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L’autoritratto fotografico, strumento del ricordo per l’artista e per lo spettatore

Capitolo 3. L’immagine speculare come memoria

3.3 L’autoritratto fotografico, strumento del ricordo per l’artista e per lo spettatore

La fotografia pare esprimere nel modo più diretto l’aspirazione dell’uomo all’autoritratto, nel senso che parrebbe porsi come un segno situato tra la rigidità dello specchio e la fluidità del dipinto. Ma questo congelamento dell’immagine può essere vissuto in modo ambivalente. È un’ambivalenza che Stefano Ferrari289 fa risalire da un lato nella logica costitutiva del doppio e, dall’altro, nel rapporto con la rappresentazione della nostra effigie: l’autoritratto, sia esso pittorico o fotografico –

“ma nel caso della fotografia la cattura dell’immagine è, come dire, ancora più accentuata e dunque più inquietante”290: se vogliamo, lo scatto è tanto fulmineo quanta è l’impressione di scambiare per un momento la propria immagine speculare per quella di un’altra presenza – se da una parte sembra voler “rassicurare il nostro Io”, dall’altra, nella misura in cui esso rischia di sottrarre la nostra effige, rischia di rappresentare una minaccia, per cui per lo studioso farsi un autoritratto equivarrebbe a una sorta di suicidio291. Parlando dell’autoritratto fotografico è necessario operare una distinzione fra l’autoritratto d’autore, con quanto vi è in esso di progettato, di tecnicamente virtuoso e suggestivo, e l’autoritratto come espressione del gesto di auto-raffigurarsi mediante un qualsiasi meccanismo di autoscatto.

Il primo esempio sembra particolarmente indicato quale diretto emblema della volontà artistica del fotografo che si cattura (e vuole essere ricordato) come operante in tale branca dell’arte. Trovando un parallelismo con l’autoritratto pittorico, in cui

289 S. FERRARI, Lo specchio dell’Io. Autoritratto e psicologia, Laterza, Roma-Bari 2002, qui pag. 137.

290 Ibidem.

291 Ibidem.

comparivano gli strumenti del mestiere del pittore (pennelli, modelli in gesso, ecc.), in quello fotografico l’artista si cattura con il suo occhio-macchina (e protesi), la macchina da presa. Come osserva Jonathan Miller292, tale processo fotografico è più complesso di quel che potrebbe apparire e non corrisponderebbe al semplice congelamento di un’immagine davanti a uno specchio: perché si realizzi questo evento, infatti, occorre, oltre al procedimento chimico, anche un sofisticato processo ottico che presuppone un preciso sistema di lenti in grado di dare la giusta messa a fuoco. L’artista che guarda nello specchio la sua immagine con il desiderio di catturarla nello scatto ci riconduce nuovamente a Narciso, dove però, grazie a una più accentuata possibilità di cattura dell’immagine, cresce anche il desiderio. Come osserva Ferrari:

[…] non doppiamo sottovalutare le implicazioni connesse all’uso di una tecnica specifica e ai suoi progressi: paradossalmente, quanto più è sofisticato il mezzo tecnico tanto è maggiore la facilità dell’operazione che consente di ricreare la condizione archetipica del nostro bisogno di autoritrarci.293

Quando un fotografo si fa un autoritratto, quindi, lo fa in quanto fotografo, in una identificazione spostata sullo strumento, sul mezzo, ovvero sul linguaggio. Come osserva Elio Grazioli sull’esempio delle Verifiche (1970) (Fig. 53) di Ugo Mulas:

Mulas mette in scena sé stesso tra la propria ombra e il proprio riflesso in uno specchio, il volto però del tutto coperto-identificato dall’occhio protesi della macchina fotografica: la fotografia del resto, da parte sua, subisce lo stesso trattamento, presa com’è tra il buio dell’ombra dell’autore e quel riflesso di luce massima sull’angolo sinistro alto dello specchio.294

292 J. MILLER, On Reflection, National Gallery Publications Limited-Yale University Press, Londra 1998, qui pag. 182.

293 S. FERRARI, Lo specchio dell’Io. Autoritratto e psicologia, Laterza, Roma-Bari 2002, qui pag. 139.

294 E. GRAZIOLI, Corpo e figura umana nella fotografia, Mondadori, Milano 2000, qui pag. 282-83.

Figura 53. Ugo Mulas, Verifiche, 1970, fotografia

L’ombra, importante elemento nella fotografia per la sua opposizione alla luce, risente della riflessione platonica, assieme all’immagine speculare, di imitazione fittizia del reale. Assieme all’ombra, anche il doppio riflesso, come il caso delle serie Untitled (1961) (Fig. 54) di Vivian Maier, si presenta come presenza fantasmatica che lo scatto, catturandolo, dota di una peculiare presenza. Di fatto, le presenze speculari presenti negli scatti corrispondono a pieno titolo a quella messa in scena “della presenza di una

assenza”295 quale enunciata da Hans Belting: il rapporto tra l’immagine speculare e il referente non è più né il rapporto tra due sole presenze, né un vincolo con il medium stesso, ma fenomeno semiotico.

Figura 54. Vivian Maier, Untitled, 1961, fotografia.

Ultimo importante esempio di questo genere di autoritratto, è Autorizzazione (1969) (Fig. 55) di Michael Snow. L’insieme dell’opera assomiglia a una istallazione: in uno specchio l’immagine riflessa di una macchina fotografica posta su un cavalletto è coperta da una sequenza ascendente di polaroid che moltiplica l’immagine-autoritratto del fotografo, che si ritrae con il mezzo e nello specchio ogni volta con l’aggiunta della

295 H. BELTING, Immagine, medium, corpo, 2005, qui pag. 87, in A. PINOTTI, A. SOMAINI (a cura di), Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, Raffaello Cortina Editore, Gravellona Toce (VB) 2009, pp. 73-98.

fotografia precedente. Come afferma Grazioli, “così Autorizzazione è più di una foto, è la messa in atto della fotografia stessa, contiene in sé il processo che l’ha originata”296.

Figura 55. Michael Snow, Autorizzazione, 1969, fotografia (e polaroid).

Quando la fotografia cattura l’immagine speculare nello scatto, avviene quindi il fenomeno impossibile in cui l’immagine speculare rimane in un qualche modo fissata su un supporto (quello fotografico e non lo specchio), ma che inevitabilmente snatura,

296 E. GRAZIOLI, Corpo e figura umana nella fotografia, Mondadori, Milano 2000, qui pag. 283.

anche senza distruggere l’oggetto stesso, l’identità dello specchio. L’immagine speculare che diventa traccia è accompagnata a una inevitabile perdita: il prezzo che fa dello specchio un fenomeno semiosico, la cui immagine catturata è capace di trascendere il tempo, è lo snaturamento della sua fenomenologia e, ancor più, la soppressione della libertà dell’osservatore; perché nell’assenza del segno, l’essere umano si trova nell’ambigua situazione di scendere a compromessi tra una massima libertà e una minima possibilità di memoria.

Il ritratto per autoscatto, contrariamente a quello davanti ad uno specchio, porta la totale esclusione della macchina fotografica all’interno dello scatto. Il fotografo che si autoritrae non lo fa con spinto dal desiderio di identificarsi come fotografo, bensì per abbracciare il desiderio che, sulla riflessione di Ferrari, corrisponde al gusto per il travestimento, per la recita, per la possibilità di assumere identità e maschere diverse297, appagando un bisogno profondo che già Freud aveva messo in luce come la necessità di vivere una “pluralità di vite”298. Questa dimensione caratterizza un aspetto essenziale della pulsione all’auto-raffigurazione, che coglie quella valenza più sperimentale e creativa dell’autoritratto. Cindy Sherman rappresenta un esempio molto con la sua serie Untitled Movie Stills (1978) (Fig. 56) dove l’artista si trasforma a sua volta in diverse star del cinema, proseguendo poi con le identità fittizie dei suoi noti autoritratti di grandi dimensioni. Se, da una parte, i suoi travestimenti camaleontici esprimono la ribellione e il rifiuto nei confronti degli stereotipi della cultura di massa, dall’altra, svelato anche quanto la costruzione dell’identità venga fortemente influenzata dai modelli caratterizzanti un determinato contesto socio-culturale.

297 S. FERRARI, Lo specchio dell’Io. Autoritratto e psicologia, Laterza, Roma-Bari 2002, qui pag. 142.

298 S. FREUD, Introduzione alla psicoanalisi e altri scritti, 1915-1917, Vol. VIII, Bollati Boringhieri, Torino 1978, qui pag. 139.

Figura 56. Cindy Sherman, Untitled Movie Stills n. 54, 1979, fotografia.

Nello stesso tempo, questa tendenza al gioco e al travestimento permette di far emergere una sorta di paradosso che si cela nel cuore stesso dello statuto della fotografia: essa si rivela non più solo un’oggettiva certificazione di realtà, ma anche un veicolo privilegiato dei desideri degli uomini. Come afferma Adolphe-Eugène Disderi:

L’apparecchio fotografico, anziché indurre i soggetti a mettere allo scoperto la propria personalità, sembra eccitare in loro, al contrario, l’impulso di nascondersi, a travestirsi, a de-identificarsi. Il modello, anziché cercare di definire la propria rassomiglianza, cerca di assomigliare a qualcun altro [un ipotetico ‘altro’ che anche nello specchio, interpretato secondo Lotman come soglia porosa tra due polarità differentemente organizzate, conduce a esperire l’alterità299]”.300

299 Ju.M. LOTMAN, La semiotica dello specchio e della specularità, in R. GALASSI, M. DE MICHIEL (a cura di), Il simbolo e lo specchio. Scritti della Scuola Semiotica di Mosca-Tartu, Edizioni Scientifiche Italiane, Collana: Semiosis, Napoli 1997, pp. 127-129.

300 A.E. DISDERI, L’arte della fotografia (1862), Nabu Press, versione Kindle 2012, qui pag. 20.

La fotografia diventa potenzialmente uno spazio virtuale, il ‘dentro’ dello specchio che non si può attraversare e che solo ci mostra una utopia differente e irrealizzabile.

Figura 57. Urs Lüthi, I’ll be your mirror, 1971-72, fotografia.

A livello quasi funzionale, l’intrinseca natura trasformistica della fotografia è dimostrata dall’atteggiamento disinvolto che le persone assumono dentro le cabine foto-automatiche o nel mentre sono impegnate ad auto-scattarsi un selfie nella cosiddetta modalità ‘a specchio’, che rappresentano le uniche modalità per l’osservatore stesso di praticare l’autoritratto. Anzi, forse proprio per l’essenzialità e l’elementarità della condizione in cui egli si viene a trovare di fronte all’obbiettivo fotografico, questa esperienza consente di mettere in luce l’ambivalenza sostanziale con cui può essere vissuto l’autoritratto, oscillando da una sensazione di controllo onnipotente a un’altra di totale passività. La possibilità da parte della persona stessa di

realizzare l’autoritratto, corrisponde per Ferrari ad un “grado zero dell’autoritratto”301, un stadio (ricordiamo quello di Lacan) dove, se dall’infanzia è partito ricostruendo allo specchio il suo corpo (percepito come frammentario) e realizzandosi come soggetto simbolico all’interno di un contesto sociale, adesso l’individuo può scegliere tra gli scatti potenzialmente innumerevoli quello che più lo rappresenta. L’individuo, ormai inglobato con la macchina fotografica, possiede l’autonomia di costruirsi, più che uno strumento di autoanalisi, la sua memoria. Il selfie si colloca all’interno dell’autoritratto fotografico dove le immagini dell’individuo, come ‘cose’ che sopravvivranno dello stesso, diventano l’autoritratto della civiltà a cui appartiene, inserendosi nella ragnatela digitale che compone la memoria umana globale: l’individuo, che nell’autoritratto vede sé stesso, si vede come in uno specchio; e vedendosi, vede molto più che sé stesso, ma tutta la civiltà di cui è un riflesso: l’archetipo dell’umanità di cui è parte e fantasma, “le cui tracce sono appena visibili, e tuttavia disseminate dappertutto”302.

301 S. FERRARI, Lo specchio dell’Io. Autoritratto e psicologia, Laterza, Roma-Bari 2002, qui pag. 140.

302 G. DIDI-HUBERMAN, L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte, Bollati Boringhieri, Torino 2006, qui pag. 39-40.

Figura 58-59. Joan Fontcuberta, Gibellina Selfie – Lo sguardo di tre generazioni, 2020, 6075 selfie, Nuova Gibellina.

Conclusione

Il presente elaborato è stato dedicato ad affrontare l’immagine speculare quale medium atto alla conoscenza del Sé e dell’Altro e della memoria, all’interno della letteratura critica e delle opere d’arte che a cominciare dagli anni Settanta hanno visto l’affermarsi dello specchio e del riflesso quale elemento gnoseologico.

L’indagine della fenomenologia dello specchio, affrontata nel primo capitolo, ha portato a considerare l’oggetto come protesi atta all’estensione delle capacità biologiche dell’occhio e a contribuire in modo determinante alla natura dell’uomo come icononauta. L’indagine fenomenologica ha posto le fondamenta per quella semiotica, e lo stabilire il suo legame indissolubile con il referente dell’immagine e il medium che la veicola. La non collocazione dell’immagine speculare all’interno della disciplina, ha portato a considerarla come un oggetto che, anche se capace di costituirsi come un fenomeno-soglia di sistemi organizzativi ‘altri’ (‘nostro-altrui’, ‘corpo- soggetto’, ‘vita-morte’, ecc.) attraverso le indagini di semiotici quali Umberto Eco, Ju.

Lotman e Ju. Levin, è capace di affermarsi come icona assoluta del referente dell’immagine.

In base a questa importante caratteristica che la vede stretta in un vincolo con il referente e il medium, il secondo capitolo ha portato, sull’impalcatura critica e artistica preliminare circa il mitologema di Narciso, a considerarla come fenomeno

‘sospeso’ che consente di raggiungere l’archetipo dell’umanità: nell’indicare rigidamente il referente dell’immagine, il riflesso diventa, attraverso il rendersi sua icona assoluta, archetipo dell’esperire dell’essere umano, dei suoi tratti, i suoi movimenti, i suoi limiti biologici. Lo specchio si afferma, sull’esempio di Jacques

Lacan, come vero e proprio ‘stadio’ atto alla costruzione della soggettività: grazie al riflesso, il soggetto affronta la propria ricostruzione del corpo, si rende consapevole della propria presenza ed esperisce il passaggio da oggetto a soggetto. Il legame che l’immagine speculare instaura con Narciso, ha portato non solo a tale esperire ma anche a considerare tale immagine come vero autoritratto. Attraverso le analisi di intellettuali quali Lea Vergine e Rosalind Krauss, lo schermo si afferma come sostituto dello specchio, diventando un mezzo di auto-riflessione circa la propria corporeità e i propri istinti; l’identificazione speculare diventa, nel ritrovare la propria coordinazione motoria in uno specchio, motivo di conforto e di compiacimento. La specularità diventa una forma di comunione gratificante con il proprio sé.

Ma l’affermarsi dell’immagine speculare come icona assoluta del referente dell’immagine porta una problematica insita dello specchio stesso: la sua incapacità di catturare permanentemente l’immagine. Il paradosso di cui vive tale immagine è quella di un elemento tanto nominale del referente quando estraneo nel tramandare la sua memoria.

Gli esempi di fotografi che, nel terzo capitolo, hanno catturato l’immagine speculare nello scatto, hanno dimostrato come la memoria dell’immagine speculare possa tramandarsi solo via il ‘congelamento’ della sua fluidità attraverso la disciplina fotografica. Ciò ha dimostrato che quando la fotografia cattura l’immagine speculare, avviene il fenomeno impossibile in cui essa rimane fissata su un supporto perdendo inevitabilmente la sua identità fluida: il prezzo che fa dello specchio un fenomeno semiosico, la cui immagine catturata è capace di trascendere il tempo, è lo snaturamento della sua fenomenologia e, ancor più, la soppressione della libertà dell’osservatore; perché nell’assenza del segno, l’essere umano si trova nell’ambigua

situazione di scendere a compromessi tra una massima libertà e una minima possibilità di memoria. La totale autonomia dell’osservatore di produrre il proprio autoritratto fotografico attraverso il selfie, esplica tale perdita accompagnata dal suo inserimento nella memoria globale digitalizzata e, assieme, indica la totale libertà di disporre della propria immagine speculare.

La ricerca, dotandosi di una metodologia interdisciplinare, ha analizzato la natura problematica dell’immagine speculare donando, soprattutto nella considerazione che la vede preponderante nelle nostre vite, una maggiore sensibilità e accortezza sull’importanza che ricopre nella conoscenza del soggetto e del suo ricordo.

Comprendere dunque la fenomenologia dello specchio è fondamentale in un momento in cui i confini tra i settori di ricerca sono labili, in cui digitalizzazione e virtualità sono medium imprescindibili per la formazione di rapporti e di saperi personali e comunitari.

La conoscenza del Sé e dell’Altro permessa dall’immagine speculare è attuale nella prospettiva in cui essa è accentuata, per rapidità, semplicità e dispersione, per mezzo dei dispositivi smartphone; per mezzo dello specchio, essa costituisce l’immagine antesignana del soggetto che guarda sé stesso, e che per mezzo delle attuali tecnologie ha portato a una esplosione del soggetto, capace di affermarsi solo in quando esso è qualcuno303.

303 B.C. HAN, Elogio alla terra. Un viaggio in giardino, nottetempo, Milano 2022, qui pag. 134.

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