Germania Sacra (da un lato la diocesi di Trento e la provincia ecclesiastica di Aquileia, dall’altro la diocesi di Bressanone e la provincia ecclesiastica di Salisburgo); tra XI e XIII secolo, la
frontiera tra i territori affidati ai due vescovi anche in temporali-
bus. Fu reso politicamente nullo già nel corso del Duecento dalla nascita della contea tirolese, uno di quegli “stati di passo” (come la Savoia, la Svizzera, il Patriarcato) che caratterizzano la storia medioevale e moderna delle Alpi, collocato al di qua e al di là del crinale alpino. La stretta a nord di Bolzano, in età moderna, fu però considerata ancora significativa da alcuni cartografi come confine tra l’area italiana e l’area tedesca; riapparve anche (in modo effimero) in epoca napoleonica, come frontiera tra i regni d’Italia (Dipartimento dell’Alto Adige) e di Baviera.
(C) Il terzo confine è quello costituito dalla confluenza del torrente Avisio nel fiume Adige, dove (dalla fine del XIII secolo all’inizio del XIX) finiva la giurisdizione vescovile di Trento e iniziava quella tirolese di Königsberg. Tale linea poteva essere considerata significativa anche dal punto di vista linguistico in quanto il tedesco, alla fine del medioevo, era in uso fino a una decina di chilometri a nord della città di Trento (dove pure viveva una consistente comunità germanofona). Oggi il confine lingui- stico si colloca poco più a nord, all’altezza di Salorno: lì è stata posta la linea di demarcazione tra le due Province autonome di Trento e di Bolzano (senza però dimenticare che le vicende del XX secolo hanno portato a vivere nelle valli altoatesine anche una consistente comunità di lingua italiana). Va peraltro detto che un confine linguistico è spesso difficile da tracciare (e, storicamente, da rintracciare), sia per la possibile compresenza nella stessa loca- lità di persone di entrambi i gruppi linguistici, sia per il potenziale bilinguismo di molte aree; Goethe, nel 1786, ritenne di poterlo
individuare addirittura a Rovereto2.
(D) C’è poi una quarta linea di confine: quella che sta tra le località di Borghetto e Ossenigo, non molto a nord della chiusa di Verona (l’ultima barriera alpina prima della pianura). Questo,
a partire dall’XI secolo, fu il limite meridionale del territorio sottoposto civilmente ai vescovi di Trento e dunque del regno di Germania; quindi, in età moderna, il confine tra le giurisdizio- ni tirolesi poste “ai confini d’Italia” e la repubblica di Venezia; nell’Ottocento e fino alla prima guerra mondiale fu il confine tra il Land Tirol austriaco e il Lombardo-Veneto prima, il Regno d’Italia poi, fino a diventare confine regionale dopo il 1918.
La realtà è però ancora più complessa: non solo per l’esistenza di altre variabili politico-istituzionali di cui qui non si è voluto tener conto, ma soprattutto perché il territorio preso in esame non si riduce alla valle dell’Adige; sottili distinzioni andrebbero introdotte nel momento in cui si volessero seguire i tracciati delle quattro linee di cui si è detto nelle valli secondarie (i confini tra le giurisdizioni tirolesi e quelle vescovili erano particolarmente com-
plessi). In realtà – riprendo qui le considerazioni di Stauber3 – i
duecento chilometri che stanno tra il crinale alpino e la pianura sono stati per secoli un’unica, amplissima fascia di confine, all’in- terno della quale partendo da diversi punti di vista (geomorfolo- gico, climatico, economico, linguistico, culturale, antropologico, istituzionale) si poteva giungere a differenti conclusioni, quasi mai oggettive e definitive. Mi permetto di fare un paio di esempi: il cosiddetto “Anonimo Veronese”, negli anni ottanta del XV secolo, definì la città di Trento come «principio de Alemagna et fine de
Lombardia»4; nell’anno 1640 il padre gesuita trentino Martino
Martini fece l’elenco dei confratelli che viaggiavano con lui alla volta dell’India, e delle rispettive provenienze, così concludendo: «et ego, qui ab aliis Germanus, ab aliis Italus vocor, quippe qui sum Tridentinus, quae civitas in confinibus Italiae et Germaniae iacet»5.
È solo in tempi più vicini a noi, a partire dal momento in cui le teorie nazionalistiche vollero tracciare con nettezza le linee di demarcazione tra “Italia” e “Germania”, che all’interno di questa complicata area furono individuate e tracciate nette, e spesso estre- me, linee di divisione. Almeno un nome va ricordato: quello del
geografo e uomo politico Ettore Tolomei, che il 16 luglio 1904 scalò i 2914 metri del Glockenkarkopf: una montagna che egli ribattezzò «Vetta d’Italia» nella convinzione (destinata a orientare tutta la sua non breve esistenza) che i confini politici, etnici e linguistici dovessero coincidere con quelli geografici. Scrisse allora sulla rivista del Club Alpino Italiano: «la nazione italiana procede verso le ultime valli, verso il limite supremo che la geografia e la
storia le assegnano»6. Tolomei fu il primo a utilizzare il nome «Alto
Adige» per indicare la parte cisalpina del Tirolo, quella che oggi è la provincia di Bolzano; la sua energica azione propagandistica, che si espresse a partire dal 1906 sulla rivista «Archivio per l’Alto Adige», non fu affatto secondaria prima nello spingere l’irredenti- smo italiano a pretendere che il confine del Regno fosse posto al Brennero, e poi nell’orientare i tentativi di italianizzazione forzata del SudTirolo durante il Ventennio fascista. In questo contesto si collocarono alcuni tentativi di “appropriazione nazionalistica” dei santuari, avvenuti nel tardo Ottocento e nel Novecento, di cui si parlerà brevemente più oltre.
Santuari in una fascia di confine: l’età medioevale e moderna Manca, nell’area presa in esame, un particolare tipo di confine: quello che separa zone nelle quali si professano diverse religioni, o diverse confessioni religiose. Se tale confine vi fosse, si tratterebbe senza dubbio del primo di cui tener conto, specie trattando di epoche in cui il fattore religioso contribuì al consolidarsi di stati nazionali per i quali la confessione era un fattore non secondario di identità; potrebbero esserci infatti luoghi di culto aventi scopo di “presidio del territorio”, come avamposto o come difesa dalle infiltrazioni altrui. Nell’area considerata, invece, l’assestamento dei confini confessionali, tra XVI e XVII secolo, non vide la nascita di alcun confine religioso (se nelle Alpi centrali ci si con- frontava con i riformati svizzeri, a nord del Tirolo c’era invece la
Baviera cattolica). Per quanto i nazionalisti italiani dell’Ot tocento vedessero nei movimenti pangermanisti l’ombra degli esecrati protestanti, nell’area trentino-tirolese non esistettero dunque frontiere di questo tipo.
Nell’ampia fascia attraversata da tutti i confini di cui si è detto,
dove si collocavano i santuari?7 È opportuno tentare una distin-
zione di carattere cronologico8. I “santuari” medioevali (ammesso
che l’uso di questo termine, in qualche misura anacronistico, sia corretto) si collocavano nei luoghi di vita, di sepoltura e di con- servazione delle reliquie di esponenti del santorale locale (come Vigilio, Valentino, Romedio) o sui luoghi di transito, che erano anche passaggi obbligati verso le grandi mete di pellegrinaggio come Roma o Santiago. Nel primo caso si può al massimo rileva- re la frequenza delle dedicazioni a Vigilio, patrono della diocesi, in chiese poste ai suoi margini come Moena (a nordest), Maia (a nordovest), Ossana (a ovest), Nago (a sudovest), Avio (a sud,
già in diocesi di Verona)9; ma si tratta di casi nei quali è difficile
parlare di “santuari”. La seconda categoria si risolve in una “sacra- lità di passo” che ha a che fare soprattutto con la venerazione nei confronti di persone e istituzioni dedicate a un’ospitalità tanto necessaria, e/o con la suggestione prodotta dalle caratteristiche del territorio alpestre; difficile parlare di un legame con altri generi di confine.
È meglio allora passare all’età moderna, quella in cui sorsero la maggior parte dei santuari più noti e frequentati: Weissen stein/ Pietralba, Folgaria, l’Inviolata di Riva, le Laste presso Trento, la Madonna del Monte di Rovereto, la Madonna di Onea di Borgo, Montagnaga di Piné oltre a un nutrito numero di luoghi di culto di importanza locale. I luoghi in cui essi si situano disegnano più che altro la mappa del popolamento; è arduo individuare nella loro collocazione un qualche rapporto con i tanti “confini” possibili. L’assoluta preminenza delle dedicazioni mariane, la scarsa origina- lità delle leggende di fondazione, la sostanziale mancanza di specia- lizzazioni terapeutiche (si possono semmai contare alcuni santuari
a répit) rendono inoltre difficile parlare di specificità riconducibili al loro trovarsi nella fascia alpina.
Si rileva piuttosto una certa “circolazione” dei pellegrini e delle devozioni, che rispecchia il carattere culturalmente composito dell’area. Chi si sposta per cercare l’aiuto del trascendente non ha infatti difficoltà nell’attraversare i confini, anche quelli linguistici: dalla val di Non “italiana” si sale a Senale e da quella “tedesca” si scende a San Romedio, da Bolzano ci si reca a Segonzano e Civezzano, dalle valli altoatesine si supera il crinale per raggiun- gere Santa Giuliana di Fassa; molte comunità trentine visitano tuttora il più frequentato santuario delle alpi centrali, quello di
Weissenstein/Pietralba. La traccia degli ex voto testimonia questi
scambi: immagini votive con frasi scritte in tedesco si conservano a Montagnaga, il più famoso santuario mariano dell’attuale ter- ritorio trentino, molto frequentato anche da devoti provenienti
dalle aree di lingua tedesca10; ex voto “italiani” si trovano invece a
Weissenstein11.
A santuari che ricreano Loreto (come Maria Saalen presso San Lorenzo di Sebato, vicino a Brunico, o Ried, nell’alta valle dell’Inn) o Caravaggio (come Montagnaga di Piné) si affianca
Segonzano, dove è venerata una copia della Mariahilf di Lucas
Cranach12. In molti santuari trentini vi sono sculture prodotte
da artisti tedeschi: anche il celebre crocifisso ligneo detto “del Concilio”, conservato nella cattedrale, è opera cinquecentesca di
uno scultore norimberghese, Sixtus Frei13. Invece a San Nicolò di
Caldaro e a San Michele di Appiano, luoghi nei quali la lingua prevalente è quella tedesca e l’afflusso dei pellegrini pare esclusi- vamente provenire da nord, le immagini oggetto del culto sono copie di una Madonna del pittore marchigiano Giovanni Battista Salvi, detto il Sassoferrato, e della Madonna di Valle Vigezzo,
santuario piemontese14.
Anche il caso del “Simonino”, per quanto precedente rispetto all’epoca fin qui considerata, può essere considerato significati-
1475, fu accusata la piccola comunità ebraica locale: ne seguirono da un lato processi, confessioni estorte con la tortura e condan- ne a morte; dall’altro la nascita, attorno al cadavere del piccolo “martire”, di un santuario che per qualche tempo ebbe rilievo internazionale. Dal nord venivano la famiglia della vittima, le famiglie degli accusati, il vescovo che promosse il culto del nuovo “beato”, l’incisore e l’intagliatore che con la carta e con il legno ne divulgarono l’immagine; da Brescia invece il medico che redasse la più importante perizia sull’omicidio e il podestà che condusse il processo; di Brescia, Verona e Mantova erano molti dei mira- colati, e fortissimo fu l’eco (anche in funzione antiebraica) che si
propagò in tutta l’Italia settentrionale16.
In pieno Ottocento si colloca invece il caso delle stigmatizzate
Maria von Mörl da Caldaro e Domenica Lazzeri da Capriana17:
le due giovani estatiche (l’una di lingua tedesca, l’altra di lingua italiana) richiamarono curiosi e devoti da tutto il continente, ren- dendo le valli tirolesi, agli occhi dell’Europa della Restaurazione, una sorta di “isola antimoderna”; un’immagine che, a qualche decennio di distanza, si rinnovò nel momento in cui si tenne a Trento un «Congresso antimassonico» (1896) che trovò signi- ficativa appendice nel solenne pellegrinaggio a Montagnaga di Piné18.
Si può aggiungere che i santuari del territorio preso in esame erano spesso stati promossi o avevano ricevuto significativi con- tributi al loro sviluppo da persone e famiglie che giocavano la propria carriera su scacchieri particolarmente ampi, collocandosi ai diversi livelli del funzionariato dell’Impero, del suo esercito o
della sua Chiesa19: i Madruzzo (a Riva), gli Arco (ad Arco), i Thun
(a San Romedio), i Khuen (a Pietralba), gli a Prato (a Segonzano, dove il barone Ferdinando, canonico di Passau, portò una copia della Maria Ausiliatrice di Lucas Cranach), i Galasso (Mattia, generale degli eserciti imperiali, fu grande sponsor del santuario delle Laste presso Trento). Anche questo elemento non poteva che favorire la circolazione di persone e devozioni su ampia scala.
Gli argomenti fin qui esposti costituiscono molteplici confer- me della permanente permeabilità del territorio; la ricerca di un legame tra la collocazione dei santuari, in età tardomedioevale e moderna, e le possibili linee di confine si risolve dunque, a mio parere, con un sostanziale insuccesso, a meno che non si consideri comunque significativa la generica capacità dei santuari alpini di assorbire impulsi provenienti sia da nord che da sud, in un’area che era e rimase a lungo aperta a diverse influenze. Per fare un solo, curioso esempio: stando alla testimonianza di Margherita “Tessadrella” da Tesero, imputata in un processo di stregoneria svoltosi a Cavalese all’inizio del XVI secolo, il demonio stesso avrebbe rivelato che, per allontanarlo, sarebbe stato sufficiente recarsi o al santuario della Santa Croce presso Chiusa (Sabiona, in diocesi di Bressanone), o a uno connotato dalla devozione a San Martino, posto «de là de Cividal … sotto la signorìa de
Venesia»20.
Santuari di frontiera nell’età dei nazionalismi
Il giudizio appena esposto va però integrato con una breve trattazione specifica dedicata al periodo successivo alla metà dell’Ottocento. La diffusione dei movimenti pangermanisti da un lato, l’unità italiana e la nascita dell’irredentismo dall’altro resero infatti più impellente la definizione dei rispettivi territori e crearono l’urgenza, agli occhi delle due parti contrapposte, di unifor ci e pretesi confini linguistici, anche a costo di mutare
sostanzialmente gli equilibri dell’area21. Fino ad allora i santuari
erano stati fattori di unità confessionale, eventualmente in funzio- ne antiebraica (il Simonino, ma anche la Madonna delle Laste), antiprotestante e antimoderna, e di superamento di altri confini eventualmente esistenti; con la fine del XIX secolo anch’essi furo- no però in qualche misura trascinati nella lotta nazionale, e la loro natura fu diversamente letta, a seconda della situazione che
si voleva determinare.
Non stupisce allora che il santuario della Madonna di Senale, nella val di Non di lingua tedesca, sia divenuto a partire da allora l’oggetto di divergenti interpretazioni proprio in merito alle sue origini, e soprattutto al suo carattere nazionale. Nel 1901 il vica- rio parrocchiale Vincenz Gasser aprì un suo studio definendo la località «urdeutsche», e lo concluse sottolineando l’importanza del santuario (dipendente dalla canonica regolare di Gries presso Bolzano) per il mantenimento della lingua tedesca nell’area, altri- menti prossima a comunità italiane ben più consistenti dal punto
di vista demografico22. Tali valutazioni suscitarono la replica di
Carlo Donà (1931), il quale sostenne l’origine «romanica» dei principali toponimi della zona e conseguentemente la recenziorità degli insediamenti «alloglotti»; quindi, la documentata controre-
plica di Johann Staffler (1959)23.
Più ampio il dibattito suscitato dal poco distante (ma lingui- sticamente italiano) santuario di San Romedio, costituito da un insieme di cappelle sovrapposte sorte sul luogo in cui un nobile proveniente da Thaur, nella valle dell’Inn, si ritirò a vivere come eremita, forse tra il X e l’XI secolo, dopo aver donato i suoi beni alla Chiesa trentina. Il santuario mantenne per secoli forti legami con l’area tedesca: la fama del santo fu dovuta in gran parte alle narrazioni compilate nei monasteri tirolesi di Hohenwart e St. Georgenberg, dove erano conservate alcune delle sue reliquie, poi trasferite a Thaur (che per questo è tuttora una delle principali mete di pellegrinaggio del Tirolo settentrionale). Il patronato era dei Thun, una potente famiglia anaune che in età moderna arri- vò a occupare le sedi vescovili a Trento, Bressanone, Salisburgo, Passau, Seckau e Gurk. Non stupisce allora che nel più celebre santuario tirolese sia giunto il 7 luglio 1809 Andreas Hofer, l’eroe dell’insurrezione antibavarese, con seicento Schützen, per un pellegrinaggio dal valore “politico-religioso” (certo non “etnico- linguistico”) che servì a preparare la vittoriosa battaglia del Berg- Isel. Negli ultimi decenni dell’Ottocento san Romedio divenne
così soprattutto il protettore della patria tirolese e il suo santuario uno dei luoghi chiave di quello che dagli irredentisti italiani veniva chiamato “austriacantismo”: forse per reazione a questa impostazione, oltre che all’ipercritica di chi negava persino l’esi- stenza storica del santo, gli eruditi trentini tentarono (con scarso successo) di trovare le prove che avrebbero permesso di spostare
le origini di Romedio dal Tirolo alla val di Non24. Dopo la prima
guerra mondiale il santuario rimase il simbolo della perduta unità della “piccola patria” trentino-tirolese, ed è ancora oggi luogo di ritrovo periodico degli Schützen (sia di quelli di lingua tedesca che dei gruppi di lingua italiana, di recente riorganizzazione). Quanto
dichiarato nel Proprio della Chiesa trentina – Romedio «vede
affratellate nel suo culto le popolazioni che stanno di qua e di là
del crinale alpino»25 – è dunque fondato, anche se una parte dei
tanti pellegrini (forse trecentomila all’anno) che visitano il santua- rio vorrebbero intendere tale “fratellanza” in chiave anti-italiana.
Per parlare del rapporto tra confini e santuari, il caso più inte- ressante è però quello di Weissenstein, il più importante santua- rio mariano delle Alpi centrali, dal 1718 affidato ai Serviti della
provincia tirolese26. Il 19 luglio 1925 il Ministero della Giustizia
italiano scrisse al generale dei Serviti, Luigi Tabanelli, per chie- dere la sostituzione del priore, il carinziano Amideus Hassler, con un padre di nazionalità italiana, allo scopo di «agevolare di assai l’affratellamento dei cittadini di lingua italiana con quelli
di lingua tedesca (che però costituiscono in quel territorio un’esigua
minoranza)». Quest’ultima affermazione, sottolineata nella lettera in questione, era semplicemente falsa, come falsa era la denuncia del fatto che Hassler non sapesse parlare l’italiano; ciò nonostan- te, grazie anche alle pressioni sul Vaticano da parte del gesuita Pietro Tacchi Venturi, l’istanza (con la quale si chiedeva anche di far passare il santuario dalla provincia tirolese a una italiana) ebbe un seguito. Il primo dicembre 1925 Tabanelli e Agostino Sartori, superiore della provincia veneta, firmarono un accordo secondo il quale il santuario di Pietralba (come da quel momento
fu stabilmente e obbligatoriamente chiamato) sarebbe passato provvisoriamente a quest’ultima; in cambio, la provincia tirolese avrebbe ricevuto ogni anno 36.000 lire, oppure due terzi degli introiti. Si trattò di uno dei primi mutamenti di confine religioso chiesti e ottenuti dal governo fascista, il quale non sopportava che su quello che considerava territorio nazionale vi fossero membri di ordini e congregazioni che rispondevano a superiori residenti all’estero, mentre favoriva l’insediamento di religiosi di lingua
italiana e dipendenti da congregazioni italiane27.
Di fronte all’accordo, il vescovo di Trento Celestino Endrici, in quanto ordinario diocesano, intervenne per chiedere garanzie a proposito della cura d’anime dei pellegrini, dato che – nono- stante quanto scritto dal governo italiano – quattro quinti di essi erano di lingua tedesca; ma gli fu risposto che si trattava di un problema interno all’ordine servita. Il primo gennaio 1926 i padri della provincia veneta presero possesso del santuario: comincia- rono però subito i conflitti, che li videro contrapposti al servita di lingua tedesca rimasto sul posto, ai curatori d’anime della zona circostante, ai contadini che coltivavano i campi del convento; si ebbero rapidi avvicendamenti sia tra i superiori veneti, sia tra i coadiutori di lingua tedesca (a proposito di questi ultimi, si dovette ben presto ricorrere alla collaborazione di religiosi di altri ordini o a preti diocesani, dato che non vi erano serviti veneti che sapessero il tedesco, né serviti tirolesi disposti a collaborare). Il risultato fu il calo del numero dei pellegrini e delle offerte: la somma promessa non fu mai pagata per cui la provincia tirolese, gravemente danneggiata dalla nuova situazione, scelse la via della cessione definitiva. Il 22 ottobre 1930 Pietralba fu venduta alla provincia veneta per 200.000 lire: per gli acquirenti fu un note- vole aggravio economico, per i venditori un duro colpo dal punto