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LA TECNICA COME STRUTTURA RETORICA DI RIFERIMENTO

CAPITOLO II LE PRASSI OPERATIVE

2.1 LA TECNICA COME STRUTTURA RETORICA DI RIFERIMENTO

Ogni dramma determina dunque una propria messa in scena, e la tecnica teatrale propriamente detta non serve che da limite fluttuante, senza determinare nulla

A. Appia

a. “Non inseguire il fantasma dell’ispirazione”

A New York, il 22 febbraio 1969, di fronte agli attori e ai registi della Brooklyn Academy, Grotowski interveniva a proposito “dell’affaire Stanislavskij” - ovvero della questione sempre aperta circa il ruolo dei Padri della regia all’interno delle pratiche artistiche successive - affermando: “Uno dei malintesi preliminari relativi a questa problematica deriva dal fatto che per molte persone è difficile differenziare la tecnica dall’estetica. E così: ritengo che il metodo di Stanislavskij sia stato uno dei più grandi stimoli per il teatro europeo, in particolare nella formazione dell’attore; nello stesso tempo mi sento lontano dalla sua estetica. L’estetica di Stanislavskij era il prodotto dei suoi tempi, del suo paese e della sua persona”198. Tecnica ed estetica, i due poli che qui abbiamo voluto considerare in momenti distinti dell’analisi, rappresentano i motivi peculiari della riflessione registica e costituiscono, di volta in volta, l’oggetto della continuità e della rottura da parte dei registi “nuovi venuti”: di fronte a Grotowski che considera la tecnica stanislavskiana nella sua attualità e praticabilità contemporanea (sebbene a partire da un confronto con la fase

198 J. Grotowski, Risposta a Stanislavskij, in K. S. Stanislavskij, L’attore

creativo, conversazioni al Teatro Bol'soj (1918-1922), Etica; con una "Risposta a Stanislavskij" di Jerzy Grotowski; a cura di F. Cruciani e C.

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terminale dell’esperienza stanislavskiana, quella votata alla ricerca delle azioni fisiche, e mirando a uno sviluppo e a un perfezionamento di ciò che nel Maestro era rimasto sospeso), abbiamo visto come già Ejzen"tejn denunciava nella tecnica gli stessi vizi che il regista polacco imputa all’estetica, ovvero il fatto di essere “il prodotto dei tempi, del paese e della persona” di Stanislavskij. Qui non ci interessa tanto definire la questione dell’attualizzazione e della trasmissibilità del pensiero dei Padri, quanto circoscrivere alcuni punti salienti attorno cui le prassi operative dei registi primonovecenteschi si organizzano. Nell’analizzare il problema della regia, Marco De Marinis ha così indicato le funzioni principali che il teatro del Novecento è venuto assegnando al regista:

1) spettatore di professione 2) maestro d’attori

3) leader199.

Se la prima funzione può essere accostata a quanto sin qui abbiamo analizzato riferendoci al livello delle estetiche teatrali, è sui due punti successivi che vogliamo soffermarci, innanzitutto affrontando la questione della tecnica.

Essa costituisce, per il regista calato nella pratica scenica, il correttivo pratico del pensiero estetico, la parete di connessione tra l’idealità dello spettacolo immaginato e la sua resa nella densità del fenomeno. Infatti non è un caso se, mentre le teorizzazioni estetiche si pongono come termine ante quem nei confronti dello spettacolo (talvolta anzi apparendo irretite in una zona di pura idealità e incapaci di attualizzarsi nella realtà della scena), il pensiero relativo alla tecnica scenica venga sempre a essere proposto come termine post quem, sistematizzato in metodo solo dopo lunghe verifiche sperimentali: la fissazione teorica del dato tecnico sarebbe,

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insomma, una sorta di riflessione postuma del regista. (Se Antoine non può dirsi pienamente regista, allora, ciò non avviene perché in lui la teoresi estetica non si è compiutamente sviluppata, ma perché ancora non è giunta a maturazione la consapevolezza circa il fronte delle prassi operative).

Già questo costituisce un primo dato portante: laddove le teorizzazioni estetiche dei Padri presentano grande forza d’impatto rivoluzionario e perentorietà visionaria, il pensiero sulle tecniche si offre secondo un moto che esclude la definitiva fissazione formale, a causa del cambiamento e della varietà dei fenomeni incontrati. Così, per Stanislavskij, “gli studi sono fatti apposta per elaborarvi metodi nuovi”200: fin tanto che prosegue il lavoro di ricerca, cioè, ogni cristallizzazione metodologica è considerata essenzialmente parziale. Poiché la tecnica non è un’attività della volontà registica applicata a una materia inerte, ma si rivolge a una pluralità di soggetti viventi e reagenti, è necessario che il tentativo di fondazione di un metodo tenga conto della vivacità delle reazioni degli attori cui essa è rivolta. In questo modo, si vede chiaramente come l’attore non sia per il regista (quello che si volge alla possibilità stessa di avvalersi di un repertorio di tecniche) un astratto oggetto di speculazione in cui la conoscenza si biforca dall’azione. È precisamente nell’attore che viene misconosciuta la diade teoria-pratica che altrove affligge la regia (specie quella del “tessitore paralizzato”), è nell’attore che l’opera immaginata dal regista principia il suo processo d’attualizzazione. Ciò che, ad esempio in Craig, rimane volontà di costruire una forma ideale da proiettare nelle cose (qui il seme della Supermarionetta) nel

200 È quanto afferma Fevralskij in un articolo pubblicato in “Rassegna

sovietica”, ottobre-dicembre 1965, dedicato alle ultime lezioni di Stanislavskij. Cit. in C. Falletti, Il sistema, le Conversazioni, l’Etica:

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regista che lavora fianco a fianco dell’attore è capacità di rintracciare i fattori che favoriscono la configurazione espressiva, ovvero, anziché imporre un proprio ordine all’elemento umano in scena, far leva sul potenziale che esso offre lavorando per farlo più pienamente emergere.

La fondazione delle tecniche attoriche per mano dei Padri fondatori rappresenta, nell’orizzonte del teatro di regia, un elemento a un tempo sovrano e discreto. Sovrano, poiché il pensiero estetico dispiegato sulla scena non si dà se non per tramite loro: non c’è estetica realista senza il Sistema che forma l’attore al realismo psicologico, né costruttivismo senza un germe di biomeccanica sebbene, come abbiamo avuto modo di accennare, tali categorizzazioni sono porose e sussistono in forme sempre più sfumate via via che ci si allontana dal loro atto di fondazione201. Prima della formalizzazione auspicata da Antoine e compiuta con lo sforzo di Stanislavskij infuso nel Sistema, l’attore non può dirsi completamente in grado di padroneggiare pienamente l’emozione autentica (quando pure

201 Cruciani e Falletti hanno postulato un mutuo rapporto tra la tecnica

drammatica e quella dell’attore. A proposito della crisi del dramma che attraversa la scena del teatro del ‘900, i due studiosi scrivono: “Da un lato è l’inadeguatezza della forma drammatica alle nuove esigenze dell’arte teatrale e alle sue nuove istanze, dall’altro è la riduzione del testo a un elemento non prioritario dell’arte drammatica. Soprattutto è la conseguenza di quel processo, definito da Hegel nell’Estetica, che ha trasformato i generi da categorie sistematiche in categorie storiche: il testo drammatico non è più stato la forma del teatro, ne è diventato una tecnica, strettamente interrelata (e si pensi a Stanislavskij o a Brecht) per esempio con quella dell’attore”, F. Cruciani e C. Falletti, Introduzione. I Cavalieri dell’Impossibile: primi piani

sulle esperienze teatrali del ‘900, in Civiltà teatrale…, cit., p. 101. Nel nostro

caso, come abbiamo già avuto modo di indicare, si è preferito parlare di estetiche che non di tecniche drammatiche, reputando la prima definizione più inclusiva rispetto al lavoro di quanti, già a inizio secolo, scartarono l’orizzonte del testo.

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sia in grado di evocarla). In questo modo, sostiene Artioli, “il gesto estetico di cui è portatore rischia a ogni momento la perdita del requisito fondamentale cui ogni creazione artistica è inevitabilmente soggetta, e cioè la presenza di una forma, precipitando tout court nel ‘vissuto’”202.

È poi discreta, la tecnica, in quanto essa è funzionale all’espressione scenica, pertiene alla filigrana dell’opera come mezzo e mai come fine, non appare se non nell’incavo della scena: “La tecnica è precisa – sostiene Mejerchol’d – ma si vede l’imbastitura del compito che non viene coperta dall’improvvisazione. Bisogna sviluppare i temi privi di forza: non si deve vedere il lavoro del matematico”203.

Nella ricerca del canone tecnico, Stanislavskij rimane il maestro assoluto, per quella sperimentazione intorno ai principi essenziali dell’arte dell’attore che durerà tutta la vita e che sarà punteggiata da continue inversioni di rotta, “trasalimenti improvvisi – precisa Artioli - di fronte a verità apparentemente definitive e poi di nuovo intraviste come parziali, inidonee, se non addirittura controproducenti, per l’edificazione di un impossibile ‘sistema’ la cui decifrazione, se analizzata a livello delle soluzioni, presenta tutta la topografia labirintica dei successivi ripensamenti del suo Autore, ma se colta a livello problematico, come messa a fuoco di condizioni e di situazioni, segna una tappa fondamentale nella storia del teatro nella misura in cui essa si configura come uno sforzo senza eguali per l’enucleazione di una fenomenologia dell’arte dell’attore”204. Il cammino che conduce al metodo per la

202 U. Artioli, Teorie della scena…, cit., p. 52.

203 Intervento di Mejerchol’d davanti alla compagnia del TIM durante una

tournée a Char’chov, giugno 1933, in Vs. E. Mejerchol’d, L’attore…, cit., p.

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formazione dell’attore è intrapreso cioè per vie extrametodiche, fatto appunto di “trasalimenti improvvisi” e continui ripensamenti, ed è necessario ribadirlo per affermare il suo carattere costantemente in divenire, cifra dell’unica eredità cui sia lecito appellarsi, tanto più problematica quando essa riguarda il campo della trasmissione del sapere registico. Come ha notato Meldolesi riferendosi all’antagonismo che Brecht, fino agli anni cinquanta, riservò alle posizioni stanislavskiane relative alla prassi registica e all’orizzonte tecnico, “le teorie registiche, essendo formulate in connessione con la sperimentazione pratica, trasmettono, insieme all’ordine del discorso, tracce di disordine esperienziale. Un regista che si rapporta alla teoria di un altro regista – specie se non ne ha una conoscenza approfondita – è portato a reagire mettendo in gioco le proprie esperienze ed esigenze, sostituendo mentalmente la pratica teorizzata con la propria; per cui questa poi infittisce la rete del rapporto, con ampi margini di inconsapevolezza”205. Anche per la biomeccanica – stando a quanto sostiene l’allievo più illustre di Mejerchol’d, Ejzen"tejn – la trasmissione del sapere è di fatto impraticabile, e in tal senso appare significativo che per il suo fondatore fosse “impossibile concepire il metodo astrattamente, senza collegarlo all’esecuzione”206. Quello che i Padri sembrano tramandare non è tanto il metodo in cui viene tradotta l’esperienza, quanto l’esempio di guardare al teatro come preziosa fonte metodologica per sistemi virtualmente infiniti. Vedremo invece nella seconda parte del paragrafo quali limiti sono insiti nel discorso che afferma la validità generale e la trasmissibilità dei vari metodi.

205 C. Meldolesi, L. Olivi, Brecht regista, cit., p. 119.

206 S. M. Ejzen!tejn. Appunti su Mejerchol’d e sul suo teatro, 1931, in Vs. E.

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Nell’orizzonte natale della regia, poiché era impossibile riformare il teatro se non in rapporto all’attore, era necessario che questi venisse educato secondo presupposti integralmente ripensati rispetto al lascito ottocentesco, e dotato di una strumentazione tecnica il più possibile articolata e razionale. Bisogna situare in ciò anche il prestigio allora recente della psicoanalisi, oltre al fascino esercitato dalle teorie di James e della riflessologia di cui s’è detto e su cui non torneremo. Dal momento che era stato possibile, attraverso la sperimentazione, operare una mappatura dell’inconscio e dei meccanismi attraverso cui esso opera, e insieme innescare “a comando” una gamma notevole di reazioni psico-fisiche, era lecito ipotizzare di fondare un sistema integrato, psiche-soma, capace di formare l’attore all’arte scenica.

La tecnica, in ciò, è essenzialmente una struttura retorica, un orizzonte di pratiche atte a mettere in forma un contenuto e a veicolare un’espressione con lo scopo di convincere il pubblico: da qui il famoso “ci credo!” che segnava, pronunciato da Stanislavskij, il raggiungimento da parte dell’attore dell’azione. Dietro i diversi regimi tecnici di Stanislavskj, Tairov, Mejerchol’d, e poi Copeau e Brecht, dei problemi, quasi sempre gli stessi, si pongono, ricevendo di volta in volta soluzioni diverse. Tali problemi ineriscono essenzialmente alla possibilità di fondare, nella tecnica, un modo di procedere per l’attore: un metodo capace di costituire la riserva notevole di elementi espressivi adattabili a diverse situazioni e che, progressivamente assimilato, diviene una “seconda natura” dell’interprete, tale da essere utilizzato per favorire la creatività scenica e “mettere in forma” l’idealità del pensiero207.

207 Resta il fatto che il metodo tecnico, la cui applicazione costante viene a

generare una certa abilità e consapevolezza espressiva nell’interprete, non si adatta poi affatto all’arte registica, quando cioè si abbandona il campo

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Riferendoci alle tecniche in generale eviteremo di analizzarne nel dettaglio le singolari declinazioni, anche se terremo sullo sfondo il Sistema di Stanislavskij, perché è in esso che appare la più completa teorizzazione circa la possibilità stessa di dotare l’attore di un apparato tecnico. Le teorie coeve o successive, benché si sviluppino secondo orientamenti spesso antagonistici rispetto alle posizioni stanislavskiane, sono però accomunate a queste da un medesimo presupposto: quello di dotare l’attore di una struttura di riferimento tale da sottrarlo all’alea e alla mancanza di sistematicità. Come avvertirà Grotowski: “non si può lavorare su di sé (per utilizzare la formula di Stanislavskij), se non si è dentro qualcosa di strutturato che sia possibile ripetere, che abbia un principio, un percorso e una fine, dove ogni elemento abbia il suo posto logico, tecnicamente necessario”208.

In ciò, anche la biomeccanica rappresenta un metodo atto a fornire all’attore una certa riserva di gesti codificati, oltre a costituire un allenamento globale dell’interprete in funzione del momento espressivo che dovrebbe rimanere dominio esclusivo della soggettività attoriale coinvolta nello spettacolo. Le ricerche di Mejerchol’d si sviluppano in un’epoca in cui, accanto alle sperimentazioni per favorire una libera espressione del corpo nasceva, in ambito ancora teorico, il tentativo di razionalizzazione massima del movimento per conformarlo alle esigenze del lavoro. Il Dottor Dappertutto partecipa alla

dell’effettivo accadere scenico (compreso nella fenomenologia dell’attore) per il piano più alto dell’orchestrazione generale dell’evento e del disegno estetico: più si gestisce l’opera nel suo insieme, e più è alle capacità innate del regista, e in particolare del suo talento personale, che ci si rivolge.

208 J. Grotowski in T. Richards Al lavoro con Grotowski sulle azioni fisiche,

con una prefazione e il saggio "Dalla compagnia teatrale a L'arte come veicolo" di Jerzy Grotowski in una nuova edizione aggiornata, Milano,

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comune passione che, in ambito costruttivista, viene riservata al modello meccanicista e al taylorismo, ma è in generale l’ambiente teatrale che accoglie con fervore la crescente diffusione di principi funzionalistici e comportamentistici. Nel costruttivismo appare comunque in massimo grado l’esaltazione dell’elemento tecnico, la cui bellezza risulta da un equilibrio mirabile tra razionalità e irrazionalità, come spiega con grande efficacia Karel Teige: “L’inspiegabilità della bellezza della macchina sta evidentemente nella sua irrazionalità. E così le macchine possono essere esempio non soltanto di un cervello moderno che lavora logicamente, ma anche della sensibilità moderna […]. Contro il procedimento della logica meccanica ed elementare, parliamo dell’intervento di un fattore biomeccanico: l’invenzione. La forza biomeccanica dell’inventiva umana non può essere definita. Nella serie vi è sempre posto per uno sconvolgimento: l’invenzione è l’unico fattore casuale imprevedibile dell’industria e della tecnica. Ogni altra casualità viene da essa esclusa, e non può esservi

invenzione là dove regni la casualità”209.

Non va comunque dimenticato che un concetto razionalistico è all’opera all’interno della necessità di proporre un “Sistema”: rendere quantificabile e reiterabile la creatività e il talento personale (innato), renderlo, in qualche modo, tecnicamente riproducibile. Evidentemente non ci si riferisce qui a una reiterazione di tipo meccanico, ma alla necessità di condurre entro i binari della preventivabilità e prevedibilità la performance dell’attore.

La tecnica propone un’idea di recitazione composta secondo un principio di montaggio, tanto nel gioco individuale o d’insieme delle sue manifestazioni esteriori, che nella zona dove il

209 K. Teige, Il costruttivismo e la liquidazione dell’arte, in Id., Arte e

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montaggio è solo “intuibile, cioè all’interno dello stesso ‘sancta sanctorum’ dell’atto creativo”210: è Ejzen"tejn che ne fornisce una sintesi di precisione, proseguendo: “Si tratta di quel segreto grazie al quale l’attore ottiene, pur con metodi convenzionali, guidati e studiati, espressioni di viva emozione e autenticità di sentimenti che ‘non si possono ordinare’, che si possono solo far sorgere spontaneamente come l’armonia sorge dall’unione di più melodie”211.

Il “sancta sanctorum” dell’atto creativo non risulta aggredito dalle tecniche, esse non si propongono in alcun modo di lederne l’integrità: nelle intenzioni di Padri, l’apparato tecnico subentra nella costruzione di un’impalcatura (o di una partitura), che protegge e organizza in forma l’espressione, liberando l’attore dal “fantasma dell’ispirazione”, come precisa Stanislavskij consigliando all’attore di “Non inseguire il fantasma dell’ispirazione. Lascia questo compito alla natura, e tu preoccupati solo di ciò che è accessibile alla tua coscienza di uomo […]. Il problema fondamentale della psicotecnica: portare l’attore a una condizione creativa che consenta il prodursi del processo creativo subcosciente. […] Ma non sperate mai di arrivare direttamente all’ispirazione per l’ispirazione. […]. Pensate invece a ciò che risveglia i motori della nostra vita psichica, all’autocoscienza sulla scena, al ‘supercompito’ e all’‘azione continua’; in una parola a tutto ciò che è accessibile alla coscienza. Con il suo aiuto, imparate a creare una base favorevole per il lavoro inconscio della nostra natura artistica […]. Essa [la psicotecnica cosciente] sa

210 S. M. Ejzen"tejn, Teoria generale…, cit., p. 169. 211 Ibidem.

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costruire i procedimenti e le condizioni favorevoli al lavoro creativo della natura e del suo subconscio”212.

Il tentativo di razionalizzazione che le tecniche operano non è in alcun modo meccanico, ma appartiene integralmente alle logiche del vivente, limitandosi, nelle intenzioni di Stanislavskij, a “preparare il terreno favorevole” per il manifestarsi dell’ispirazione. È questa ricerca del vivente il crinale dove si apre la faglia che divide, ad esempio, il padre del Sistema da Craig, il quale infatti, nel definire il principio d’ispirazione della sua Supermarionetta, sostiene che essa “non competerà con la vita – ma piuttosto andrà oltre. Il suo ideale non sarà la carne e il sangue ma piuttosto il corpo in catalessi: aspirerà a vestire di una bellezza simile alla morte, pur emanando uno spirito di vita”213.

Ciò che reputiamo faccia problema, è il fatto che la tecnica comincia a condurre con sé, a teatro, il progetto ideologico: Mejerchol’d, ad esempio, lo dice chiaramente: “La tecnica ha una base ideologica”214. Tale ideologia risulta essere sia di segno politico (nel Dottor Dappertutto e nel suo allievo Ejzen"tejn, ma anche, come vedremo, in Brecht e nella sua ricerca del “gesto sociale”), che prometeico, come sforzo volto ad arginare le difficoltà dell’attore nei confronti della ripetizione, ovvero contro quell’altro paradosso dell’attore che coincide con la necessità e la contemporanea impossibilità del

212 K. S. Stanislavskij, Il lavoro dell’attore, a cura di G. Guerrieri, Bari,

Laterza, 1975, vol. I, pp. 342 e 353-363. Gli ultimi due periodi del brano citato non compaiono nella traduzione italiana e sono stati qui ripresi grazie all’integrazione reperibile in S. M. Ejzen"tejn, Teoria generale…, cit., p. 172.

213 E. G. Craig, L’Attore e la Supermarionetta, cit., p. 51.

214 Intervento di Mejerchol’d davanti alla compagnia del TIM durante una

tournée a Char’chov, giugno 1933, in Vs. E. Mejerchol’d, L’attore…, cit., p.

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ripetersi215. Emil Hrvatin, guardando a questo teatro dall’osservatorio offerto dalla scena contemporanea (che irrimediabilmente, per le soluzioni che presenta, vizia lo sguardo dello studioso slovacco e il nostro), commenta: “Il teatro modernista si è opposto all’‘eterno ritorno della differenza’, considerato come un sintomo dell’incapacità dell’attore di ripetersi. […] il teatro modernista ricorre al rito, oppure alla tecnologia, perché entrambi si basano sulla ripetizione e sulla possibilità di ripetere. La Übermarionette di Craig non è altro che la ricerca di un attore che possa ripetere, e di un teatro che possa essere ripetuto”216. È ancora pensabile, oggi, la possibilità di ripetere, la tensione nell’affinare tecniche che questa possibilità favoriscono, per chi si sia fatto carico

215 Brecht aveva ravvisato i limiti del Sistema alla fine degli anni trenta

(quindi prima della “conversione a Stanislavskij” che avverrà vent’anni più

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