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Quell’anno avevo solo quindici anni. Ricordo che era la mattina del quinto giorno del decimo mese del calendario lunare. Avevo in mano un cesto di bambù e mi stavo recando nel campo fuori dal villaggio. Improvvisamente sentii una voce urlare: “Fermati!”. Alzai la testa e vidi che non lontano, di fronte a me, c’era un gruppo di soldati giapponesi. Per lo spavento, lasciai cadere il cestino e iniziai a correre verso la montagna. Più di dieci soldati giapponesi mi stavano inseguendo. Alla fine, poiché

non riuscivo più a correre, mi catturarono. Uno dei soldati mi disse qualcosa in modo incomprensibile, mi sembrava che la testa stesse per scoppiare e non capivo nulla. Uno di loro mi prese e mi baciò in viso. Quel soldato, affamato come un lupo, iniziò a toccarmi lungo tutto il corpo e mi spogliò. Afferrai le sue mani che teneva sul mio seno e lo morsi; quello allora sfilò il coltello e cercò di colpirmi alla testa.

In quel momento, un altro soldato gli ordinò di mettere via l’arma. Mentre io ero ancora attonita per lo spavento, quel soldato, vedendomi nuda, ordinò in una lingua incomprensibile, con un cenno della mano, di andare via. Dopo aver cercato di lottare, riuscii a scappare e, questa volta, i giapponesi non mi seguirono. Passato un po’ di tempo, ripensai a quanto era successo e, credendo che non significasse nulla, tornai nel campo. Mi rivestii, ripresi il mio cestino di bambù e tornai a casa. Chi poteva sapere che i soldati, di nascosto, mi stavano osservando e seguendo? In quel momento l’ufficiale giapponese mi fermò, mi portò in una casa e mi buttò sul letto; poi mi spogliò e abusò di me.

Nel pomeriggio, raccontai a mia madre cosa era successo e lei, disperata, iniziò a piangere. Mia madre era cieca. In casa eravamo in tre e sopravvivevamo, in modo povero e umile, grazie al lavoro di mio padre. Quella sera, poiché temevo che i giapponesi tornassero, mi nascosi nella casa dei nostri vicini. Piansi tutta la notte.

Il secondo giorno l’ufficiale giapponese portò con sé altri soldati fino a casa mia. Entrato in casa e non trovandomi, spinse a terra i miei genitori e li picchiò finché non svennero. Poiché dalla casa dei nostri vicini potevo sentirne le urla, fui costretta a tornare a casa.

Dopo avermi visto, un soldato chiamato Jiuzhuang, mi portò in una stanza, mi spogliò, iniziò a divertirsi con il mio corpo e infine abusò di me sul letto.

Jiuzhuang e gli altri soldati, da allora, vennero in casa mia tutti i giorni e tutte le notti. Per evitare che picchiassero i miei genitori, fui costretta a subire le loro violenze.

Un giorno dell’aprile del 1942, Jiuzhuang e altri soldati arrivarono a casa mia con una macchina, mi fecero salire e mi portarono a Tengqiao, dove mi rinchiusero in un campo per comfort women.

Le ragazze che erano state rapite con me furono rinchiuse in una stanza grande, mentre quelle che erano state rapite prima di me si trovavano in un’altra stanza. Nella camera c’erano dei letti, coperte, lenzuola e zanzariere. Le porte erano controllate da sentinelle e non ci era permesso uscire. Di giorno dovevamo svolgere

lavori quali lavare i pavimenti e i vestiti, di notte eravamo costrette ad andare a letto con i soldati. Spesso subivamo le violenze di più soldati insieme. Talvolta eravamo sottoposte a qualsiasi tipo di umiliazione fino a che loro non erano soddisfatti. Venivamo sempre maltrattate.

Una mia compagna, di nome Che Youhong, subì violenza da più soldati contemporaneamente. Era disposta a morire pur di non sottomettersi a loro, per questo veniva picchiata. Alla fine, anche lei subì le violenze dei giapponesi che le lacerarono l’utero e dopo due giorni, per questo, morì. Un’altra ragazza, una notte subì le violenze di più soldati e, non sopportando questa situazione, si tagliò la lingua e poi si suicidò.

Nel campo delle comfort women subivamo violenze incessantemente, sia di giorno sia di notte. Pensavamo spesso a come scappare, ma i soldati ci controllavano in modo rigido e non ci permettevano di uscire. Una ragazza, una notte, riuscì a scappare, ma poco dopo fu riportata nel campo. I soldati la picchiarono fino a ridurla in fin di vita. Da quel giorno non tentammo più di scappare.

Un giorno di giugno del 1944, un abitante del nostro villaggio, Huang Wenchang entrò nel campo di Tengqiao per cercarmi. Vedendo una persona del mio villaggio mi sentii triste e felice allo stesso tempo. Inizialmente, poiché i soldati erano vicino a me, non osai parlare con nessuno.

Poi, quando la guardia se ne andò, Huang Wenchang mi disse: “Tuo padre è morto, torna presto a casa!”. Appresa questa notizia, iniziai a piangere. Incurante di tutto, cercai gli ufficiali giapponesi perché mi lasciassero tornare a casa per il funerale di mio padre. Inizialmente i soldati rifiutarono la mia richiesta, allora Huang Wenchang ed io, in ginocchio, li implorammo. Quelli, allora, mi lasciarono andare.

La sera, Huang Wenchang ed io uscimmo dal campo di Tengqiao e, di notte, raggiungemmo casa. Entrata in casa, vedendo che mio padre non era morto, entrambi iniziammo a piangere per la gioia. Si trattava di una strategia di mio padre e di Huang Wenchang per sottrarmi ai giapponesi.

Quando il gallo cantò, mio padre e Huang Wenchang presero la zappa e la pala e, recatisi nel campo, scavarono una tomba finta. Poi, la mia famiglia ed io scappammo in una città lontana. Si dice che, non molto tempo dopo la nostra partenza, i giapponesi siano venuti nel villaggio a cercarmi. Gli abitanti dissero loro che, a causa della sofferenza per la morte di mio padre, mi tolsi la vita. I soldati,

avendo visto la tomba finta, credettero alle parole degli abitanti e tornarono a Tengqiao. Nel 1945, i giapponesi si ritirarono e io tornai nella mia città.