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DISPUTA SULLA NATURA DELLA REGIA CONTEMPORANEA

CAPITOLO II LE PRASSI OPERATIVE

NELL’EPOCA DELLA SUA ACCELERAZIONE

3.1 DISPUTA SULLA NATURA DELLA REGIA CONTEMPORANEA

a. Moderni e soprvissuti

A chi s’avvicini al tentativo d’analisi delle estetiche e delle prassi operative del contemporaneo registico, una questione si impone: quale rapporto si debba istituire, in sede teorica, con il lascito della “tradizione”. Se infatti, da un lato, molte esperienze rivendicano una totale estraneità rispetto all’eredità modernista, altre affermano invece la necessità di “riattivare” le acquisizioni maturate dalla regia primonovecentesca. La dialettica che si instaura tra questi poli antitetici è quella che distingue il “moderno” dal “sopravvissuto”. È stato Alain Finkielkraut a proporre una simile opposizione: riflettendo sulle posizioni di un “moderno radicale” come Roland Barthes, Finkielkraut ricorda come egli arrivi a un certo punto a sostenere: “Di colpo, non essere moderno mi è risultato indifferente”374. Barthes scrisse questo all’indomani della morte della madre. Perché? “Perché il lutto - scrive Finkielkraut – l’ha trasformato in un sopravvissuto, e perché non si può essere contemporaneamente un sopravvissuto e un moderno integrale. Perché il semplice fatto di sopravvivere alle persone contiene una smentita alla rappresentazione del tempo veicolata dall’idea stessa di moderno”375.

Il moderno è l’uomo al quale il passato pesa. Il sopravvissuto è l’uomo al quale il passato manca. Il Moderno vede nel presente un campo di battaglia tra la vita e la morte, tra un passato soffocante e un futuro liberatore. Il sopravvissuto, invece, per il solo fatto di ricordare un morto, vede rompersi lo slancio verso

374 R. Barthes, cit. in A. Finkielkraut, Noi, i moderni, Torino, Lindau, 2006, p.

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il futuro. Il Moderno è l’uomo che corre più veloce del vecchio mondo perché ha paura di esserne sopraffatto, il sopravvissuto cerca di trattenere il vecchio mondo, sapendo di non aver alcuna possibilità che non sia esclusivamente testimoniale. Il Moderno è felice di superare il passato, non così il sopravvissuto, che il passato vorrebbe tesaurizzarlo. Il passato, infatti, non è per lui mortifero, ma mortale; non è oppressivo, ma precario. Essere moderni significa separarsi, sormontare, andare avanti, progredire, trascendere: movimento attivo, conquistatore, volontario. Sopravvivere vuol dire essere abbandonati. Il moderno va avanti, il sopravvissuto guarda indietro. L’uno è progetto, l’altro rimpianto.

Entrambe le posizioni sono lecite, chiaramente, nel dominio del contemporaneo, e sarebbe un errore indicare una gerarchia di valori per cui il “moderno” sopravanzerebbe in rango il “sopravvissuto”, a patto che ci si intenda sul significato da attribuire a quest’ultimo. Nel nostro caso, infatti, il regista “sopravvissuto” non propone un itinerario nostalgico nel regno delle ombre registiche, non appare prostrato, annichilito da un lutto, ma è colui che ricorda il morto, colui che s’incarica di un ruolo testimoniale nel presente. Walter Benjamin ha descritto così il suo Angelus Novus, l’angelo della storia o l’artista, non fa differenza, con lo sguardo rivolto al passato che gli appartiene e con le ali impigliate nella tempesta che lo spinge verso il futuro. L’unica possibilità che un regista ha di conservare il lascito della tradizione è quello di passarlo per il setaccio del tempo presente, di verificarlo alla prova del suo contemporaneo.

b. Contro i prefissi in post-

Moderni e sopravvissuti: le due direzioni si insinuano e si confondono nella trama delle opere del nostro tempo, per cui

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qui non ci atterremo a quei principi di posterità (sempiterna facilità dei prefissi in post-, che intervengono a tutto risolvere nel dominio delle definizioni!) che intendono gelidificare il divenire scenico in categorie fissate come successive-a. Non ci troviamo insomma di fronte a un teatro di regia post- modernista, ma a un teatro che mantiene rapporti complessi e non univoci col modernismo scenico.

Ciò che qui interessa maggiormente, è indicare una linea di tendenza o di tensione nelle pratiche sceniche fondate sulla centralità registica, insistendo su come queste elaborino i paradigmi del proprio tempo, le consegne della propria società. Perché è chiaro che l’opera registica è una certa forma del

mondo, che cambia col mondo, e come tale procede sia

mettendo alla prova la propria validità parlando i vecchi linguaggi dei Padri in maniera nuova, sia lavorando per far sorgere un nuovo linguaggio capace di scalzare completamente quelle voci. La differenza più rilevante rispetto alle spie che, tra gli anni settanta e gli ottanta, resero in qualche modo lecito parlare di post-modernismi teatrali, si situa nel fatto che la scena nostra contemporanea non soccombe al “tracollo ‘autotelico’ dello sperimentare puro” denunciato da Maurizio Grande. Non afferma, questa scena, “un volere del nuovo al quale l’arte moderna non ha potuto sottrarsi, e al quale l’estetica post-moderna non ha saputo rispondere, se non con il fiancheggiamento edonistico della frammentarietà luminescente del sempre-identico moltiplicato all’infinito, riproducibile prima ancora d’essersi manifestato e d’essere stato riconosciuto e interpretato. Prima ancora d’essere stato elaborato nel linguaggio e riformato nell’arte”376. Se è vero che l’arte moderna non ha potuto sottrarsi alla ricerca del nuovo (e qui la

376 M. Grande, La riscossa di Lucifero: ideologie e prassi del teatro di

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sua grandezza), è altrettanto vero che, oggi, la “frammentarietà lucente” delle impotenze post-moderne è del tutto scavalcata a favore di un rapporto col nuovo che, in effetti, porta il segno inconfondibile delle rivendicazioni primonovecentesche anche quando rinuncia a qualsiasi filiera ereditaria. Ma di questo parleremo oltre.

Dei fenomeni rubricati sotto la voce post-modernismo – e oggi vastamente superati – rimane ad ogni modo un lascito che determinerà anche il ritmo di questa nostra analisi: e cioè che, a differenza dell’epoca modernista, è oggi impossibile guardare alla scena dell’arte teatrale senza registrare la radicale differenziazione che la abita, la polverizzazione in una galassia plurale di voci di quanto nel modernismo confluiva in un canale comune e sotto la voce sintetica di un “movimento”. Viene cioè completamente meno la nozione di un universo collettivo, capace di muovere adesioni o scomuniche: non esiste più il programma di un Naturalismo, di un Simbolismo, di un Costruttivismo… Se questo, da una parte, autorizza l’artista a dichiararsi libero di intraprendere una via radicalmente personale nella costellazione plurale delle possibilità (sovrapponendole, intrecciandole, facendole entrare in collisione), è d’altro canto assai più arduo, per l’analisi che s’appunta sui fenomeni dell’oggi, evidenziare alcune direttrici di senso che non risultino occasionali.

Ma intanto, dov’era la regia nella vasta età di mezzo che scorre tra le esperienze propriamente moderniste prese in analisi nella prima parte del presente lavoro e il nostro contemporaneo? Qui conviene guardare brevemente alle posizioni dell’analisi critica e non a quelle dell’arte scenica. Marotti, l’abbiamo ricordato più volte, decreta già a partire dagli anni sessanta lo scadere del principio registico in un esercizio più che altro formale, largamente istituzionalizzato e prosciugato della spinta reattiva

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e utopistica che ne aveva mosso i primitivi sviluppi. Artioli, addirittura, retrodata di molto i sintomi di un’involuzione registica, giungendo a collocarli nel cuore stesso del modernismo: “proprio nel momento in cui le istanze che ne hanno motivato la genesi sembrano conoscere, in personaggi d’eccezione come Tairov o Max Reinhardt, il loro acme, si trovano contemporaneamente come deprivate di senso, ridotte a una tramatura scintillane ma vuota”377. Da qui in poi, la regia conoscerebbe le tappe di un’inarrestabile decadenza, denunciata anche da De Marinis che individua i segni del suo “superamento” a partire dal decentramento della posizione registica operato nel corso del Novecento, in specie da quello che lo stesso autore ha definito il Nuovo Teatro.

Posizioni, tutte, lecite e capaci di interpretare i segnali della scena su cui s’appuntano, ma non adeguate all’analisi dell’oggi che infatti, anche nelle sue sponde critiche, sta vivendo un periodo di rinnovata attenzione verso il fenomeno registico. Certo è che la crisi di certa regia, la “decadenza” di norma assegnata a tutta una vasta età di mezzo (inaugurata dalla sentenza di morte di Marotti e idealmente chiusa dalla proposta di De Marinis di parlare di un’eclissi in senso post-registico) è principalmente imputabile a certe tendenze del post-moderno che, mettendo l’artista di fronte a forme ormai divenute vuote, lo pone nella necessità di rinnovare gli stessi mezzi di “modellizzazione” dell’opera. La regia appare infatti, specie all’altezza cronologica cui si riferisce il post-modernismo (anni settanta-ottanta) come giunta a un estremo limite di inaridimento, come una categoria divenuta storicamente satura e dunque impraticabile.

377 U. Artioli, Autonomia e eteronomia della scena all’epoca della

“riteatralizzazione”, in Id., Alle sorgenti del teatro della crudeltà, Frosinone,

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Ma è interessante notare che, quanto da Marotti è rintracciato come motivo di involuzione, ovvero l’arenarsi della spinta rivoluzionaria propria delle esperienze primonovecentesche, si trova oggi nuovamente al centro di una serie di pratiche sceniche che Georges Banu ha accomunato sotto la voce “épreuve de risque”, definizione che contiene in sé un barlume genesico, l’arresto di un periodo di sostanziale stagnazione avara di contenuti e di rivendicazioni.

Tali pratiche, precisamente, sono imputabili ad artisti che a pieno titolo si definiscono (in maniera auto-riflessiva prima di tutto) registi. E tra quelli che Banu prende in esame, in quanto campioni di una simile presa in carico del rischio, figurano Romeo Castellucci, Thomas Ostermeier e Jan Fabre, i tre esempi maggiormente frequentati anche nello studio che ci accingiamo a sviluppare.

c. L’épreuve de risque

Il vasto ridimensionamento della sua carica critica, reattiva e rivoluzionaria patito dalla regia in seguito all’acme modernista, pare oggi essere messo in discussione da una serie di esperienze importanti, per cui sarebbe lecito riferirsi ad esse come rappresentanti di una sorta di rinascimento registico.

Conviene qui sostare un poco sull’analisi di Banu, che giunge a ricapitolare, grazie alla congiuntura particolare di un Festival, quello di Avignon, e di un’edizione, quella diretta da Jan Fabre, i tratti salienti di un certo teatro di regia contemporanea che lì si trova a essere convocato. A proposito dei rappresentanti di questa scena, tra cui spiccano, come abbiamo anticipato, lo stesso Fabre, Castellucci e Ostermeier, Banu scrive: “Leurs réponses varient, les spectacles aussi, mais réunis ils procurent le sentiment d’une communauté contemporaine qui s’affirme choralement, sans pour autant faire le sacrifice de soi, bien au

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contraire. C’est plutôt cela qui légitime les positions adoptées, les libertés prises, les troubles suscités. ‘Être soi’, non pas comme repli individuel mais comme appel lancé en direction des autres, êtres auxquels le plateau rappelle le goût de l’intransigeance, le refus de la démission, l’horreur de l’aliénation. […]. Le risque, on ne cessera pas de le décliner ici, implique rupture de consensus et fracture des normes au nom d’un renouveau nécessaire à l’heure de l’intranquillité. Si la provocation, tant prisée par certaines avant-gardes soucieuses d’engendrer des événements déflagrateurs, est indissociable d’une prise de risque, la réciproque ne s’impose pas impérativement. Il peut y avoir prise de risque sans provocation, risque indispensable, risque qui appelle à secouer les strates de la tradition, risque dont les effets sont profonds et les conséquences durables. Par la provocation, on négativise surtout, par le risque, on aspire au dépassement affirmatif. Cette conviction anime les artistes réunis ici. Elle les relie. Admettons-le : il y a un optimisme du risque. Et cela dans la mesure où les artistes adhèrent et se consacrent à un combat qu’ils entendent mener au nom de cette contestation critique dont l’Occident fit sa marque identitaire, et qu’ils cherchent aujourd’hui à pleinement raviver. Le risque surgit lorsqu’au devoir de transmission succède l’appétit d’insoumission. Il a Prométhée pour ancêtre.

“Le risque s’allie à la révolte, ils sont inséparables. Pourtant on ne peut les assimiler tout à fait car la révolte suppose une implication plus explicite dans le monde, un dialogue plus tenu avec l’histoire sans faire pour autant l’économie d’une transgression des pratique établies. Dans l’acception qui lui est accordée ici, la révolte, dépourvue d’idéologie et d’utopie, témoigne d’un engagement au nom d’incontestables valeurs civiques : elle lance une injonction contre tout accord tacite ou

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résignation implicite. On ne peut pas se taire face aux scandales de l’histoire, ni se plier au cours des choses…La révolte répond à un devoir de vigilance, devoir qui exige également la travail sur les formes sans lequel pointe la chute dans le pièges de l’art militant. L’épreuve de risque et le défi de la révolte s’inscrivent dans un même dynamique, comme si l’énergie acquise par le dépassement des frontières et le dialogue interterritoriale des arts alimentait le pulsion de combat. Le risque cultive le décloisonnement ‘entre’ les arts, la révolte engage dans le mouvement ‘vers’…”378.

Abbiamo voluto riportare un tanto ampio stralcio per evidenziare un dato portante: l’analisi di Banu, cui aderiamo senz’altro, risulta perfettamente coerente col profilo della contemporaneità registica cui guarderemo anche in questa sede, ma c’è di più. Se infatti le volessimo astrarre dagli oggetti cui sappiamo si riferiscono (Castellucci, Fabre, Ostermeier, ecc..), queste parole si adatterebbero senza dubbio alla nascita della regia. L’ottimismo del rischio, il dialogo interterritoriale tra le esperienze di punta, il loro valore comune che non disconosce però l’affermazione del singolo artista inteso come individualità creatrice, l’intransigenza delle proposte e, non ultimo, un sospetto più o meno nutrito verso la tradizione, sono caratteristiche peculiari della regia primonovecentesca. Che si ponga nei termini di una continuità o di una rottura con la tradizione poco importa, la scena registica contemporanea pare “ricaricare” l’esperienza già vissuta dalla regia nascente. Sebbene l’assunto risuoni di memorie vichiane, la scena pare manifestare la liceità di una simile posizione: Castellucci e Craig, insomma, sono fratelli fuori dalle orbite del tempo.

378 G. Banu, La nouvelle subjectivité, “Alternatives Théâtrales”, nn. 85-86, II

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d. Una proposta dialettica

Addentriamoci allora nelle proposte specifiche di due registi che, per la fisionomia stessa delle loro pratiche, si situano come due casi eccellenti d’analisi dialettica: Thomas Ostermeier e Romeo Castellucci, un “sopravvissuto” e un “moderno”, e situiamoli di fronte alla prima questione che qui stiamo investigando, ovvero il problema della tradizione. Afferma il regista cesenate: “La tradizione italiana è fondata sulla caratteristica dei tipi. Ci sono cioè dei caratteri, nella tradizione italiana, mentre invece noi sappiamo che Stanislavskij ha puntato tutto proprio sull’idea di scavo e di interpretazione, su un lavoro che passa attraverso la psicologia e l’analisi del personaggio all’interno della coscienza dell’attore. Nel mio caso non esiste né l’uno né l’altro; ma queste due vie non sono negate, sono semplicemente due tracce disconosciute, due tracce che rimangono sospese. Il mio lavoro è di tipo oggettivo e riposa sul corpo dell’attore. È una scoperta, un incontro che si fa con degli uomini e delle donne disposti a vivere questa avventura. Non necessariamente è chiesta una professionalità, che comunque si acquisisce, nel senso che gli attori che lavorano con me non fanno un lavoro spontaneistico, né di improvvisazione, ma ‘diventano’ professionisti. Ciò che rende importante un attore in questa esperienza è il suo spirito, la sua faccia e il suo corpo. La verità del suo corpo si inscrive con esattezza all’interno della finzione dello spettacolo. Sono presenti le due temperature: da una parte la struttura logica di principio di movimento, e dall’altra il corpo e le sue verità, che è la forma di comunicazione più breve possibile e anche più sconcertante, più acuta. Il corpo è il minimo comunicabile, nel senso che anche un animale ti capisce perché in grado di vederti e di sentirti. Il corpo è il punto di partenza e probabilmente anche il punto d’arrivo, dopo aver compiuto un’ellissi, dopo

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aver attraversato e scosso anche il corpo degli spettatori. Quindi direi che questa è un’idea fondamentale che sorregge il lavoro degli attori, non contro la tradizione, ma disconoscendo la tradizione che è italiana ed europea”379.

Altrove, Castellucci scrive: “La tradizione ha senso solo se si lascia attraversare da una specie di veglia semicosciente, e se alla fine ci consegna in una corrente continua le forme resistenti che si riaffacciano al mattino, come fredde potenze anonime, universali. La tradizione che esiste e che opera, corre tutta all’interno, come colonna spinale, e senza mai venire alla luce”380. Come si vede, il regista non sembra perorare la causa di una rottura integrale, quanto piuttosto la proposta di vivere la tradizione come il luogo delle forme resistenti che, come le formule del pathos di Aby Warburg, corrono sotterranee, emergendo come baluginii improvvisi e inattesi.

In Ostermeier, al contrario, sono costanti i riferimenti all’orizzonte della prima metà del Novecento, e un confronto assiduo e diretto con una certa tensione scenica incarnata per lui, principalmente, dalle figure di Mejerchol’d, Ejzen!tejn, Brecht. Per il regista tedesco si tratta, in prima battuta, di uno sguardo concreto alle pratiche sceniche, alle modalità dell’esercizio registico nella dimensione delle prassi operative. In ciò risulta determinante la formazione stessa di Ostermeier che, come analizzeremo meglio nello studio che ci accingiamo a sviluppare (in particolare nel IV capitolo), si forma in una scuola berlinese “istituzionale”, la Ernst-Busch, dove è iniziato,

379 R. Castellucci, in L’universale: il più semplice posto possibile. Intervista a

Romeo Castellucci, di B. Marranca e V. Valentini, “Biblioteca teatrale” n. 74-

76, aprile-dicembre 2005, pp. 247-248.

380 R. Castellucci, Il palcoscenico definitivo. Attitudine in stato di veglia e

intimità dello spettatore, “Il Patalogo” n. 28, Milano, Ubulibri, 2005, pp. 259-

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sotto la guida di Gennadi Bogdanov, all’esercizio della biomeccanica. Così Ostermeier matura la convinzione che nelle “scoperte” di Mejerchol’d riposi una qualità essenziale dell’espressione scenica, che la biomeccanica, oltre ad essere un efficace sistema di allenamento, rappresenta lo specimine stesso del ritmo teatrale, da lui considerato alla base di qualsiasi pratica registica: “Aujourd’hui, Meyerhold m’influence encore beaucoup, en particulier tout ce qui relève de la question du rythme au théâtre et de cette différence essentielle entre le rythme de la réalité d’une scène quotidienne et le rythme de la scène au théâtre. Le rythme permet d’insérer plus d’information dans un seul moment théâtral. Il permet de raconter sur plusieurs niveaux : la langue, le comportement corporel, la situation entre le partenaires, la situation des corps dans l’espace, la lumière, la musique…”381.

D’altro canto, Brecht è considerato determinante per la formazione dell’artista e per i successivi orientamenti del suo lavoro. Ostermeier parla precisamente di “filiazione”, affermando: “Cette filiation passe d’abord par le choix de l’Ecole Ernst-Busch. J’ai voulu faire ma formation dans cette istitution, car c’était le seul endroit où le théâtre était encore dans la tradition de Brecht, autrement dit dans une tradition de théâtre engagé. Il s’agit de transmettre une conception du théâtre qui ne se réduise pas à un espace de création artistique, mais défende également sa place comme un espace de pensée dans la société, dans la cité. Le théâtre doit pouvoir traduire un point de vue sur la société. Il a une responsabilité politique. L’Ecole Ernst-Busch était le seule où j’imaginais pouvoir étudier, parce qu’elle défendait les valeurs brechtiennes du

381 Thomas Ostermeier, introduction et entretien par S. Chalaye, Paris, Actes

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théâtre engagé et, même si aujourd’hui cala a un peu changé, l’école essaie toujours de travailler dans cette tradition”382. Ostermeier si pone così, a pieno titolo, entro la filiera di una tradizione, che egli contribuisce a vivificare e, cosa non secondaria, a trasmettere, decidendo di insegnare nella stessa scuola dove si è formato.

Su questo bivio, in cui la “secessione” di Castellucci e la relativa adesione ai principi del modernismo registico di Ostermeier impattano duramente, si gioca la scommessa della scena di regia contemporanea. Qual è, a buon diritto, quella

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