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avere acquisito l’intera azienda sportiva della società fallita; 2) avere ottenuto l’affiliazione FIGC;

Nel documento FALLIMENTO E SOCIETA' SOPORTIVE. (pagine 169-185)

LA PARTICOLARE DISCIPLINA DEL FALLIMENTO DELLE SCOCIETA’ SPORTIVE

1) avere acquisito l’intera azienda sportiva della società fallita; 2) avere ottenuto l’affiliazione FIGC;

3) essersi accollata e aver pagato tutti i debiti sportivi della società fallita, ovvero averne garantito il pagamento attraverso fideiussioni bancarie;

4) possedere un adeguato patrimonio finanziario;

5) avere depositato una dichiarazione contenente l’impegno a garantire con fideiussione bancaria le obbligazioni derivanti dai contratti con i tesserati e dalle operazioni di acquisizione di calciatori.

Inoltre il passaggio deve avvenire improrogabilmente entro il termine della data di presentazione della domanda di iscrizione al campionato successivo.

In sintesi, qualora una società intenda proseguire l’attività sportiva agonistica di una società dichiarata fallita, ed in questo consiste in sostanza il “fallimento pilotato”, dovrebbe da un lato aggiudicarsi tutti i

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beni aziendali della società fallita, e dall’altro ottenere, nel rispetto della normativa FIGC sopra indicata, il trasferimento del titolo sportivo della società fallita stessa.

Una simile operazione, tuttavia, appare molto complessa e di difficile attuazione175 per varie ragioni.

Da un lato vi è la necessità di individuare un investitore con una buona disponibilità economica, e pronto ad accollarsi e ad onorare tutti i debiti sportivi della società fallita, cosa già di per se molto complicata.

Dall’altro tutta l’operazione dovrebbe concludersi inderogabilmente entro il termine ultimo di iscrizione al campionato successivo, ovvero il 30 giugno.

I tempi quindi sono davvero molto stretti ed occorrerebbe una forte sinergia tra l’attuale società e l’eventuale nuovo acquirente nel compiere l’iter del fallimento pilotato. Se infatti il fallimento venisse dichiarato senza che fosse già stato individuato un soggetto pronto ad accollarsi l’azienda ed in particolare i debiti sportivi, ovvero non venissero rispettate le condizioni della FIGC in merito al trasferimento del titolo sportivo, difficilmente le cose si concluderebbero al meglio, e si potrebbe incorrere nella definitiva scomparsa della società.

A fronte di questi oneri, non mancano però i benefici in caso di esito positivo di tale procedura. Infatti l’eventuale acquirente, pur essendo chiamato a saldare i debiti sportivi, non sarebbe tenuto a pagare gli altri debiti contratti dalla società fallita. Inoltre, dal punto di vista agonistico, non vi sarebbero ripercussioni sulla squadra, la quale

175 Tale procedura ha trovato concreta applicazione solo in sparuti casi (tra

questi citiamo il fallimento dell’ Ascoli Calcio 1898 spa, in data 17 dicembre 2013, e il fallimento della Pescara Calcio Spa, in data 19 dicembre 2008) rispetto al gran numero dei fallimenti societari cui purtroppo sta assistendo il mondo del calcio italiano negli ultimi decenni

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rimarrebbe composta dai medesimi tesserati e soprattutto parteciperebbe allo stesso campionato a cui avrebbe partecipato prima del fallimento, cosa fondamentale specialmente nel caso in cui la società dichiarata fallita si trovasse a disputare un campionato di massimo livello nel panorama sportivo italiano (Serie A, o Serie B) alla cui partecipazione sono legati elevati introiti economici forniti da Lega Calcio, Sponsorizzazioni, e diritti televisivi.

Dunque l’eventuale fallimento, qualora si realizzassero tutte le condizioni sopra descritte, non comporterebbe grossi pregiudizi, ma potrebbe rivelarsi un beneficio per l’imprenditore che decidesse di sfruttare la procedura del “fallimento pilotato” per entrare nel mondo (e nel business) dello sport e del calcio.

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CONCLUSIONI

La tesi ha preso in considerazione l’excursus legislativo dottrinale e giurisprudenziale in materia di società sportive mettendo in rilievo gli aspetti di peculiarietà e di specialità che le connotano.

E’ stato messo in risalto come le società sportive in seguito alla legge n.91 del 1981 e successive modificazioni, tra le quali quella introduttiva del fine di lucro, siano state equiparate alle società di capitali, pur presentando delle particolarità in relazione all’attività svolta. Nel settore professionistico il limite di conseguire uno scopo di lucro, considerato incongruo rispetto alle necessità gestionali delle società sportive soprattutto nel settore calcistico è stato rimosso dal legislatore del 1996 che tuttavia fa permanere il limite di destinare una quota (10% degli utili) a centri giovanili di formazione tecnico-sportiva. Queste modifiche, introdotte in Italia con la sopracitata legge n°586 del 1996, eliminarono la preclusione per le società sportive professionistiche della distribuzione ai soci dell'utile di esercizio realizzato, per il “perseguimento esclusivo dell'attività sportiva”, rendendole così società a scopo di lucro e permettendo, indirettamente, l'ampliamento delle attività commerciali consentite, seppur limitate ad attività strumentali all'attività sportiva. L’obiettivo del legislatore era quello di consentire a tali società di operare anche in aree diverse e ulteriori rispetto a quelle strettamente sportive ed agonistiche, così da estendere l’attività d’impresa verso segmenti contigui come sponsorizzazioni, vendita di riprese televisive, vendita di spazi pubblicitari e servizi legati al merchandising, e, in sostanza, si favoriva anche la raccolta del capitale di rischio tra il pubblico dei risparmiatori.

Affrancare la società sportiva dall’obbligo del reinvestimento degli utili esclusivamente nell’attività sportiva ha esaltato il carattere imprenditoriale delle stesse. Le società sono state indotte ad indebitarsi

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oltre misura allo scopo di avere nel medio termine un ritorno economico tale da rianimare la propria capacità finanziaria.

Nel corso degli ultimi anni i costi di gestione delle società sportive sono molto lievitati, al contrario dell'economia che ha fatto registrare alcuni passi indietro. I risultati economico-finanziari dell’ultimo periodo sono, salvo rare e virtuose realtà, negativi e costituiscono quasi una costante. Infatti la storia degli ultimi decenni dimostra come sia molto alto il numero dei club falliti o esclusi dal calcio professionistico per inadempienze economiche.

E’ necessario quindi riflettere sull’assetto attuale delle società calcistiche che stanno diventando sempre più un fenomeno aziendale in cui assume importanza anche l’aspetto societario ed il relativo modello di governance che viene adottato.

Il calcio italiano ha ottenuto infatti i migliori successi, sia in ambito nazionale che internazionale, quando alla guida delle società sportive vi erano imprenditori-mecenati pronti ad investire loro personali risorse economiche all’interno dei propri clubs. L’evoluzione del sistema calcio sta mettendo in crisi questo modello “chiuso” di società in quanto i costi sono maggiori dei ricavi. Tutto ciò rende evidente come il modello di calcio fin qui prevalente in Italia, con un "mecenate" pronto a ripianare periodicamente le perdite, non possa reggere in un sistema in cui le perdite appaiono endemiche e nel quale i costi crescono molto più dei ricavi. In tal caso il fallimento è sempre dietro l'angolo.

Ogni modello di gestione societaria è frutto di diverse concezioni circa la natura e la finalità dei club. Le società di calcio hanno la peculiarità di rappresentare il territorio del quale sono espressione. Esse portano spesso il nome della città, ne utilizzano l'araldica e i colori, hanno una folta schiera di tifosi che ne seguono le sorti con passione. In un contesto del genere è chiaro che il fallimento di una squadra non è

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indolore per la comunità, in termini sportivi, sociali, economici e di immagine.

Una soluzione potrebbe ritrovarsi favorendo un modello di gestione delle società sportive che coinvolga sia le istituzioni locali, sia i tifosi a supporto del fenomeno sportivo e sociale più rilevante del territorio di appartenenza. Questa idea di cosiddetto “azionariato popolare” non è nuova e trova interessanti esempi soprattutto all'estero, si pensi in particolare al caso della Germania, una delle poche realtà europee con i conti in attivo. Il sistema sportivo tedesco si caratterizza per il fatto di prevedere il coinvolgimento delle comunità dei tifosi e le istituzioni nella amministrazione societaria. In questo modello negli organi interni del club sono presenti anche soggetti diversi dall’azionista di maggioranza. Ciò avviene sia perché non è sempre previsto un’azionista di maggioranza, sia perché negli organi direttivi vi sono anche altre figure oltre ai soci. In tale sistema di gestione non prevale l’aspetto economico, ma vi sono rappresentanze di interessi collettivi, sportivi o socio-culturali.

In Germania è stato stabilito infatti che il 50%+1 del capitale deve appartenere ad associazioni sportive (ad eccezione dei club che hanno dimostrato di avere una proprietà fissa negli ultimi 20 anni come Wolfsburg o Bayer Leverkusen) un esempio di questa “Regel 50%+1” è rappresentato dal Club Sportivo Amburgo (Hamburger Sport-Verein), in cui i fan sono addirittura dirigenti e si incontrano periodicamente con il Board of Directors per discutere di tutto ciò che sta all’interno e all’esterno della società; in tale società sportiva ogni membro del Supporters Club ha diritto ad un voto nell’assemblea generale e può essere anche eletto nel Consiglio d’Amministrazione o nel Consiglio di Sorveglianza. Anche il più rinomato Bayern di Monaco (Fußball-Club Bayern München) segue il modello dell’azionariato popolare, infatti il 75% del suo capitale è posseduto dall’associazione sportiva (oltre 180 mila soci) ed il restante 25% e diviso in parti uguali tra tre importanti

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colossi imprenditoriali tedeschi (Allianz, Adidas, Audi). La società bavarese ha quindi venduto parte del proprio capitale agli sponsor, che a loro volta diventano veri e propri partner.

In definitiva questa forma di c.d. azionariato popolare, come abbiamo potuto notare, oltre a ridurre il rischio di speculazioni, ha il pregio di potenziare il ruolo del tifoso e del territorio, che diventano parte attiva del progetto societario.

Purtroppo appare evidente come, per ragioni economiche, sociali e culturali, il sistema testé analizzato tedesco non possa essere esportato tale e quale in Italia. Sarebbe una buona idea, però, quella di trovare una via italiana al coinvolgimento virtuoso di tutta la comunità (istituzioni, associazioni e tifosi), nelle società di calcio, cosa che sicuramente potrebbe dare un impulso positivo, operando sulla prevenzione di fenomeni patologici del sistema sportivo italiano che culminano nel fallimento delle società sportive.

Lo sviluppo di questa tesi dimostra come l’ordinamento sportivo troppo raramente sia stato oggetto della giusta attenzione da parte del legislatore (nonostante il settore sportivo risulti essere tra quelli maggiormente trainanti della nostra economia), che ha dedicato alla materia poche leggi speciali in grado di dissipare dubbi e di risolvere dispute che sorgevano e tutt’ora sorgono riguardo alle società sportive professionistiche. L’introduzione dello scopo di lucro per le società sportive, previsto dalla citata legge 18 novembre 1996, n. 586 (modificativa della legge n. 91/1981, tutt’ora fondamento della disciplina delle società sportive), ha comportato per le stesse una serie di conseguenze dirette e indirette. Le conseguenze dirette concernono la necessità di remunerare il capitale investito, sostenendo politiche d’impresa volte a fronteggiare i costi, a garantire l’equilibrio finanziario e la solidità patrimoniale della società nel medio-lungo termine. Le conseguenze indirette, invece, consistono nell’esigenza che il club

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sportivo si “aziendalizzi” anche con un impianto manageriale, capace di valorizzare le diverse funzioni di impresa, sia di sfruttare tutte le aree strategiche d’affari della società. In un tale rinnovamento, pertanto, il ruolo del management quale portatore di valori aziendali e sportivi, diviene di estrema rilevanza, rappresentando il garante della redditività di lungo periodo.

Risulta, qui, evidente, che le novità introdotte dalla l. n. 586 del 1996 abbiano profondamente trasformato il contesto di riferimento delle Federazioni Sportive e delle singole società sportive, cambiandone radicalmente lo status e richiedendo al management di conciliare quest’ultimo con le peculiarità dello sport. Dal punto di vista economico il calcio, e più in generale lo sport, si differenzia moltissimo dai settori di mercato tradizionali. Tale differenza deriva in prima battuta dal fatto che nello sport la dimensione economica deve convivere continuamente con quella sociale ed agonistica mentre nei settori tradizionali gli obiettivi economici sono, per definizione, di primaria importanza. La politica, intesa in senso lato, da un lato ha preso dei provvedimenti per salvare il calcio (ad esempio la “Legge anti insolvenza”176e la “Legge salva calcio”177), mentre dall’altro ha palesemente finto di non vedere dinanzi a evidenti trucchi contabili messi in atto dagli amministratori di molte società sportive178. Questo è accaduto, e purtroppo sta

176 Legge 8 agosto 2002, n. 178, “Conversione in legge, con modificazioni, del

decreto-legge 8 luglio 2002, n. 138, recante interventi urgenti in materia tributaria, di privatizzazioni, di contenimento della spesa farmaceutica e per il sostegno dell' economia anche nelle aree svantaggiate"

177 Legge 21 febbraio 2003, n. 27, “Conversione in legge, con

modificazioni, del decreto-legge 24 dicembre 2002, n. 282, recante disposizioni urgenti in materia di adempimenti comunitari e fiscali, di riscossione e di procedure di contabilità.

178Ad esempio le numerose plusvalenze e l’ondata di cessioni a se stessi dei

marchi per poter rispettare i parametri per l’iscrizione al campionato, per l’ottenimento delle Licenze UEFA e per evitare la necessaria ed obbligatoria

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continuando ad accadere, perché il fallimento di società sportive calcistiche, soprattutto di importanti dimensioni, potrebbe comportare un danno di immagine e economico inestimabile allo sport italiano e di conseguenza anche all’economia del nostro paese, ciò a ennesima riprova di come il mondo del calcio presenti notevoli interessi in ogni campo del mercato trovando di fatto linfa inesauribile nella passione di milioni di persone.

L’idea che lo scrivente ha maturato durante la stesura di questa tesi è che si debba quanto prima agire sulle normative di settore, in special modo sulla legge 91/1981 ormai da troppo tempo bisognosa di un intervento incisivo, integrandole e uniformandole, per quanto possibile, alla disciplina di controllo e sanzionatoria prevista per le società di capitali non prettamente sportive, e prendendo a tal fine spunto anche dalla esperienza legislativa di paesi europei (ad esempio Germania) che sono brillantemente riusciti a ovviare alle criticità che ancora oggi invece minacciano l’integrità del nostro sistema sportivo. Al fine di evitare che le società sportive vengano adoperate come veicolo per operazioni di riciclaggio di denaro o scommesse clandestine e possano anche entrare nell’orbita di infiltrazioni di stampo mafiose, importante sarebbe prevedere norme più stringenti sulla trasparenza delle proprietà dei club: infatti, secondo l’attuale normativa FIGC solo coloro che vogliano entrare in possesso di almeno il 10 per cento del capitale sociale di una squadra di calcio hanno il dovere di presentare garanzie patrimoniali e di onorabilità, mentre sarebbe opportuno prevedere l’ abbassamento di tale soglia all’1-2 per cento. Fondamentale inoltre risulta elaborare un modello giuridico-sportivo grazie al quale il management delle società calcistiche sia spinto a garantire la solidità economica del club, dovendo lasciare ai supporters solo la

ricapitalizzazione dettata dagli artt. 2446 “Riduzione del capitale per perdite” e 2447 “Riduzione del capitale sociale al di sotto del limite legale” C.C.

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preoccupazione riguardante l’esito delle prestazioni sportive, e non l’ansia connessa alla possibilità di mancata iscrizione della propria squadra del cuore al campionato successivo o, peggio ancora, del suo possibile fallimento. È infatti assolutamente necessario creare una più sana competizione sportiva e ciò è possibile solo se le (in)capacità economico-finanziarie e l’utilizzo illegittimo delle società sportive (per esempio a scopo di esecrabili pratiche di riciclaggio) cessano di essere una variabile chiave per il futuro dei sodalizi sportivi, e il terreno di giuoco diviene di fatto l’unico arbitro di promozioni e retrocessioni. Proprio queste sembrano essere le finalità del cosiddetto “Fair Play Finanziario”, imposto dalle istituzioni mondiali (Fifa) e continentali (Uefa) del calcio, che è una articolazione della semplice regola per la quale “non puoi spendere più di quanto guadagni”179

. Tale normativa pone le società calcistiche davanti ad un bivio: da una parte impegnarsi al massimo per incrementare le entrate, magari investendo e valorizzando giovani sportivi di sicuro avvenire, dall’altra tagliare i costi orizzontalmente per rispettare le regole e non incorrere in gravi sanzioni che possono andare dalla semplice ammenda al blocco totale del mercato in entrata dei calciatori. Tramite questo sistema a poter partecipare ad una competizione sportiva, dovrebbero poter essere ammesse solo quelle società che dimostrino, con i bilanci, di aver intrapreso la strada della trasparenza e sostenibilità, al fine di evitare di convivere ogni stagione con l’incertezza per l’anno successivo. Anche in tal senso lo scrivente ritiene che il legislatore e i responsabili dei vari enti sportivi dovrebbero essere maggiormente determinati a fare in modo che le regole dettate dal fair play finanziario vengano applicate nella loro interezza, prevedendo altresì sanzioni più severe per quelle società che ancora oggi in larga misura se ne discostano.

179 Fair play finanziario per un calcio sostenibile, intervista a Gianni

Infantino, Segretario (ora Presidente) generale UEFA, pubblicata Martedì, 30 agosto 2011sul sito www.uefa.com

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