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Spigolature sulla riforma di cui al d.l. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, nella l. n. 134 del 2012. - Judicium

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RAFFAELE FRASCA

Spigolature sulla riforma di cui al d.l. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, nella l. n. 134 del 2012.

1) Premessa.

Avverto che svolgo le mie considerazioni volutamente senza riferimenti ai numerosi interventi dottrinali di commento sulla riforma, che dò per noti.

2) Sull’ambito del procedimento di cui all’art. 348-bis e dell’art. 348-ter c.p.c.

§1. Si è detto da più parti ed è riecheggiato anche nei dibattiti organizzativi (taluni sfociati in protocolli interni) in seno agli uffici giudiziari che il procedimento di cui all’art. 348-bis e 348-ter è poco funzionale, perché, pur concorrendo con quello dell’art. 281-sexies, c.p.c., non risulterebbe applicabile nelle ipotesi “classiche” di inammissibilità dell’appello, come quella della tardività, quella della esistenza di un altro mezzo di impugnazione da proporsi contro la decisione (esempio, ricorso per cassazione), quella della specificità dell’appello ai sensi del nuovo art. 342 c.p.c., nonché nel caso di improcedibilità.

Questa limitazione, tuttavia, mi pare frutto di un equivoco indotto da una tecnica legislativa certamente poco felice, cioè dall’uso da parte dell’art. 348-bis dell’espressione “fuori dei casi i cui deve essere dichiarata con sentenza l’inammissibilità o l’improcedibilità …”. Questa espressione la si è intesa come se fornisse una chiave di lettura del significato dell’espressione successiva relativa all’ipotesi che l’appello non abbia una ragionevole probabilità di essere accolta, cioè come se determinasse la necessità di intendere quest’ultima nel senso di appello non accoglibile nel “merito”.

A me pare – lo dico sommessamente – che l’equivoco risieda nel non avere pensato di intendere l’espressione “fuori dei casi …” per quello che può valere e comunque per quello che deve valere, se si vuole evitare che del tutto irragionevolmente non si utilizzi il procedimento dell’art. 348-bis per le ipotesi più eclatanti in cui l’appello non ha la ragionevole prospettiva di essere accolto per ragioni di rito, come nei casi sopra indicati.

Posto, infatti, che il legislatore non dice in alcuna norma quando l’inammissibilità o l’improcedibilità dev’essere dichiarata con sentenza, ma si limita a disciplinare come modalità alternativa a quella degli artt. 348-bis e 348-ter la modalità di decisione normale, con le diverse eventualità ora emergenti dalla generalizzazione della previsione, da parte dell’ultimo comma dell’art. 352 c.pc., della decidibilità ai sensi dell’art. 281-sexies c.p.c., il che, dunque, evidenzia che l’appello dev’essere normalmente deciso con sentenza, mi sembra che l’equivoco cui alludevo sia da rinveire nel non avere inteso la norma nel senso che, quando si allude al dover decidere con sentenza, poiché la sentenza costituisce l’approdo della decisione “normale” ai sensi dell’art. 352, si è voluto, in realtà, solo alludere all’ipotesi in cui si deve decidere con sentenza, per la semplice ragione che la trattazione ha seguito l’iter normale ai sensi dell’art. 350 e ss. c.p.c. e segnatamente ha avuto luogo l’invito a precisare le conclusioni ai sensi dell’art. 352 c.p.c.

In pratica, se il giudice d’appello non si accorge in limine litis, come esige l’art. 348-ter c.pc. della causa di inammissibilità (anche di quella per mancanza di ragionevole prospettiva di accoglimento nel merito) o improcedibilità e segue il procedimento normale e se ne accorge dopo, sia a seguito di una trattazione articolata in più udienze ai sensi dell’art. 350 c.p.c. sia e soprattutto se formuli l’invito a precisare le conclusioni, così avviando il procedimento alla decisione in via normale, è esclusa l’adozione a posteriori del procedimento di cui all’art. 348-bis e seg, cioè la regressione alla

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decisione sommarizzata. Questa ipotesi ha il pregio di evitare che il procedimento abbia un utilizzo residuale e del tutto illogico, tenuto conto che nel concetto di mancanza di ragionevole probabilità di essere accolto rientrano a ben vedere ragioni in rito, come ad esempio il fatto che la sentenza di primo grado avesse due rationes decidendi e se ne sia impugnata solo una oppure il fatto che la motivazione dell’appello non si parametri a quella della sentenza impugnata.

§2. L’obiezione che l’esegesi qui proposta avrebbe la conseguenza di rimettere l’appellante in giuoco, con la possibilità di impugnare la sentenza di primo grado anche quando il suo appello fosse stato dichiarato inammissibile in rito nei sensi indicati, non ha fondamento per i casi in cui l’appello sia stato dichiarato inammissibile per tardività o perché doveva proporsi altro mezzo di impugnazione: in tal caso la Corte di cassazione potrà rilevare la formazione della cosa giudicata e lo potrà fare senza dover esaminare l’ordinanza ai sensi dell’art. 348-ter e, dunque, valutare l’attività del giudice d’appello.

Infatti, l’inammissibilità dell’appello nei due casi in discorso deriva da una circostanza che è riferibile al decorso del termine di impugnazione contro la sentenza di primo grado in forza di quanto determinato dal mero decorso del termine per impugnare quella decisione. La stessa cosa dicasi per la questione del mezzo esperibile.

In tutte le altre ipotesi di inammissibilità (salvo quanto si dirà nel paragrafo seguente) ed in quella di improcedibilità, poiché esse derivano da fattispecie che facevano parte della cognizione devoluta al giudice d’appello, la salvezza dell’impugnabilità della sentenza di primo grado non rappresenta una stonatura, non diversamente da come non lo rappresenta l’impugnazione dopo declaratoria di inammissibilità e per inesistenza di ragionevole probabilità di accoglimento nel merito dell’appello (come per le altre ragioni di rito). Si tratta dello scotto da pagare all’art. 111, settimo comma,d ella Costituzione. Per esemplificare: se l’appello era aspecifico oppure è stato dichiarato improcedibile si può tollerare che la partita si rigiochi con il ricorso per cassazione contro la sentenza di primo grado.

3) L’impugnazione della sentenza di primo grado e l’art. 329 c.p.c.

§1. In sede di impugnazione contro la sentenza di primo grado – mi sembra - dovrà trovare piena applicazione l’art. 329 c.p.c. Il ricorrente in cassazione contro la sentenza di primo grado dovrà dunque nel ricorso compiere la necessaria attività assertiva diretta a dimostrare che i motivi di ricorso che fa valere contro la sentenza di primo grado possono essere dedotti, in quanto l’appello dichiarato inammissibile aveva evitato che su di essi si formasse cosa giudicata su capi della sentenza di primo grado ed all’uopo elemento fondante del ricorso diventa l’atto di appello, che consente alla Corte di cassazione di percepire se non vi fosse stata già originariamente acquiescenza. La sparizione durante i lavori preparatori del noto riferimento alla proponibilità del ricorso contro la sentenza di primo grado nei limiti di quanto si era fatto valere con l’appello risulta da tale punto di vista innocua. D’altro canto, l’esistenza di un’acquiescenza è profilo che, essendosi verificato a prescindere dalla valutazione espressa dal giudice dell’appello ed inerendo la cosa giudicata è certamente rilevabile dalla Corte di cassazione. Nella prospettiva indicata l’atto di appello dovrà essere prodotto a norma dell’art. 369, secondo comma, n. 4 c.p.c.

§2. Mi sembra, inoltre, che, tanto se la si riconduca ad un fenomeno equivalente ad un’acquiescenza tacita, quanto se la sia collochi sul piano della rilevazione del passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, anche l’ipotesi in cui l’appello apparisse avere attinto solo una delle due rationes decidendi può e deve essere valutata dalla Corte di cassazione e, quindi, comportare l’inammissibilità dell’impugnazione della sentenza di primo grado. Si tratta, del resto, di profilo inerente l’an e non il quomodo dell’esercizio del diritto di impugnazione insorto contro la sentenza di primo grado e già esercitato con l’appello.

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3) Sulla pretesa impugnabilità dell’ordinanza di inammissibilità dell’appello ex art. 348-ter c.p.c.

§1. Ritengo che le tesi dottrinali che ipotizzano un’impugnabilità di detta ordinanza o in via ordinaria con lo stesso ricorso per cassazione contro la sentenza di primo grado o con ricorso straordinario ai sensi dell’art. 111, settimo comma, della Costituzione (proposto separatamente o congiuntamente a quello ordinario contro la sentenza di primo grado) si scontrino con obiezioni che non paiono sormontabili.

§2. L’ipotesi della impugnazione per la via del ricorso ordinario unitamente alla sentenza di primo grado e con pregiudizialità della trattazione dell’impugnazione dell’ordinanza rispetto a quella del ricorso contro la sentenza di primo grado, si scontra contro il dettato legislativo, che nel terzo comma dell’art. 348-ter non solo nulla dice sull’impugnabilità dell’ordinanza, ma, restringendo il potere processuale della parte soccombente all’impugnazione della sentenza di primo grado e con la previsione di una restrizione del relativo diritto quanto ai motivi deducibili per il caso di inammissibilità “fattuale” (quarto comma dell’at. 348-ter c.p.c.), cioè con l’esclusione della ricorribilità ai sensi del n. 5 dell’art. 360 c.p.c., palesemente impedisce di considerare discutibile con tale rimedio anche l’ordinanza de qua. E ciò ancorché equivocamente ed inspiegabilmente la relazione accompagnatoria della riforma alluda alla possibilità della Corte di cassazione di controllare eventuali nullità del procedimento di appello. Si tratta di un caso in cui i conditores interpretano quello che hanno scritto in modo assolutamente privo di riferimento con il suo tenore.

La tesi della ricorribilità in cassazione con ricorso ordinario confligge, inoltre con il dato testuale che l’art. 360 c.p.c. limita tale ricorso alle sentenze pronunciate in grado di appello o in unico grado (salvo il ricorso per saltum), onde, dovendo l’eventuale ricorribilità essere ricercata al di fuori dell’art.

348-ter e, dunque, nell’art. 360 c.p.c., è palese che non la si può rinvenire in essa.

§3. L’ipotesi della ricorribilità in via straordinaria ai sensi dell’art. 111, settimo comma, della Costituzione si scontra, quanto al “merito” della decisione di inammissibilità con un “macigno”

rappresento dalla circostanza che l’ordinanza ex art. 348-ter, se indubbiamente ha carattere decisorio e, dunque, uno dei requisiti di accesso al ricorso straordinario, dato che è emessa nel processo civile iniziato a cognizione piena, che è la tipica sede della cognizione decisoria, cioè su situazioni di diritto o comunque pienamente giustiziabili, non ha l’altro necessario carattere, cioè non ha carattere definitivo riguardo alla tutela che compete alla situazione giuridica dedotta nel processo.

Infatti, tale situazione è ridiscutibile impugnando in cassazione la sentenza di primo grado e, pertanto, la decisione espresse nell’ordinanza non definisce la sua tutela.

§3.1. D’altro canto, un carattere di definitività idoneo a giustificare l’accesso in cassazione con il ricorso straordinario non lo si può ravvisare nemmeno in tutte quelle ipotesi che numerosi commentatori della riforma hanno variamente individuato, nelle quali in definitiva sull’appello: a) si è deciso a torto ai sensi dell’art. 348-ter, cioè al di fuori delle ipotesi consentite e, quindi, mentre si doveva decidere con il procedimento di trattazione e di decisione normale (emergente dagli artt. 350 e ss.), così negandosi il c.d. diritto (processuale) ad avere la giusta forma di decisione; b) si è deciso ai sensi dell’art. 348-ter senza il rispetto di regole processuali, cioè in violazione di norme sul procedimento interne al procedimento sommario. In queste ipotesi, infatti, la definitività dell’ordinanza non è quella ritenuta dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite idonea a giustificare, in una con il requisito della decisorietà, l’accesso al ricorso straordinario. Ciò che è definito dall’ordinanza è solo il diritto processuale, cioè la modalità di svolgimento dell’azione in giudizio, quanto ai presupposti della pronuncia ai sensi dell’art. 348-ter. Viceversa, la definitività richiesta per il ricorso straordinario è quella sulla situazione giuridica sostanziale dedotta nel processo, per cui, se

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essa è ridiscutibile e lo è tramite il ricorso per cassazione contro la sentenza di primo grado, non si tratta di definitività idonea a giustificare il ricorso straordinario.

Ricordo in proposito che, con sentenza n. 11026 del 2003, le sezioni Unite della Corte, risolvendo una risalente situazione di contrasto, statuirono, con arresto che a tutt’oggi non risulta rimesso in discussione da decisioni successive di Esse, anche se sovente la giurisprudenza delle sezioni semplici lo dimentica, quanto segue: <<Quando il provvedimento impugnato sia privo dei caratteri della decisorietà e definitività in senso sostanziale (come nel caso dei provvedimenti, emessi in sede di volontaria giurisdizione, che limitino o escludano la potestà dei genitori naturali ai sensi dell'art. 317 - bis cod. civ., che pronuncino la decadenza dalla potestà sui figli o la reintegrazione in essa, ai sensi degli artt. 330 e 332 cod. civ., che dettino disposizioni per ovviare ad una condotta dei genitori pregiudizievole ai figli, ai sensi dell'art. 333 cod. civ., o che dispongano l'affidamento contemplato dall'art. 4, secondo comma, della legge 4 maggio 1983, n. 184), il ricorso straordinario per cassazione di cui all'art. 111, settimo comma, Cost. non è ammissibile neppure se il ricorrente lamenti la lesione di situazioni aventi rilievo processuale, quali espressione del diritto di azione, ed in particolare del diritto al riesame da parte di un giudice diverso, in quanto la pronunzia sull'osservanza delle norme che regolano il processo, disciplinando i presupposti, i modi e i tempi con i quali la domanda può essere portata all'esame del giudice, ha necessariamente la medesima natura dell'atto giurisdizionale cui il processo è preordinato e, pertanto, non può avere autonoma valenza di provvedimento decisorio e definitivo, se di tali caratteri quell'atto sia privo, stante la natura strumentale della problematica processuale e la sua idoneità a costituire oggetto di dibattito soltanto nella sede, e nei limiti, in cui sia aperta o possa essere riaperta la discussione sul merito.>>.

La definitività sulle modalità di svolgimento dell’azione in giudizio, ma non sulla situazione sostanziale dedotta in giudizio, è, dunque, del tutto inidonea a giustificare il ricorso straordinario e stupisce che la dottrina lo abbia dimenticato.

Va ancora precisato che sempre sul versante della mera definitività del modo di esercitare l’azione e, quindi, del diritto processuale con essa esercitato, rileva il fatto che l’eventuale pronuncia dell’ordinanza ai sensi del quarto comma dell’art. 348-ter preclude l’utilizzo del n. 5 dell’art. 360 nel ricorso contro la sentenza di primo grado. Ciò che è negato in questo caso è la possibilità di ricorrere con un certo motivo (ammesso che di vera e propria negazione si tratti, ma il dubbio emergerà da quanto dirò di seguito sul detto n. 5) e, dunque, è negato il sottodiritto processuale di impugnare la sentenza di primo grado ai sensi del detto n. 5, cioè con un particolare motivo, ma ciò lascia ancora intatta la possibilità di ridiscutere per gli altri motivi la situazione giuridica dedotta nel giudizio, il che evidenzia che non v’è definitività di tutela di essa, ma solo su uno dei modi per tutelarla, e, dunque, gli estremi per il ricorso straordinario non sussistono. E, vertendosi in tema di vizio di motivazione, nemmeno si configura alcuna lesione dell’art. 111, settimo comma, della Costituzione.

§4. Ancora un rilievo: si è paventato un orror vacui per il caso di deduzione di errori revocatori contro la sentenza di primo grado, perché essi non si saprebbe come potrebbero essere recuperati.

L’assunto è privo di fondamento: l’errore revocatorio è errore che ha determinato necessariamente un errore sull’applicazione di norme del procedimento nella sentenza di primo grado e, dunque, in questo caso sarà recuperabile con l’impugnazione ai sensi del n. 4 dell’art. 360 c.p.c. della sentenza di primo grado.

§5. Dunque, credo che si debba sostenere nettamente che l’ordinanza ex art. 348-ter non è impugnabile nel “merito” con il ricorso straordinario.

4) Segue: la pretesa impugnabilità almeno sulle spese.

§1. La gran parte dei commentatori ha, poi, ritenuto che l’ordinanza sarebbe certamente ricorribile per cassazione in via straordinaria almeno quanto alla statuizione sulle spese, ove - in mancanza di proposizione del ricorso per cassazione contro la sentenza di primo grado, la statuizione sulle spese

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non diventi dipendente dalla decisione sul ricorso e, quindi, potenzialmente caducabile o non caducabile a seconda del suo esito - ci si voglia dolere solo, da parte del soccombente in sede di 348-ter dell’eccesso della condanna alle spese rispetto alla tariffa.

§2. Anche tale assunto non sembra giustificabile.

E’ vero che la statuizione sulle spese in tal caso assume carattere anche definitivo ed è decisoria sotto il profilo dell’incidenza sul patrimonio del soccombente, ma, ai fini dell’accesso al rimedio del ricorso straordinario, o meglio della negazione di esso, assume rilievo un dato: si tratta di una condanna emessa a seguito di un procedimento di appello che, pur innestandosi in un processo sorto a cognizione piena e, quindi regolato dalla disciplina dei diritti delle parti espressa nelle relative regole normali, tuttavia, in appello, per valutazione insindacabile (secondo noi) del giudice si è svolto con una cognizione sommaria, cioè non assicurante l’osservanza delle regole normali. Sotto tale profilo il provvedimento di condanna nelle spese eccessivo, pur essendosi formato come titolo giudiziale, si può vedere riconosciuta una forza non dissimile e, dunque, non maggiore, rispetto a quella propria dei titoli esecutivi stragiudiziali e, dunque, si può ritenere – conforme a quanto ritenuto da Cass. n. 11370 del 2011 per le spese del cautelare - che una discussione sull’eccessività delle spese possa farsi in sede di opposizione ai sensi dell’art. 615 c.p.c. al precetto intimato sulla base dell’ordinanza o all’esecuzione sulla base di essa iniziata.

Nel caso di condanna per difetto a favore della parte vittoriosa si può ritenere che la sommarietà della decisione, sempre una volta che si sia definita la vicenda per mancato esercizio dell’impugnazione contro la sentenza in primo grado o per effetto della sua reiezione (in caso di accoglimento tutto torna in discussione), giustifichi l’eventuale esercizio di un’azione a cognizione piena volta ad ottenere la condanna nella misura giusta.

Sottolineo che ad una Corte di cassazione assediata dalla nota mole ricorsi non si addice di doversi occupare di problematiche come quelle relative alle spese liquidate in eccesso o per difetto.

Sottolineo ancora, che, fra l’altro, la struttura del giudizio di cassazione fornirebbe una tutela certamente più difficilmente praticabile rispetto a quelle che ho ipotizzato.

Comunque, ciò che impedisce l’accesso al ricorso straordinario è il carattere sommario della decisione sulle spese e, dunque, l’idea che il rimedio dell’art. 111, settimo comma, della Costituzione non sia necessario, perché il carattere pur definitivo e decisorio del provvedimento non assume la rilevanza di sentenza agli effetti di esso.

Conclusivamente l’ordinanza ai sensi dell’art. 348-ter non è neppure riguardo alle spese eccessive o liquidate per difetto impugnabile in cassazione.

Dunque non lo è mai.

5) Sul n. 5 dell’art. 360 c.p.c.

§1. Sono fortemente convinto che il tentativo di restringere la misura del controllo della motivazione in fatto in cassazione, che si è visto nella nuova formulazione del n. 5 dell’art. 360 sia destinato a rimanere tale. Dico subito che l’effetto del nuovo art. 360 n. 5, a tutto voler concedere, è solo quello di costringere il ricorrente ad argomentare il vizio di motivazione con una certa maggiore difficoltà espositiva.

Queste le ragioni.

§2. E’ necessario partire dalla premessa che il n. 5 dell’art. 360, nonostante la stessa Corte di cassazione spesso accetti di discutere di vizio ai sensi del n. 5 per violazione di norme del procedimento e, dunque, in ambiente riconducibile ai n. 1, 2 e 4 dell’art. 360 c.p.c., oppure accetti di discutere di esso una motivazione sulla quaestio iuris in realtà criticata sotto il profilo del c.d. vizio di sussunzione (e, quindi, di un error iuris), doveva, come deve, intendersi circoscritto a profili relativi alla ricostruzione della quaestio facti dedotta nel processo.

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Se si accetta tale premessa, ne segue immediatamente che la modifica del n. 5 lascia innanzitutto intatta la possibilità di dedurre il c.d. vizio di sussunzione della fattispecie pur esattamente ricostruita sotto la norma che la regola, perché esso continua ad essere deducibile ai sensi del n. 3 e ricorre appunto quando il giudice, pur avendo ricostruito esattamente il senso e l’estensione testuale e logica della norma, sia la sua collocazione sistematica, cioè pur avendola esattamente interpretata secondo una compiuta esegesi in astratto, abbia sussunto erroneamente sotto di essa o si sia rifiutato di sussumervi o vi abbia sussunto solo parzialmente, la fattispecie fattuale concreta pur esattamente e logicamente ricostruita, compiendo, dunque, sotto uno di tali profili, un errore di argomentazione logica in diritto e non in punto di ricostruzione del fatto.

Dopo di che, il significato del nuovo n. 5, una volta ribadito che esso continua a riguardare la ricostruzione del fatto, può essere inteso o in senso restrittivo o in senso più largo.

§2. Nella prima ipotesi (interpretazione restrittiva), v’è da domandarsi se ciò che è stato espunto da esso rifluisca da qualche altra parte o possa esservi fatto rifluire.

Nella seconda ipotesi (interpretazione estensiva), in definitiva, si dovrebbe constatare che nulla è cambiato quanto a ciò che si poteva dedurre ai sensi del n. 5, ma è cambiato, in definitiva, solo il modo della deduzione e semmai, se qualcosa è cambiato riguardo al quantum di tutela non dipende dal n. 5 nuova versione, bensì può dipendere (ma lo si deve verificare) dal possibile filtro – come spiegherò di seguito - dell’incidenza delle limitazioni del quarto e quinto comma dell’art. 348-ter c.p.c., sia sul versante dell’impugnazione della sentenza di promo grado dopo pronuncia di ordinanza ai sensi di quest’ultima norma, sia nel caso di impugnazione della sentenza di appello emessa a seguito del giudizio di appello a cognizione piena (nel senso di normale, non sommaria quanto alle forme, non all’approfondimento della motivazione di decisione).

Anche nella prima ipotesi, se si ritiene il riflusso da qualche altra parte, parimenti ciò che è cambiato per effetto della nuova formulazione del n. 5 non è – salva nuovamente l’incidenza delle limitazioni del quarto e quinto comma dell’art. 348-ter c.p.c. (lo spiegherò di seguito) - il quantum di tutela in Cassazione, bensì il modo tramite il quale la tutela si può ottenere.

§3. Verifichiamo la prima ipotesi.

Essa, una volta rilevato che in alcun modo la nuova formulazione dell’art. 360 n. 5 può essere intesa come riferentesi all’omessa pronuncia su domanda, capo di domanda (da intendere in sede di impugnazione come motivo di impugnazione) o eccezione, che restano deducibili come errores in procedendo sul piano del n. 4 di quella norma, suppone che il riferimento ora alla sola omissione motivazionale sul fatto decisivo abbia escluso la censurabilità della motivazione insufficiente o contraddittoria sulla ricostruzione d un simile fatto. Se così fosse, v’è da domandarsi se il ricorrente in cassazione abbia altro modo di dedurre l’insufficienza o la contraddittorietà di motivazione al di fuori del vizio ai sensi del n. 5.

A mio modo di vedere sì.

Lo potrà fare un bravo avvocato cassazionista, il quale, svolgendo le considerazioni evidenziatrici della insufficienza di ricostruzione del fatto decisivo od evidenziando che esso è stato ricostruito contraddittoriamente, potrà argomentare che l’esistenza di tale insufficienza o contraddittorietà ha portato il giudice di merito a compiere una violazione o falsa applicazione di norma di diritto, perché, se il fatto fosse stato ricostruito all’esito di una motivazione logicamente sufficiente o non contraddittoria, non sarebbe stato sussumibile sotto quella norma o lo sarebbe stato in modo diverso, cioè con diverse conseguenze applicative, oppure sarebbe stato riconducibile sotto altra norma: in tal caso si verificherebbe che l’insufficienza o la contraddittorietà logica circa la ricostruzione del fatto, ridondando in una erronea ricostruzione del fatto rispetto a come avrebbe dovuto essere ricostruito, si è risolta per tale diversità in un vizio di sussunzione, cioè in un error iuris.

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Si vorrà dire a questo cassazionista che la sua articolata attività illustrativa diretta ad evidenziare tale error (e rispettosa dell’art. 366 n. 6 c.p.c. e dell’art. 369, secondo comma, n. 4 c.p.c.) con tale procedimento per scansioni non sia consentita dal paradigma dell’art. 360 c.p.c. perché fuoriesce da esso?

Ma come glielo si potrà dire, se non è contestabile che l’esito finale di quel procedimento è chiaramente - per essere stato bene argomentato il motivo secondo la scansione indicata - riconducibile alla violazione della norma di diritto.

Glielo si potrebbe dire, in realtà, solo se si considerasse il vizio di sussunzione estraneo all’ambito del modo di deduzione della violazione e falsa applicazione di una norma di diritto. Ma ciò è - credo – impossibile, perché ricondurre il fatto storico decisivo come doveva essere ricostruito sotto la fattispecie di una norma piuttosto che sotto quella di un’altra o addirittura sotto nessuna norma è certamente attività di applicazione della norma o dell’assenza di norme (come quando l’ordinamento non preveda una norma di tutela di una situazione) e, dunque, riconducibile ad una

“falsa applicazione”. E ciò sol che si consenta che la norma cui allude l’art. 360 n. 3 c.p.c. non rileva solo in astratto, ma anche come norma relativa al caso concreto.

Ed allora è palese che il restyling del n. 5 finisce per essere inoffensivo sotto il profilo del quantum di tutela in Cassazione.

A ben vedere, ed ecco che non si può dire che nulla è cambiato, ciò che esso comporta - ed è conseguenza pregrante ed atta ad incidere sul modo di tutela e, dunque, in definitiva in modo indiretto sulla sua effettività – è il modo di postulazione della tutela, che è divenuto certamente più impervio, ma ciò perché il tecnico che redige il ricorso per cassazione è costretto ad una delicata attività che, passando attraverso le scansioni indicate (dirette ad evidenziare come errori di insufficiente o contraddittoria ricostruzione della quaestio facti abbiano determinato vizio di sussunzione e, quindi, falsa applicazione), perviene ad incasellare il vizio logico di insufficienza o contraddittorietà di motivazione su fatto decisivo all’interno del n. 3 dell’art. 360 c.p.c.

In tale ottica interpretativa nemmeno il quarto ed il quinto comma dell’art. 348-ter potrebbero – e sciolgo la riserva che ho espresso sopra – avere un effetto restrittivo e ciò per la semplice ragione che essi precludono il vizio ai sensi del n. 5, mentre qui si invocherebbe il vizio ai sensi del n. 3.

§4. Ve richiamo la seconda ipotesi.

Essa, nuovamente ribadito che l’omessa pronuncia è fuori dal n. 5, si potrebbe imperniare sull’assunto (se si crede rafforzato, ma – a mio modo di vedere senza che sia necessario, per quanto dirò - dall’uso (misteriosamente sibillino) del “circa”, anziché del “di”, presente nel testo originario del n. 5 e sottolineato da taluno in dottrina) che, sì, è vero che la norma si riferisce solo all’omessa motivazione concernente il fatto decisivo, e sì, è vero che tale formulazione potrebbe essere intesa come mancanza formale di motivazione su tale fatto, cioè come omessa considerazione di esso, ma, tuttavia, è pur vero che una insufficienza o contraddittorietà di motivazione su tale fatto, se effettiva, cioè se ridondante – come necessariamente dev’essere ciò che è veramente insufficiente o contraddittorio – in una insostenibile illogicità della motivazione su quel fatto, bene potrà, dal nostro bravo avvocato cassazionista, essere prospettata come una mancanza di motivazione, come una non motivazione, cioè, in definitiva, come un’omessa motivazione. E ciò perché ciò che è illogico e contraddittorio rispetto alla ricostruzione di un fatto, proprio perché tale ridonda in una non motivazione, in una motivazione che è come se non vi fosse.

Nuovamente risulterebbe allora che niente è cambiato sul quantum di tutela, ma molto è cambiato sul modo di postularla, perché l’attività assertiva del nostro bravo cassazionista risulterebbe sollecitata ad argomentare secondo una tecnica molto più sofisticata di quella richiesta prima.

§4.1. V’è da domandarsi se un’incidenza sul quantum si possa verificarsi per il tramite delle previsioni del quarto e quinto comma dell’art. 348-ter: si tratta di incidenza affidata alla problematica

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individuazione della fattispecie dei due commi, che a mio modo di vedere – nonostante la loro sicurezza - i conditores hanno forse sopravalutato.

Partendo dal caso del quinto comma, cioè dal caso che si debba ricorrere in cassazione contro una sentenza di appello pronunciata all’esito del normale procedimento, occorre, infatti, considerare che, se vi era stata omessa motivazione su un fatto decisivo da parte del primo giudice ed essa era stata dedotta in appello ed il giudice di appello ha considerato il fatto nella ricostruzione della quaestio facti , non vi è possibilità di applicare il principio espresso dallo stesso quinto comma, perché la nuova motivazione non potrà essere stricto sensu considerata omessa su quel fatto, dato che ne ha tenuto conto, e, dunque, non potrà essere stata resa con le stesse ragioni.

Una possibile applicazione dell’incidenza limitativa del quinto comma si potrà avere nel senso semmai di impedire l’accesso al n. 5 se la motivazione del giudice d’appello si presenti, nonostante la considerazione del fatto già omesso dal primo giudice, sostanzialmente reiterativa della ricostruzione del fatto nei termini di cui alla motivazione del primo giudice, perché venga espressa sulla base di una valutazione di irrilevanza del fatto già omesso dal primo giudice. Cioè, in definitiva, se l’omissione da parte del primo giudice sia stata rimediata dal giudice d’appello, ma sia ridondata in una reiterazione della motivazione del primo giudice basata sui fatti già da lui considerati.

Altrimenti, se il fatto che il primo giudice non aveva considerato sia stato non solo valutato, ma anche non sia stato considerato irrilevante e, tuttavia, sia stato considerato inidoneo a giustificare una diversa ricostruzione finale del fatto unitamente a quelli già considerati attraverso un nuovo ragionamento che sia costruito logicamente anche su di esso, mi sembra che la limitazione alla deducibilità del n. 5 non potrà verificarsi, perché – a stretto rigore - la sentenza di appello non la si potrà considerare come basata sulle stesse <<ragioni, inerenti alle questioni di fatto>>, in quanto è basata anche sul fatto che il primo giudice aveva omesso di considerare.

Solo se si intende l’espressione – forzando la lettera - come se alludesse al risultato dell’esame del fatto e non alle ragioni attraverso le quali vi si è pervenuto, potrebbe essere giustificata invece una opposta soluzione.

§4.2. Va rilevato, invece, che se il giudice d’appello, pur investito dell’omesso esame di un fatto con apposito motivo di appello, non l’abbia esaminato ed abbia reiterato la motivazione sulla quaestio facti del primo giudice, il filtro del quinto comma dell’art. 348-ter non dovrebbe potere operare, perché l’omesso esame del motivo di appello sarà deducibile ai sensi del n. 4 dell’art. 360 c.p.c., in quanto concernente un fatto costitutivo della domanda proposta con l’impugnazione in appello. Si tratterà di violazione di norma del procedimento, cioè di quella che imponeva al giudice di scrutinare il relativo motivo di appello.

§4.3. Anche nell’ipotesi del terzo comma, cioè di pronuncia di ordinanza ai sensi di esso, potranno riproporsi le medesime considerazioni secondo che il tenore della medesima sia stato nell’uno o nell’altro dei sensi appena indicati per la decisione con sentenza.

§5. Rilevo, in fine, che il restyling del n. 5 dell’art. 360 c.p.c. dovrà fare i conti – e ciò con riferimento ad entrambe le ipotesi ricostruttive sopra formulate - anche con la permanente possibilità che il ricorrente in cassazione lamenti l’omessa valutazione di un fatto decisivo, intesa come mancata considerazione, in quanto emergente da una prova, cioè da un documento o da un mezzo di prova o da un mezzo di valutazione della prova: mi pare che in questo caso l’omessa valutazione e, quindi, l’omessa motivazione circa l’incidenza del fatto, se dedotta come risultato dell’omessa considerazione del documento, del mezzo di prova o del mezzo di valutazione della prova, la si potrà dedurre ai sensi del n. 4 dell’art. 360, cioè come violazione della norma del procedimento di cui all’art. 115 c.p.c., nel qual caso assumerà valore decisivo – mi scuso per il bisticcio di parole - la

“decisività” dell’omessa considerazione, cioè la sua idoneità a giustificare la decisone, che altrimenti avrebbe potuto essere diversa (e ciò specie sul versante del n. 2 dell’art. 360-bis, al quale, se si vuol

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dare un contenuto, si deve attribuire nient’altro che il valore di conferma che la violazione di una norma del procedimento, in tanto può comportare cassazione della decisione di merito, in quanto sia stata decisiva, cioè incidente sulla decisione).

Viceversa, la deducibilità dell’insufficiente o contraddittoria motivazione su fatti risultanti da documenti o mezzi di prova o di valutazione delle prove resta alternativamente possibile – sempre nel rispetto dell’art. 366 n. 6 e dell’art. 369, secondo comma, n. 4 c.p.c. – secondo una delle due ipotesi ricostruttive che ho fatto sopra a proposito delle implicazioni del n. 5.

§6. Tanto nella prima quanto nella seconda ipotesi ricostruttiva del n. 5, la deducibilità in Cassazione dell’errore del giudice di merito nell’applicazione delle norme sulle presunzioni, mi pare che resterà possibile – sempre da parte del bravo cassazionista – come vizio di norma del procedimento, se si dimostri che è stato violato il paradigma dell’art. 2728 o quello dell’art. 2729 (anche in punto di ricostruzione del significato astratto dei concetti di gravità, precisione e concordanza), mentre, quanto alle presunzioni semplici di cui al 2729 in punto di concreto ragionamento presuntivo seguito o non seguito dal giudice di merito, lo sarà: a) secondo la prima ipotesi, con il procedimento atto a dimostrare che il vizio del ragionamento seguito oppure di quello non seguito in punto di presunzione e che ha determinato una motivazione insufficiente o contraddittoria è ridondato in una ricostruzione della quaestio facti che ha determinato un error iuris, cioè una violazione della norma di diritto ai sensi del n. 3 del’art. 360 c.p.c.; b) nell’ambito della seconda ipotesi, nel senso che quel vizio ridonda sulla pur esistente motivazione in ordine al fatto decisivo in modo tale da evidenziarne la insostenibilità e, dunque, la sostanziale mancanza ed omissione, sì da dar luogo al paradigma del n. 5 dell’art. 360.

Resterà fermo, naturalmente, che la critica al ragionamento presuntivo effettuato od omesso dovrà concernere pur sempre un ragionamento diretto a raggiungere la prova di un fatto decisivo e ciò tanto nella prima che nella seconda ipotesi.

Ciò consente di dire che, nel quadro della seconda ipotesi, a proposito della nozione di fatto decisivo ai sensi del nuovo n. 5 resterà fermo quanto la giurisprudenza della Cassazione aveva sottolineato e continua a sottolineare con riferimento alle varie versioni del 360 n. 5 c.pc., cioè che il vizio motivazionale e, dunque, l’omessa motivazione cui ora allude la versione attuale deve riguardare la motivazione rispetto ad un fatto principale, cioè un fatto costituivo o un’eccezione.

Allo stesso modo, nel quadro della prima ipotesi, poiché l’insufficienza o contraddittorietà del ragionamento presuntivo o dell’omesso ragionamento presuntivo debbono essere dedotte in modo idoneo a dimostrare che hanno determinato un error iuris e, quindi, debbono, in pratica, necessariamente essere fatte valere in modo da giustificare una ricostruzione della fattispecie concreta incidente ai fini della c.d. sussunzione, si deve concludere che necessariamente debbano afferisce alla ricostruzione di un fatto principale nei sensi appena indicati.

§7. Conclusivamente, sul nuovo n. 5 dell’art. 360 c.p.c., se non si può dire “molto rumore per nulla”, mi sembra che possa dirsi che il “rumore” sia stato eccessivo.

La tutelabilità dei vizi motivazionali sulla ricostruzione della quaestio facti in cassazione risulta a ben vedere più difficile quanto al modo, ma non riguardo al quantum.

Certamente la tecnica di redazione del ricorso per cassazione sul punto risulta dover essere necessariamente più sofisticata ed ecco allora la difficoltà sul “modo” e la conseguenza pratica che la Corte di cassazione potrà facilmente censurare tecniche di redazione che non rispettino questa sofisticazione.

In ciò e solo in ciò si rinviene un qualche “filtro” se si condivide l’idea, davvero singolare, che un filtro possa essere tale a posteriori, quale in definitiva e nonostante le apparenze sembra quello introdotto dal legislatore del 2012.

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