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Come già introdotto nel primo capitolo, la dimensione della casa si configura come parametro fondamentale all’interno del dibattito della disciplina architettonica, disciplina che appunto misura e organizza lo spazio. Il rapporto tra dimensione della casa e ricchezza o status sociale degli abitanti è cambiato nel corso dei secoli, passando da una proporzionalità diretta tipica del passato (più la casa era ampia e sfarzosa più la famiglia era dichiaratamente ricca e abbiente) ad una sostanziale mancanza di proporzionalità tipica della contemporaneità (oggi vi sono ricche famiglie che vivono in ville lussuose così come in piccoli appartamenti nel centro cittadino, oppure in moderni attici piuttosto che in ampi loft).

E’ interessante sottolineare come spesso, nel passato, la dimensione della casa non costituì sempre un chiaro riflesso delle reali possibilità economiche degli abitanti, ma piuttosto privilegiò la volontà comuni-cativa simbolica tralasciando l’entità della spesa. Ne sono un chiaro esempio alcuni luoghi del potere come l’enorme e costosissima Do-mus Aurea edificata da Nerone a Roma dopo l’incendio del 64 d.C., piuttosto che i vasti palazzi principeschi dell’Italia medievale, fra i quali si possono citare l’enorme e labirintico Palazzo Ducale di Mantova o la città-palazzo di Urbino.

In epoca ottocentesca la vastità della casa raggiunse i suoi massimi livelli, e non tanto per legittimare un’autorità politica, quanto più per sottolineare la ricchezza e l’importanza della famiglia stessa. Ne sono un chiaro esempio le manor houses che dominano ancora oggi la campagna inglese, e i cui resoconti e inventari contemporanei costi-tuiscono oggi un’interessante testimonianza dell’eccesso e del lusso.

9.

Robert Kerr, The Gentleman’s Hou-se: Or, How to Plan English Resi-dences, from the Parsonage to the Palace, Murray, 1864

10.

Bill Bryson, At Home: A short history of private life, Penguin Random House, London, 2016 (2010) 11.

George Moore, Confessions of a Young Man, Heinemann, London, 1917

L’architetto e scrittore Robert Kerr (1823-1904) scrisse nel 1864 il libro-manuale The Gentlemen’s House 9, nel quale definì una manor house di dimensioni medio-grandi come una casa contente almeno duecento stanze. Nella sua opera egli classificò tutti gli ambienti ne-cessari per comporre un’adeguata casa nobile di campagna, descri-vendone l’utilizzo e le principali regole per la sua progettazione. Le case erano talmente estese e labirintiche, che i numerosi ospiti invi-tati in occasioni o eventi particolari erano spesso incapaci di ritrovare la via per i propri appartamenti.

Ne è un chiaro esempio la Wentworth Woodhouse, nella quale agli ospiti venivano consegnati cofanetti d’argento contenenti dei confetti personalizzati da distribuire lungo i corridoi della dimore, per aiutare loro a trovare la via del ritorno.

Il discomfort era esteso anche ai numerosissimi domestici (le crona-che dell’epoca parlano di case con più di cento inservienti, e ne sono un esempio la famiglia Guinness o il conte Lonsdale 10; i domestici, come ben descritto nel libro Confessions of a Young Man di George Moore (1852-1933), spendevano spesso più di quindici ore a muo-versi freneticamente all’interno delle enormi magioni, su per monu-mentali scalinate, attraverso lunghi corridoi, nel lungo tragitto tra la cucina e la sala da pranzo 11.

Il periodo della prima guerra mondiale modificò radicalmente queste prospettive, a seguito di un cambiamento culturale esteso a livello mondiale. Gli eccessi del XIX secolo, del periodo Edoardiano e della Belle Époque, trovarono abbastanza repentinamente la loro fine. La società tentò di ricostruire nuovi equilibri che limitassero le disparità di classe, fino alla Seconda Guerra Mondiale che, nuovamente, mise in crisi la condizione sociale. La fine della Guerra lasciò un elevato numero di persone senza abitazione, intere città distrutte dai bom-bardamenti o dalle invasioni (si pensi alla città portuale di Le Havre, a Varsavia fino alla stessa Berlino, che per più quarant’anni rimase an-cora divisa dal Muro tra Berlino Est e Berlino Ovest), famiglie distrutte e impoverite, private di braccia per lavorare i campi e necessitanti di un avvicinamento alla città per sopravvivere. Il riscatto sociale forte-mente voluto dalla classe operaia modificò anche il gusto e la moda, e nacque il bene di massa: per lungo tempo il prodotto industriale non riuscì a sostituire totalmente la produzione artigianale, la quale si distingue ancora oggi per qualità e unicità, ma cambiò notevolmente

i parametri di bellezza nell’architettura e nell’arredo. In meno di cento anni il lusso che per secoli è coinciso con l’ostentazione del buon gusto nella decorazione degli ambienti, nelle opere d’arte e nell’abbi-gliamento, lasciò il posto a del tutto innovativi canoni estetici. A fine secolo il designer italiano Bruno Munari scrisse:

Il lusso è la manifestazione della ricchezza incivile che vuo-le impressionare chi è rimasto povero. E’ la manifestazione dell’importanza che viene data all’esteriorità e rivela la man-canza di interesse per tutto ciò che è elevazione culturale. E’ il trionfo dell’apparenza sulla sostanza.

(Bruno Munari, “Da cosa nasce cosa”, 1981)

Questa frase dogmatica riassume efficacemente il cambiamento di gusto della società, una modificazione radicale avvenuta in meno di un secolo. Sebbene il designer italiano parli specificatamente di lus-so, si può affermare che parallelamente ad esso l’intera società assi-stette ad un cambiamento più generale, come quello che caratterizzò i paradigmi dell’architettura.

Nell’architettura le necessità abitative furono studiate, definite e stan-dardizzate, lo spreco di rappresentato dai locali vasti e inutili, scomodi e dispendiosi, venne gradualmente abbandonato, la flessibilità nell’u-tilizzo dello spazio venne infine incentivata.

La crisi dell’alloggio che caratterizzò lo scenario architettonico e ur-bano della metà del Novecento, modificò diametralmente il campo di prova degli architetti contemporanei: alla grandezza e maestosità della quale si vantavano i progettisti fino al XIX secolo, si sostituì spesso la ricerca intorno allo spazio minimo, semplice, razionale ed ergonomico.

Per comprendere meglio questo radicale cambiamento, si può pren-dere in esame l’estremo ed esemplare caso di James Wyatt (1746-1813), un ambizioso architetto inglese per sua sfortuna oggi poco conosciuto a causa dell’esiguo numero di edifici da lui edificati ancora esistenti.

Nel 1796 egli avviò i lavori per costruire una delle opere architettoni-che più impressionanti mai costruite in ambito europeo, di certo una delle più inaudite per il periodo; il progetto nacque dalle eccentriche

_ View of the West and North fronts of Fonthill Abbey, gravura di J. Storer, 1820 _ Le Cabanon, Arch. Le Corbusier, Yvonne (FR), 1951

12.

Enciclopedia Britannica, anno di compilazione 2007

13.

A Description of Fonthill Abbey, Wil-tshire, Illustr. by Views Drawn and Engr. by J. Storer, edizioni Franklin Classic, Ottobre 2018

volontà di Lord William Beckford, scrittore, mecenate e collezionista d’arte. La nuova dimora commissionata a Wyatt divenne, per il com-mittente, lo strumento per dichiarare la propria posizione sociale e guadagnarsi il rispetto dell’alta società, mentre per l’architetto l’oc-casione per manifestare le proprie abilità: con questi intenti nacque Fonthill Abbey.

L’enorme casa in stile neogotico includeva finte rovine e chiostri, ed era caratterizzata da un’enorme torre campanaria ottagonale alta cir-ca 82 metri 12; la personalità del committente e l’ambizione dell’archi-tetto vennero espresse nel dichiarato e volontario sovradimensiona-mento di ogni elesovradimensiona-mento architettonico. I progetti di Wyatt, le cronache e le immagini d’epoca 13 mostrano scalinate sproporzionatamente grandi, portoni alti circa trenta piedi (quasi 10 metri) e finestre alte poco più di cinquanta piedi (15 metri); è chiaro che la grandezza fu lo strumento utilizzato per sperimentare l’architettura e testare tecniche costruttive (in questo caso l’architetto optò per un cemento sperimen-tale chiamato Cemento Romano Parker).

Il costoso e audace esperimento architettonico scomparve in seguito ad un disastroso collasso dell’alta torre nel 1825, con conseguente demolizione delle rovine nel 1845.

Poco dopo un secolo la scomparsa di Fonthill Abbey, la personalità di un altro committente e le sue stesse abilità e cultura architettoni-che condussero sperimentazioni del tutto contrarie a quella appena presentata. Prendiamo in esame il caso della più influente perso-nalità architettonica europea del modernismo novecentesco, Char-les-Édouard Jeanneret-Gris meglio conosciuto come Le Corbusier.

Nel 1951 egli progetto e fece edificare per sé e la moglie Yvonne il Cabanon, una piccola ed essenziale cabina in riva al mare: il vanto dell’architetto fu quello delle dimensioni ridotte (poco meno di 10 mq), della razionalità e della proporzione nell’organizzazione dello spazio, del minimalismo nelle forme e nei volumi.

Il programma è opposto all’eccesso ricercato con ogni mezzo o stra-tegia da Wyatt.

Il caso di Fonthill Abbey comparato con il piccolo Cabanon non è che un esempio che dimostra come il campo di sperimentazione architet-tonica abbia modificato la propria direzione in poco più di un secolo.

Le due opere nominate esprimono due tendenze diametralmente op-poste, due strategie diverse per gli architetti di misurare le proprie abilità e le proprie teorie architettoniche.

Oggi si può affermare che gli eccessi del passato siano perlopiù superati, e il campo delle possibili dimensioni per le abitazioni sono molteplici e varie; le case molto vaste raramente raggiungono le di-mensioni degli antichi palazzi del XVIII e XIX secolo, e le piccole case minime sono caratterizzate sì dall’essenzialità ma includono comfort e molteplicità di funzioni. Tuttavia, il cambiamento avvenuto del corso del Novecento fu sostanziale: dall’infinitamente grande la sperimen-tazione nel dibattito architettonico si mosse rapidamente verso il ra-gionevolmente piccolo.

il concetto di existenzminimum