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LA NASCITA DELLA REGIA DALLO SPIRITO DEL MODERNISMO

1.1 IL FAUT ÊTRE ABSOLUMENT MODERNE

Essere moderni significa sapere quel che non è più possibile. R. Barthes

Che la regia immetta nella scena i semi della sua modernità è questione ormai acquisita dalla storiografia teatrale14, e le

13 A. Rimbaud, Adieu, Une Saison en Enfer, Id. Opere, Torino, Einaudi,

(1973) 1990, p. 416.

14 Ciò è valido sin dai tentativi più antichi di presa teorica sull’allora nascente

regia. Si veda, ad esempio, Jacques Rouché, L’Art Théâtral moderne, Paris, Édouard Cornély, 1910. Il testo, come ha scritto Mirella Schino, “non esponeva e non si occupava di una singola idea, di uno sguardo particolare sul teatro, ma voleva piuttosto mettere insieme una collana di esempi e proclamare al pubblico l’esistenza di una vera ‘arte teatrale moderna’: non più una serie di bizzarrie o genialità individuali, ma un movimento artistico quasi unitario […]. Questo libro non propone teorie nuove, ma è addirittura fondamentale per il pensiero collettivo, perché, mettendole insieme, trasforma le eccezioni in un movimento verso un teatro nuovo. è ‘arte moderna’, non viene ancora chiamata ‘regia’. Rouché si limita a parlare di esperimenti e di idee nuove del più grande interesse che lentamente stanno prendendo piede nel mondo del teatro. La regia comincia, attraverso l’immagine un po’ semplificata che ne dà questo libro, a prendere una configurazione unitaria, una certa dignità di ‘movimento’. Rouché rese familiari alcuni nomi: Fuchs, Craig, Stanislavskij, Mejerchol’d e Appia […]. È un libro importante per la diffusione di una certa idea di regia e anche per la diffusione dell’idea che esiste un modo ‘moderno’, novecentesco, di pensare alla scena” M. Schino,

La nascita della regia teatrale, Roma, Laterza, 2003, pp. 71-72. A proposito

del lavoro teorico di Rouché si veda anche L. Di Lella, I principi formulati

nell’“Art Théâtral moderne” di Jacques Rouché e la loro applicazione al Théâtre des Arts”, “Il castello di Elsinore”, n. 38, luglio 2000, pp. 67-96. Tra

le prime pubblicazioni interessate al fenomeno registico, accanto al testo di Rouché, va menzionato Cheney, The New Movement in the Theatre, New York, Kennerley, 1916; e Léon Moussinac, Tendances nouvelles du théâtre, Paris, Albert Levy, 1931. Comune, in questi primi esempi, la tendenza a identificare la regia e i registi teatrali come “il moderno” del teatro. Per quanto riguarda l’Italia va ricordato che il primo contributo teorico allo studio

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posizioni che la vorrebbero una funzione connaturata del linguaggio e della prassi scenica, rintracciabile, mutatis

mutandis, in tutte le epoche della storia, sono oggi decisamente

superate.

Resta da capire cosa questa modernità comporti e in che rapporto si collochi rispetto alla più vasta campitura artistica e sociale.

Per Marotti la regia rappresenterebbe, come sostiene Lorenzo Mango, il contributo del teatro “a quella frattura straordinaria che, nel corso della storia delle arti, è rappresentata dalla affermazione del moderno”15. Il fatto, però, che Marotti collochi una tale modernità all’apertura del secolo XX pone alcuni problemi. Lo studioso, infatti, fa coincidere l’avvento del principio di regia con l’affermarsi della reazione idealistica al positivismo, in sostanza col passaggio dall’impressionismo al cubismo, di cui la regia sarebbe “l’equivalente in campo teatrale”16. Così facendo, Marotti nega (o non tiene conto) delle

della regia è a cura di Silvio D’Amico (La regia teatrale, Roma, A. Belardetti, 1947).

15 L. Mango, La scrittura scenica. Un codice e le sue pratiche nel teatro del

Novecento, Roma, Bulzoni, 2003 p. 58.

16 F. Marotti, Amleto o dell’oxymoron. Studi e note sull’estetica della scena

moderna, Roma, Bulzoni, (1966) 2001, p. 24. Marotti produce il giudizio qui

citato, è noto, sulla scorta della rivoluzione scenica compiutà, in particolare, da Appia e Craig. Si noti, però, che una simile posizione è contraria anche alle analisi contemporanee, ad esempio, all’opera di Appia, per le quali l’artista ginevrino sarebbe prossimo precisamente all’impressionismo, come osservava Gobetti dopo aver assistito nel 1923 al Tristano e Isotta con scenografie di Appia. Scrive infatti Gobetti che Appia: “è più innanzi di tutti, solo, nella volontà intransigente ed esclusiva di preparare lo spettacolo moderno. […].Appia è figlio dell’impressionismo e ne porta a teatro la rivoluzione” (P. Gobetti, Opere complete, vol. III, Scritti di critica teatrale, a cura di G. Guazzotti e C. Gobetti, Torino, Einaudi, 1974, p. 573). Sarebbe dunque l’impressionismo (e quindi, ancora, Manet sullo sfondo) ad aver determinato

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posizioni pressoché unanimi dei teorici della modernità artistica - ovvero nel modernismo - i quali ne scorgono l’avvento a partire dagli ultimi decenni del secolo XIX17. Innanzitutto perché – è cosa nota – il primo compiuto tentativo di elaborare il concetto di “modernità” estetica fondandolo su un’adeguata teorizzazione fu proposto da Baudelaire nell’articolo Le peintre

de la vie moderne18, composto per l’essenziale nel 1860 e

pubblicato nel 1863. Tra i testi sulla modernità, nessuna opera è citata quanto questo celebre saggio, valutato come il grande manifesto teorico delle arti e dell’avventura stessa della modernità e lodato da Giovanni Macchia, in un saggio ormai classico sugli studi di Baudelaire critico, per il suo valore pratico e insieme ideale di anticipazione e formazione di tendenza. Opera breve, apparentemente legata al genere dell’omaggio al pittore Costantin Guys, il Peintre è un “poème en prose” dove il valore della modernità viene a coincidere col rapporto autentico che l’artista stabilisce con il proprio tempo: un rapporto che, come sottolinea Ezio Raimondi, diviene

la rivoluzione teatrale postulata da Appia e non, come vorrebbe Marotti, la reazione contro l’impressionismo.

17 Non si tratta qui di essere o meno in accordo con l’autore che denuncia il

sostanziale ritardo del teatro nei confronti delle altre arti sostenendo che esso “in quanto arte sociale è sempre in ritardo rispetto alle espressioni più individuali d’arte, da cui mutua in genere i caratteri – nel momento però in cui essi sono acquisiti definitivamente, accetti alla coscienza comune” (F. Marotti, Amleto o dell’oxymoron…, cit., pp. 21-22). Si tratta piuttosto di obiettare a una lettura che fa coincidere l’avvento della modernità con quello delle avanguardie storiche.

18 Il saggio fu steso da Baudelaire probabilmente nello stesso periodo in cui

stava redigendo il resoconto del Salon del 1859, ma non fu pubblicato che nel 1963 su “Le Figaro” (per l’esattezza, diviso in tre parti, il 26 e 29 novembre e il 3 dicembre). Qui ci si riferisce alla traduzione italiana: Ch. Baudelaire, Il

pittore della vita moderna, in Id. Scritti sull’arte, Torino, Einaudi, (1992)

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possibile solo se si iscrive nella struttura di una contingenza, di una realtà labile e aleatoria, a cui inerisce qualcosa di immutabile e costante: “La modernità è il transitorio – scrive Baudelaire -, il fuggitivo, il contingente, la metà dell’arte, di cui l’altra metà è l’eterno e l’immutabile”19. Nel Peintre la concezione della modernità può essere associata – l’hanno osservato in molti – a quella che Nietszche propone nella seconda Unzeitgemässe Betrachtung20, perché il fondamento di ogni esperienza estetica è il senso perentorio del presente associato alla “memoria del presente”, cioè all’inconfondibile fisionomia che il tempo imprime nelle nostre sensazioni. Da ciò deriva la peculiare capacità, propria dell’arte moderna, di estrarre il lato epico dalla trama del quotidiano, di creare cioè nuove possibilità con la lingua del reale – il reale della propria contemporaneità – traendo dall’epoca presente la traccia dell’eternità.

Il vero artista moderno – Baudelaire l’aveva annunziato sin dal 1845 - sarà colui che “saprà strappare alla vita moderna il suo lato epico, e farci vedere e comprendere […] quanto siamo grandi e poetici con le nostre cravatte e le nostre scarpe di vernice”21. Come sottolinea Federico Ferrari, “Le peintre de la

vie moderne non è solo la summa dell’estetica baudelairiana,

ma è anche il manifesto teorico dell’intera avventura dell’arte moderna. Non molti altri testi possono vantarsi di aver incarnato così profondamente lo spirito di un’epoca, le sue

19 Ch. Baudelaire, Il pittore…, cit., p. 288.

20 cfr. F. Nietzsche, Sull'utilità e il danno della storia per la vita, in Id.,

Considerazioni inattuali, Torino, Einaudi, 1972.

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tensioni, le sue contraddizioni interne, la sua spinta utopica verso il futuro”22.

E Jean-Christophe Bailly, nell’introduzione agli Écrits

esthétiques di Baudelaire, scrive: “questo saggio si configura ,

storicamente parlando, come l’atto di apparizione della modernità, ma la sua forza produttiva è tale che la durata polemica di questo atto si converte in attualità a ogni nuova lettura”23.

Il riferimento alla pittura, nell’opera di Baudelaire, non va inteso in senso restrittivo: il “pittore” della vita moderna è l’artista moderno tout court nelle sue declinazioni plurali, colui che sa cogliere il vasto e multiforme fluire del contemporaneo e tradurlo in opera. Per la scena, questo artista sarà il regista. Il nuovo auspicato dall’autore dei Fleurs du mal è la ricerca rabdomantica di fuochi eccentrici che destabilizzano ogni possibilità di permanenza e di ritrovamento, a vantaggio di un’incessante rimessa in discussione di qualsiasi riferimento consolidato. Il presente non è concepito qui come storia, o meglio, come il risultato della storia: la modernità è per Baudelaire un “indefinito”24 (quelque chose) che, secondo la sua stessa etimologia, è alla ricerca di un modo, di una “misura”. E Roland Barthes, debitore in questo di Baudelaire, precisa che nel modernismo “Il Nuovo non è una moda, è un valore, a fondamento di ogni critica: la nostra valutazione del mondo non dipende più […] dall’opposizione tra il nobile e il

vile, ma da quella tra il Vecchio e il Nuovo”25. La modernità è

22 F. Ferrari, Solitudine del moderno, saggio posto in chiusura di Ch.

Baudelaire, Il pittore della vita moderna, Milano, Abscondita, 2004, p. 71.

23 J.-Ch. Bailly, La surface profonde, in Ch. Baudelaire, Écrits esthétiques,

Bourgois, Paris, 1986, p. 21.

24 Ch. Baudelaire, Il pittore…, cit., p. 288.

25 R. Barthes, Il piacere del testo, in Id., Variazioni sulla scrittura seguite da

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esattamente l’esperienza del tempo, del proprio tempo, tesa alla creazione del “nuovo”. Ma, al contempo, come di contraccolpo, essa si configura come una cesura tra il “vecchio” e il “nuovo”, tra ciò che è ormai fossilizzato e rigido e ciò che ha ancora la flessibilità necessaria per assumere la fisionomia dello scorrere degli istanti. Il regista si installa al centro di questa frattura, e di lì dirige la scena.

La caratteristica della regia moderna è dunque quella di creare cesure, fratture nel corso della storia. E in questo senso il moderno, il regista in quanto artista moderno, è un solitario non solo nello spazio delle relazioni umane, ma anche in quello della temporalità che lega le generazioni tra loro, come aveva intuito con grande precisione Cruciani scrivendo che “la tensione nei teatri del Novecento sembra essere una fondazione sempre rinnovata, ricominciando da capo, del teatro del futuro. Una fondazione sempre dalle prime basi, in cui ha senso cominciare e ovviamente ha senso durare; ma non ha valore e senso svilupparsi, maturarsi, trasmettersi, creare possibilità di ripetizione che precisino e diano ‘ordine e durata’ (come voleva Copeau) a quanto si è delineato. Il senso è sempre e soltanto nel cominciare, aprire vie”26. Egli, da una parte, rompe con il passato, e dall’altra si destina a dover incessantemente tagliare i ponti anche con tutto ciò che costituirà come tradizione. Il nuovo non si rinnova con operazioni di ristrutturazione, va senza tregua reinventato. In altre parole, occorre essere moderni, ogni volta, in modo assoluto27. Tutto questo, ovviamente, si pone al di là di ogni possibile “tradizione del nuovo”, secondo la celebre formula di Harold Rosemberg28.

26 F. Cruciani, In theatrum oratio, in Id., Registi pedagoghi…, cit., p. 228. 27 Cfr. M. Froment-Meurice, Solitudes. De Rimbaud à Heidegger, Galilée,

Paris, 1989.

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Non può darsi una reale tradizione del nuovo, nemmeno quando tale tradizione viva nella sua continua negazione. Colui che sarà capace di essere davvero moderno non negherà il vecchio, ma ne estrarrà il nuovo, creando così la propria solitudine: sarà un “futurista con albero genealogico” come Pasternak diceva di Mejerchol’d. Sta qui tutto il problema della trasmissibilità e della trasmissione del seme registico (o, per dirla con Giorgio Agamben, della trasmissione della trasmissibilità), della tradizione impossibile.

Il regista, e in generale l’artista moderno preconizzato da Baudelaire, è orfano e guarda al suo tempo con occhi da orfano. Occhi aperti sulla presenza e sul presente, per distillare dalla vita “ciò che essa può contenere di poetico nella trama del quotidiano” per “estrarre l’eterno dall’effimero”29. Di qui la lettura più profonda di quel pensiero della Schino - che, diversamente, sarebbe da considerarsi assai semplicistico – sul regista come artista irriconducibile a una definizione pregnante: “Lentamente – scrive la studiosa - cominciò a consolidarsi l’immagine dei primi registi come persone a parte, uniche,

strane, oltre che ribelli. Se anche era difficile da capire quale

fosse il quid della regia, infatti, era però certo che i primi anni e i primi decenni del Novecento avevano portato un cambiamento irreversibile. Ed era altrettanto certo che le persone che lo avevano causato erano tutte segnate da bizzarria ed estremismo, pugnacità, senso della rivolta, propensione a guardare il mondo, il teatro e l’uomo con occhi che andavano al di là della realtà esistente”30.

La questione della “stranezza” della “bizzarria” dei registi in sé non ci dice nulla, ma diventa eloquente se fatta reagire con l’idea di artista che il modernismo asserisce: l’affermazione del

29 Ch. Baudelaire, Il pittore…, cit., p. 288.

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nuovo che vi campeggia, infatti, non esisterebbe se al contempo non venisse tracciata dai riformatori della scena una linea netta di demarcazione, una vera e propria tavola delle negazioni, nei confronti di certi aspetti della cultura precedente. Avviene in teatro, in architettura, in letteratura, in pittura. La ribellione contro i padri è parte integrante dell’atteggiamento modernista, e non solo perché i padri rappresentano la sintesi dei valori che si vogliono scavalcare. È la stessa possibilità di ripetizione di moduli linguistici e formali che viene rifiutata. Il modernista è un “ribelle” nella misura in cui forte è in lui l’imperativo di rifare il linguaggio. Talvolta lo è suo malgrado, come Manet e Appia, spiriti tutt’altro che votati all’agone della disputa critica. Il saggio di Baudelaire viene pubblicato, l’abbiamo accennato, nel 1863, anno cruciale tanto per l’autore che per l’arte moderna: il “primo maledetto”, come lo definì Verlaine vent’anni più tardi, smette definitivamente di scrivere di pittura e Manet, sconvolgendo tutti i canoni estetici dell’epoca, espone

Le déjeuner sue l’herbe e realizza Olympia. Con Manet l’arte

moderna trova il suo primo vero esponente, legato da una travagliata amicizia con il poeta dei Fiori del male, mentre il profeta di quest’arte, Baudelaire, si ritrae, malato e umiliato da un mondo che non riesce più ad afferrare.

La scelta di aver legato l’avvento della modernità artistica a un pittore come Guys appare controversa, specie se confrontata, come fa Ezio Raimondi, con lo strano silenzio che Baudelaire riserva a Manet, vero inauguratore dell’arte moderna. “Tutti gli storici della pittura hanno sempre rilevato la sproporzione così palese tra il quadro stupefacente del critico e il suo soggetto, un ‘petit maître’ del secondo impero. Lo stesso Focillon, più disposto di altri a concedergli generosamente un’audacia analitica e immaginativa, deve ammettere che nel Peintre de la

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vie moderne più ancora di Guys c’è Baudelaire”31. La soluzione proposta da Raimondi è che ciò che viene taciuto per Manet vada cercato nei capitoli su Guys, secondo un moto straniante che porterebbe Baudelaire a scegliere ciò che è eccentrico per situarvi il centro del suo pensiero, del suo progetto sulla modernità, cosa del resto sottolineata da Roland Barthes a proposito della teatralità di Baudelaire, distribuita dappertutto fuor che nei suoi progetti di teatro32.

Era necessario sostare tanto a lungo sul Peintre, anche a rischio di un’apparente digressione contraria a tutte le regole di un esordio, perché è su questo sfondo che si collocano alcuni fatti fondamentali per l’avvento della regia come radicale rinnovamento del canone estetico teatrale.

Il silenzio di Baudelaire su Manet viene infatti riempito da Émile Zola33, infaticabile difensore del pittore e dell’impressionismo in generale, da lui analizzato come strategia visuale di traduzione del principio naturalistico. È in particolare su Olympia che Zola spende le sue fatiche critiche. Olympia non è forse il “primo quadro” dell’arte modernista, dato che il primato è in genere riservato al

Déjeneur sur l’herbe. Esso ad ogni modo rappresenta, scrive

Georges Bataille “il primo capolavoro del quale la folla ha riso solennemente”34, e questo scandalo senza precedenti gli ha

31 E. Raimondi, Prefazione a Ch. Baudelaire, Scritti sull’arte, cit., p. XLIII. 32 Cfr. R. Barthes, Il teatro di Baudelaire, in Id. Saggi critici, nuova edizione

a cura di G. Marrone, Torino, Einaudi, 2002, pp. 27-34.

33 Esitono numerosi interventi dedicati da Zola a Manet. In Italia ne è stata

proposta un’intelligente e ricca antologia in Manet e altri scritti sul

naturalismo nell’arte, Roma, Donzelli, 1993.

34 G. Bataille, Manet, Albert Skira, Genève, 1955, trad. it. a cura di A.

Cartoni, Firenze, Alinea, 1995, p. 17. Marie Elbé aveva pubblicato, in “Documents” (n. 2, 1930, pp. 84-90) con il titolo Manet et la critique de son

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immediatamente conferito l’impatto di una rottura radicale35. Sul fronte estetico, la novità introdotta dall’opera è evidenziata da Zola nel 1867: “Édouard Manet si è chiesto perché mentire, perché non dire la verità; ci ha fatto conoscere Olympia, questa figlia del nostro tempo, che incontrate sui marciapiedi, con le magre spalle strette dentro uno scialletto di lana stinta”36 e prosegue affermando che Manet era riuscito in modo ammirevole a tradurre “le realtà degli oggetti e delle creature”. Sempre nel 1867 Zola compone Thérese Raquin, la quale verrà riadattata dall’autore stesso per la scena e allestita nel 1873 a Parigi al Théâtre de la Renaissance. Era il primo dramma coerentemente ascrivibile al naturalismo e proponeva una visione della scena radicalmente nuova già a partire dal tenore delle indicazioni sceniche. Che esista una consonanza profonda tra Olympia e l’autore che contribuirà alla sterzata radicale della scena teatrale è implicito già dalla qualità dei rapporti intercorsi tra Manet e Zola. Che lo fosse per i contemporanei lo ricorda André Antoine, sottolineando come, al suo apparire, Thérese

Raquin fosse stata letta dalla critica come uno scandalo non

minore a quello provocato dalla famosa tela. In una lettera al direttore dell’“Echo de Paris” (2 giugno 1890) Antoine,

particolare sul Dèjeneur sur l’herbe e sull’Olympia.

35 Anche Antoine, del resto, notava interdetto come si fosse riso della sua

fontana nella Cavalleria Rusticana. Cfr. A. Antoine, Mes souvenirs sur le

Théâtre-Libre, Paris, Fayard, 1921, trad. it. I miei ricordi sul teatro libero,

Roma-Milano, Mondadori, [19..?], p. 111.

36 É. Zola, Une nouvelle manière en peinture, Édouard Manet (1867), citato

da F. Cachin, scheda sull’Olympia in Manet 1832-83, catalogo della retrospettiva al Grand Palais, Éditions de la Réunion des Musées nationaux, Paris, 1983, p.176, trad. it. Édouard Manet, studio biografico e critico, in

Manet e altri…, cit., p. 28. In origine, lo scritto comparve come piccola

“monografia” per la “Revue du XIX siècle” per essere poi ripubblicato, sempre nel 1867, col titolo più impegnativo Edouard Manet, étude

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polemizzando contro il critico Alberto Wolff, ne stigmatizza il tono reazionario citando uno stralcio della recensione che egli aveva riservato al lavoro di Zola: “La mia curiosità è sdrucciolata, in questi giorni, in una pozzanghera di fango e di sangue, che si chiama Teresa Raquin. Entusiasta d’ogni crudezza, il signor Zola ha già pubblicato la Confessione di

Claudio, ch’era l’idillio di uno studente e di una prostituta: egli vede la donna come il signor Manet la dipinge, color di fango, con rosee imbellettature [corsivo nostro]”37.

Il moto di desublimazione del registro accademico innescato da Manet è irreversibile: contagia la scrittura di Zola e irrompe, per suo tramite, nella scena. Parte da qui l’avventura del modernismo, saldandosi precisamente a un movente basso- materiale e “dimesso”, non a quell’astrattismo ideale che pure avrà parte centrale nel suo orizzonte.

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