedi p. 55). La lettura di Patocˇka, che si concentra sul quinto dei sei Saggi eretici,

“La civiltà tecnica è destinata al declino?”, è contenuta nella prima parte del libro, “Dona- re la morte”, pubblicata nel 1992 nell’ambito degli atti di un convegno del dicembre 1990 dedicato all’etica del dono e al pensiero del dono in Derrida, editi da Métailié; J. Patocˇka, Saggi eretici sulla filosofia della storia (1975), trad. di E. Stimilli, Einaudi, Torino 2008.

5. Tra gli innumerevoli riferimenti alle riflessioni dei due pensatori sull’Europa, mi li- mito a ricordare, per J. Patocˇka, “Quattro seminari sul problema dell’Europa” (1973), in La cura dell’anima, trad. di S.A. Matrangolo e B. Penna, Orthotes, Napoli-Salerno 2019, pp. 95-153; per J. Derrida, “L’altro capo” (1990), in Oggi l’Europa, trad. di M. Ferraris, Garzanti, Milano 1991, pp. 9-67.

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L’esercizio dell’attenzione

ALESSANDRO DI GRAZIA

Premessa

Parlare del gesto fenomenologico significa innanzitutto distingue- re tra questo gesto e la fenomenologia, intesa tanto come una de- terminata forma della filosofia, quanto come un certo stile, un certo modo di procedere nella riflessione e nella vita. Ovviamente dire fenomenologia significa riferirsi innanzitutto a Husserl che, dandole avvio, ha inteso fondare una strenge Wissenschaft, una scienza rigorosa. La questione si complica se pensiamo che Hus- serl caratterizza tale scienza come una scienza soggettiva.

In ogni caso la fenomenologia ha nell’epoché una radice che dif- ferenzia la sua pianta dalle altre all’interno del panorama dei modi di espressione della filosofia. È un punto decisivo, che riporta la filosofia alla dimensione di una pratica, di un esercizio; allo stes- so tempo però l’epoché è anche un fattore di crisi, poiché, precisa- mente, di quale esercizio si tratti, non è chiaro.

È un metodo, come i manuali non mancano di segnalare; for- se si tratta della mimesi teatrale di un impossibile, sullo stile delle Meditazioni metafisiche di Cartesio; oppure dobbiamo attribuire a questa parola una valenza mistica, stando all’idea di zurück zu den Sachen selbst! Un ritorno peraltro mancato, stando alle ultime riflessioni di Husserl stesso; oppure si tratta di una postura etica, un modo o un atteggiamento con cui avvicinare sé stessi, gli altri e il mondo in generale.

A qualunque di questi lati l’epoché appartenga, rimangono irri- solti il modo e le condizioni in cui essa possa essere messa in atto.

Su tale questione cercherò di ritornare alla fine di questo eserci-

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zio. In ogni caso l’epoché è il luogo di una conversione, una paro- la quanto mai suggestiva, poiché rimanda implicitamente all’esito religioso di un esercizio che prometterebbe la visione di una terra promessa, l’utopia dell’accesso a un mondo-altro.

Per tentare di circoscrivere e di caratterizzare cosa possa es- sere questo esercizio devo tentare un lungo giro e fare un bre- ve riferimento. Per rispettare la natura dell’epoché non possiamo che eseguirla, qui attraverso e con la scrittura, privilegiando in- somma una sorta di dimostrazione ostensiva dell’epoché, piuttosto che compiendo un tentativo, sempre fallimentare, di darne una definizione.

Il riferimento riguarda una fenomenologia che precede tem- poralmente quella husserliana, una sorta di archi-fenomenologia inaugurata da Goethe e i cui termini chiave sono: polarità, imme- desimazione e fenomeno originario. Il frutto più perfetto di questa pratica scientifica, a detta di Goethe stesso, è la Farbenlehre, erro- neamente resa in italiano con Teoria dei colori.

1

In essa, Goethe di fatto realizza nel campo dell’ottica il pro- getto di una strenge Wissenschaft, cioè di una scienza che inizia da una sorta di punto zero, da un’assenza di pregiudizi. Husserl rappresenta uno svolgimento, in una certa direzione, dello stile goe thiano, ma ne costituisce anche una deviazione, almeno per tre motivi: il primo, e il più importante, è che la coscienza viene considerata un dato originario con i suoi specifici modi di datità.

La preminenza del soggetto, come soggetto della coscienza, è evi- dente, anche se è d’obbligo riconoscere a Husserl il merito di aver altresì messo in evidenza le contraddizioni interne a questa impo- stazione. Il secondo punto è che da questo presupposto, in defi- nitiva mai messo del tutto in discussione, deriva l’accentuazione dell’importanza dell’intenzionalità: la coscienza è sempre coscien- za di qualche cosa.

Proprio sul colore, è solo un esempio, la distanza tra i due è pa- lese. In Filosofia come scienza rigorosa, del 1911, Husserl afferma:

1. Enzo Paci, che introduce la fenomenologia in Italia, avrà per Goethe un costante in- teresse, occupandosi anche specificamente della Farbenlehre.

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Husserl e il soggetto della scienza

ANTONELLO SCIACCHITANO

L’errore di Aristotele, di Tolomeo, di Ticone, vostro, e di tutti gli altri, ha radice in quella fissa e inveterata impressione che la terra stia ferma, della quale non vi potete o sapete spogliare né anco quando volete filosofare di quel che seguirebbe, posto che la Terra si movesse.

G. Galilei, Dialogo dei massimi sistemi. Giornata seconda

D i Husserl negli anni settanta studiavo le Idee (1913); poi lo misi da parte con altri grandi pensatori: Kant, Freud, Lacan, ca- piscuola di verità forti. Molto tardi capii che i grandi maestri ini- biscono il pensiero; lo forzano nella scolastica e lo spengono. Di formazione lacaniana, non mi ritengo fenomenologo.

1

Il mio gesto filosofico d’esordio non è l’epoché. Non sospendo il giudizio. Pen- so in modo non categorico “ciò che sfugge”; approssimo il sapere all’essere in modo topologico attraverso modelli astratti; non mi fisso sul singolo caso concreto ma oscillo con l’attenzione in col- lettivi di fenomeni analoghi; non miro a verità necessarie; la pro- babilità mi basta.

Così affronto Husserl in due testi finali del suo iter di pensiero:

il Rovesciamento della dottrina copernicana, il cosiddetto Umsturz,

2

e La crisi delle scienze europee, di due anni dopo.

3

La scelta non è dettata da interesse per la fenomenologia in sé ma per la sua visio- ne della scienza moderna.

1. Lacan fu un grande fenomenologo. Formulò l’epoché in positivo: “Grazie a Freud sappiamo che il soggetto si manifesta e qualcosa (ça) pensa prima di entrare nella certezza”

(Seminario XI, 29 gennaio 1964). Sospese il significato dal significante; pose il fallo a signi- ficare la significazione e il Grande Altro come altro trascendentale.

2. E. Husserl, Rovesciamento della dottrina copernicana nell’interpretazione della cor- rente visione del mondo (9 maggio 1934), trad. di G.D. Neri, “aut aut”, 245, 1991, p. 3.

3. Id., La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (1936), trad. di E. Filippini, il Saggiatore, Milano 1961.

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Riapro il caso Galilei? Il giudizio dipende dalla verità di par- tenza. Da dove parte il fenomenologo? Martin Heidegger fissò il punto di arrivo: “Si può in generale definire scienza l’intero di una connessione fondante di proposizioni vere”.

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In La filosofia come scienza rigorosa Husserl espresse opinione simile “sull’enigma” del rapporto cognitivo soggetto/oggetto.

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Il mio tema è nel titolo del- le conferenze di Praga (1935): La crisi delle scienze europee e la psi- cologia, da cui nacque l’ultimo libro di Husserl. Nella crisi avvie- ne il soggetto; non un generico upokéimenon ma il soggetto della scienza galileiana, che si chiede: “Esiste veramente una crisi delle scienze, malgrado i loro continui successi?”.

Sì, ma di quali scienze parla il fenomenologo? Quali sareb- bero in crisi? Husserl non lo precisa. Allora lo forzo a scoprir- si: intende le antiche scienze aristoteliche, storiche, o le moder- ne galileiane, naturali? Non sono questi i “due massimi siste- mi” dell’Occidente? Il primo, fondato in intensione sullo scire per causas, culminante nella ricostruzione hegeliana della storia dello Spirito, l’altro sviluppato in estensione, senza presunzioni metafisiche.

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Per Husserl esisteva solo la scienza trascendentale, più aristotelica che galileiana, immutabile, mai in crisi. Non lo diceva così. Affermava che trascendentale “è il motivo del ritor- no alle fonti ultime di tutte le forme conoscitive, della riflessio- ne da parte del soggetto conoscitivo su sé stesso e sulla sua vita conoscitiva”.

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4. M. Heidegger, Essere e tempo (1926), trad. di A. Marini, Mondadori, Milano 2006, p. 49, § 4 (trad. modificata). Analoga la posizione di Husserl che considerò la scien- za “pensiero che mira a produrre il vero ed escludere il falso” (E. Husserl, La crisi, cit., p. 389). “La verità scientifica vuol essere una verità incondizionata” (ivi, p. 336). La scien- za “si propone di conoscere l’essere-in sé nelle sue verità” (ivi, p. 311).

5. E. Husserl, La filosofia come scienza rigorosa (1911), trad. di C. Sinigaglia, Laterza, Roma-Bari 1994. Nella Crisi l’enigma diventa paradosso del “soggetto per il mondo e og- getto nel mondo” (La crisi, cit., p. 205).

6. Husserl sembra a favore delle prime. “La scienza trae le proprie origini dalla filoso- fia greca” (La crisi, cit., p. 297). “La filosofia, dal tempo della sua origine nell’antichità, vo- leva essere ‘scienza’, conoscenza universale dell’universo di ciò che è; non conoscenza quo- tidiana vaga e relativa – doxa – bensì conoscenza razionale – episteme” (ivi, p. 93). Scienza come conoscenza certa è un tratto epistemologico antico della fenomenologia.

7. Ivi, p. 125.

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