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gio nel Trentino tardomedievale

battesimali (pievi), ognuna con una sua popolazione che vi face- va capo per gli aspetti sacramentali e liturgici e un suo distretto dal quale veniva riscossa la decima; esistevano inoltre altri sette distretti formati o in formazione a partire dalle parrocchie citta- dine, da alcuni enti monastico-ospedalieri o da pochissime cap- pelle precocemente emancipate. Il numero di tali circoscrizioni

ecclesiastiche si può ridurre a 60 (più cinque)3 se si tiene conto

dei confini diocesani attuali, piuttosto diversi da quelli medioe- vali. Tali chiese battesimali appaiono distribuite sul territorio con scarsa omogeneità: si nota in particolare un addensamento nella zona anaune, che comprendeva 23 distretti, mentre in tutte le

Giudicarie e l’Alto Garda ve ne erano solo 144.

Nell’Italia centrosettentrionale il reticolo medioevale forma- tosi in età carolingia era andato in crisi già nei secoli centrali del medioevo; pur perdurando formalmente il ruolo di quelle che erano state le chiese pievane, si era dato ampio spazio a un’or- ganizzazione territoriale della cura d’anime basata su chiese di villaggio o di quartiere (parrocchie) indipendenti, così che i fedeli potevano avere non lontano dalla propria casa quell’edificio sacro nel quale si conservava o si rinnovava periodicamente il mira- colo sacramentale, eucaristico e battesimale. Le aree montane e periferiche, però, furono generalmente più conservative, e in esse l’organizzazione pievana dimostrò maggiore capacità di resi-

stenza5; la diocesi trentina lo fu più ancora di altre, tanto che in

molte valli l’assetto rilevabile alla fine del XII o nel XIII secolo si mantenne formalmente intatto, dal punto di vista istituzionale, fino all’inizio del XX.

Il tardo medioevo è comunque, anche qui, un periodo di evoluzione, durante il quale è documentabile, anche se spesso in modo frammentario, lo sforzo delle comunità locali di veder attri- buita alle “proprie” chiese (spesso, come si vedrà, si tratta davvero di Eigenkirchen comunitarie) alcuni dei diritti che in origine erano

di esclusivo appannaggio delle antiche matrici6. La situazione di

solo la celebrazione episodica della messa da parte di un sacerdote inviato dal pievano; accanto all’edificio vi è un cimitero, ma non è infrequente che il diritto di sepoltura sia ancora oggetto di con-

tesa7. Questo quadro è descritto, ad esempio, dalla «Tabula» che

fu redatta nel 1388 per definire quali fossero le funzioni religiose che il pievano doveva garantire, personalmente o per il tramite di

cappellani, alle diverse chiese della pieve di Cembra8. Talvolta, per

fare in modo che la celebrazione liturgica diventasse settimanale, le comunità cedevano al responsabile della cura d’anime «res, teras et possessiones»: così fecero gli abitanti di Faedo, in pieve di Giovo, che nel 1327 giunsero a un accordo in tal senso con il preposito di

San Michele (cui la pieve era sottoposta)9.

Il desiderio di attingere con maggior facilità ai sacramenti della salvezza cristiana spinse però gli abitanti dei villaggi più lontani dalla pieve a richiedere con forza che il pievano vi distac- casse un prete in modo stabile. La questione era stata affrontata in una lettera di papa Alessandro III (1159-1181) al vescovo di York, poi inserita nella collezione delle Decretali di Gregorio IX (1227-1241): le condizioni che permettevano la costituzione di una nuova stazione di cura d’anime erano dunque l’eccessiva distanza rispetto alla chiesa matrice, tale da rendere impossibile una partecipazione adeguata da parte dei fedeli alla pratica litur- gica (soprattutto nella cattiva stagione), e la possibilità di fornire redditi adeguati al sacerdote destinato a officiarvi; tutto ciò, nel rispetto formale dell’integrità territoriale della pieve e dei diritti

del pievano10. La difficoltà di raggiungere la chiesa battesimale,

che appare sempre nella documentazione locale come il motivo principale della richiesta di dislocazione dei diritti di cura d’ani-

me11, è quindi prima di tutto un luogo comune, ed è bene tenerne

conto per valutare correttamente determinate affermazioni, il cui valore storico è per lo meno dubbio.

Una testimonianza particolarmente interessante e precoce dell’esistenza di cappellani decentrati presso le cappelle è quella di Rumo, da dove nel 1234 i rappresentanti della comunità scesero

a Trento per chiedere al vescovo di dar loro un sacerdote che vi facesse residenza, «secundum quod olim consuetum fuerat»: il vescovo impose allora ai chierici della pieve di Revò di risiedere, a turno, nella remota cappella. L’obbligo fu poi confermato dal vescovo Egnone nel 1257, con la minaccia altrimenti di conferire

egli stesso la cappella e i redditi relativi a un cappellano12. Si può

poi menzionare il caso di Predazzo, dove nel 1382 un sacerdote fu distaccato stabilmente presso la cappella, purché riconoscesse la dipendenza dal pievano di Fiemme; la comunità doveva fornirgli l’abitazione e il mantenimento, mentre il pievano rinunciava a una

parte dei proventi della decima13. Non infrequentemente la docu-

mentazione ci attesta l’esistenza di capellani di questo genere, che

risiedevano presso le chiese della Vallagarina dotate di un proprio beneficio tassabile già alla fine del XIII e all’inizio del XIV seco-

lo14, o che officiavano nei numerosi edifici sacri della val di Sole15.

Che si trattasse di un fenomeno relativamente diffuso, e dagli esiti pastorali non sempre soddisfacenti (dato che in questo modo si minava la stabilità del collegio clericale residente presso la pieve), è attestato dalle costituzioni sinodali promulgate dal vescovo Nicolò da Brno nel 1344, con le quali si prevedeva che i chierici della pieve «non in capellis, nisi propter diffusionem parochiae necessi-

tas id exposcat, sed in ecclesia parochiali resideant»16.

Si può supporre che in molti casi il servizio prestato diretta- mente o indirettamente dal pievano fosse giudicato insufficiente. Nasceva così tra gli abitanti del villaggio, come si è visto, l’in- tenzione di accollarsi parzialmente o totalmente l’onere della fondazione di un beneficio che garantisse il mantenimento di un prete vincolato alla residenza, la cui opera si sommava a quella garantita dal pievano (o la sostituiva). Questo prete (detto spesso

«primissario»17, perché deputato alla celebrazione di una messa

da svolgersi in orario anticipato rispetto a quella celebrata nella

pieve) veniva scelto dall’assemblea dei vicini, proprio perché essi,

costituendo il beneficio, si erano garantiti il giuspatronato18. Tale

pella di Albiano, posta all’interno della già menzionata pieve di Cembra, i cui abitanti nel 1376 resistettero vittoriosamente alle pretese del vescovo, riaffermando il proprio diritto a scegliersi il

cappellano19. Peraltro la consapevolezza che le comunità erano le

migliori garanti non solo della buona amministrazione dei beni della propria chiesa, ma persino del buon comportamento del

clero, era piuttosto diffusa20.

Dall’avere un cappellano residente (scelto dal pievano o nomi-

nato dai vicini) al richiedergli l’esplicazione di tutta una serie di

servizi sacramentali, anche scavalcando le tradizionali prerogative della pieve, il passo era breve. Nell’anno 1390 i cappellani di Levico e Vigolo Vattaro (allora in diocesi di Feltre) si rifiutarono di pagare quanto richiesto per il restauro della canonica della chiesa pievana di Calceranica; furono infine costretti a versare tale contribuzione, ma protestarono vivacemente contro le ulteriori pretese del pievano, che chiedeva loro di non battezzare i nati, non seppellire i morti e non amministrare i sacramenti senza il

suo permesso21. Intorno al 1470 il pievano di Lizzana constatava

come, nonostante nella cappella di Noriglio si dovesse celebrare la messa una sola volta al mese e in un giorno non festivo, «prop-

ter abusus capelanorum pluries iam celebratur»22. Ne nacquero

situazioni non prive di ambiguità, che poi in periodi successivi (quando si cercherà di definire con maggior precisione i rapporti di subordinazione tra una chiesa e l’altra) daranno il via a lunghe

liti e contestazioni23.

Alle situazioni di fatto seguirono le concessioni di diritto, soprattutto a partire dai decenni centrali del Quattrocento; sembra che una consapevole spinta in questo senso sia stata data soprattutto durante l’episcopato di Johannes Hinderbach (1468-

1485)24. Nacque così, poco alla volta, un sistema che potremmo

definire «per parrocchie e curazie», erede del sistema «per pievi e cappelle». Non era cambiata solo la terminologia: risultava muta- ta in modo rilevante la ripartizione dei diritti di cura d’anime a favore della seconda struttura, ma senza che la prima vedesse

del tutto distrutta la propria supremazia in ambito istituzionale,

sacramentale/simbolico ed economico25. Un processo che, se in

una prima fase appare connotato da una certa dose di “spon- taneità”, risulta invece, nella sua fase di assestamento, favorito e controllato dall’autorità vescovile. Nel XVI secolo le nuove parrocchie, del tutto indipendenti dalle vecchie pievi, si potranno

contare sulle dita di una mano26; ma le curazie, che erano forse

una trentina all’inizio del secolo27, raddoppiarono prima della

visita pastorale di Ludovico Madruzzo (1579-1581)28, e continua-

rono ad aumentare anche in seguito29.

Sulla via che porta lontano

La regione trentina, com’è noto, era attraversata da grandi flussi di transito: soldati, mercanti e pellegrini la percorrevano seguendo tracciati obbligati e spesso impervi nelle valli e sui

valichi30. Tra il XII secolo e l’inizio del XIII vi nacquero svariate

esperienze di tipo ospitaliero, collocate in punti strategici della viabilità, presso le quali uomini e donne si votavano all’assisten- za dei pellegrini e dei viandanti, dei malati e dei poveri; il loro carattere monastico faceva sì che presso di esse vi fosse sempre un

edificio sacro, dal quale prendevano il nome31. La fase fondativa

di queste esperienze è sovente avvolta nell’oscurità; notizie più certe ci vengono nel momento in cui un determinato vescovo le

prese sotto la sua protezione32. Il carattere prevalentemente lai-

cale scolorò quindi a favore di una progressiva clericalizzazione:

la guida dell’hospitalis risulta ben presto affidata a un prior di

nomina vescovile. Già nella seconda metà del Duecento si deve constatare il rarefarsi delle testimonianze a proposito della vitalità di queste istituzioni, la cui parabola, nel momento in cui si entra nel Trecento, appare già ben rivolta verso il basso.

In alcuni casi gli ex ospedali furono accorpati a più solidi isti-

divennero stazioni di cura d’anime, o comunque i loro redditi

furono destinati a tale scopo34; nella maggior parte dei casi i

«priorati» (questo è il termine che veniva prevalentemente usato)

risultarono semplici benefici privi di obbighi di cura d’anime35;

persino le relative chiese, la cui custodia era sovente affidata ai

locatari dei beni fondiari, andarono in deperimento36. L’ente che

probabilmente ebbe vita più lunga, Madonna di Campiglio (dove ancora nei primi decenni del Cinquecento vi erano persone che

si votavano alla residenza temporanea o perpetua)37, fu unito alla

mensa capitolare nel 155138. Nel 1593 molti di tali priorati furo-

no anche formalmente soppressi per costituire la dotazione del

Seminario39.

I pellegrini continuarono a percorrere vie e passi alpini anche nei secoli XIV e XV: anzi, la mobilità a fini devozionali risulta generalmente in aumento, in connessione con i grandi eventi giu-

bilari dal 1300 in poi40; il legame tra i fedeli trentini e i principali

luoghi di pellegrinaggio è rilevabile anche dalla diffusione a livello locale del culto di san Giacomo maggiore, il pellegrino per eccel-

lenza41. Ma non risulta che le fondazioni monastico-ospedaliere

sorte nei secoli precedenti siano state ancora considerate un effica-

ce supporto a tali strade42, ormai più facilmente percorribili e dota-

te di un sistema di accoglienza più propriamente «alberghiero»43.

Fuori, ma accanto / accanto, ma fuori

Sarebbe fuorviante pensare che l’esperienza dello spazio sacro si esaurisse nelle chiese di villaggio e nelle lontane mete di pel- legrinaggio. Tutt’altro che inconsueto era infatti che i fedeli di una pieve o di un’area geografica definita esprimessero la propria devozione nei confronti di altre chiese, poste lontane dai centri abitati o (più spesso) ai margini di essi. Talvolta queste erano col- locate in posizione particolarmente suggestiva (in cima a un colle, o su un balcone naturale che guardava la vallata, o in un anfratto

sotto la roccia strapiombante); in qualche caso erano state luogo di vita o di sepoltura di eremiti. Questi edifici sacri possono essere chiamati, analogicamente, «santuari», purché si ricordi che tale concetto si è sviluppato solo in periodo controriformistico ed è

stato istituzionalizzato solo in tempi recenti44.

Giorgio Cracco, in un recente articolo, ha rilevato come il santuario – e in modo particolare quello tardomedioevale – di

solito nasca prope: vicino, presso, verso la città, ma non dentro di

essa45. Tra le varie componenti che possono aver generato questa

tendenza, Cracco ne elenca un paio che certamente non hanno a che fare con il nostro caso. La prima è l’estraneità del luogo nel quale sorge il santuario al territorio controllato istituzionalmente dalla parrocchia: al contrario, a quanto si sa, in area trentina non vi è concorrenza tra la chiesa del villaggio e il «santuario», che è gestito dalla parrocchia e può fungere semmai da chiesa stazio- nale cui la popolazione limitrofa si reca processionalmente, in una determinata festività o in casi di eccezionale pericolo (siccità, pestilenze, guerre). La seconda componente ha a che fare con il ruolo che giocarono nel momento di fondazione dei santuari tardomedioevali i conventi dell’osservanza francescana: in diocesi di Trento vi è però un solo caso di questo genere, quello del san- tuario delle Grazie di Arco, dove la venerazione per un’immagine della Madonna in trono si sviluppò presso il convento voluto dal

conte Francesco d’Arco nel 148246.

È più probabile dunque che ciò che vediamo sia solo l’esito della polarità Centrality/Remoteness di cui si è parlato in apertura. Pur non trattandosi di un fenomeno specificamente tardomedio- evale, esso trova spesso nel tardo medioevo le prime emergenze documentarie. Dove l’archeologia non viene in soccorso, infatti, le fonti scritte non ci danno notizia di queste chiese e del culto spe- ciale che ad esse era tributato prima di quest’epoca. Nella grande maggioranza dei casi non v’erano infatti diritti di cura d’anime tali da produrre documentazione contenziosa, né patrimoni fondiari che dessero motivo di far redigere e conservare contratti, né bene-

fici tassabili menzionati negli elenchi prodotti a fini fiscali. Per

questo, con poche eccezioni47, la memoria di tali chiese affiora dalle

carte in modo quasi casuale. Di San Romedio, famoso eremitaggio posto su uno sperone roccioso in una valle appartata dell’Anaunia, non sapremmo quasi nulla se non ci venissero in soccorso le fonti liturgiche: l’archivio del santuario conserva documentazione solo

a partire dalla fine del Quattrocento48. Le prime notizie su Santa

Giuliana di Fassa, venerato santuario dell’alta valle dell’Avisio, vengono da una promessa di pagamento conservatasi più o meno casualmente in un volume di imbreviature notarili (1237), e da

una concessione di indulgenze del 128849. San Lorenzo presso

Tenno, chiesa che fu costruita tra VIII e IX secolo e che conserva resti di pittura dell’XI, non compare nella documentazione scritta

prima del 132050. San Paolo di Ceniga, una piccola chiesa costruita

nella seconda metà del XII secolo, viene menzionata in un processo per eresia del 1333: una delle testimonianze la descrive come abita- zione di un’eremita cui le donne della zona si recavano per chiedere

consiglio51. San Silvestro di Imer è tuttora meta di pellegrinaggi da

parte dei fedeli del Primiero; l’importanza del sito (anche dal punto di vista strategico) era tale da farla menzionare nelle fonti statutarie

trecentesche52. Di San Gottardo di Mezzocorona, eremo-santuario

collocato presso l’omonimo castello53, abbiamo qualche notizia

trecentesca grazie alle testimonianze presenti in una lite confinaria che interessava le comunità di Fiemme, Montagna, Egna, Ora e

Aldino54 e dai testamenti di alcune persone che lo raggiungevano

partendo da Treviso55. San Colombano di Trambileno, non distan-

te da Rovereto, nel 1470 fu ricordato in una memoria del pievano

di Lizzana come meta di processioni «ad impetrandam pluviam»56.

L’esemplificazione potrebbe continuare a lungo, e arricchirsi progressivamente con l’avanzare del XV secolo, fino a giungere ai quadri completi presenti nei verbali delle visite pastorali cinque- centesche, dove i visitatori si fanno attenti alla condizione materiale di tutti i luoghi di culto, pur senza soffermarsi se non eccezional-

* * *

Come si è già accennato, l’età successiva portò a una maggiore chiarezza nel rapporto tra le antiche pievi (parrocchie) e le chiese filiali (curaziali), definendo le situazioni controverse e permetten- do un progressivo e controllato scivolamento dei diritti di cura d’anime dalle prime alle seconde: un processo che nella maggior parte dei casi si concluse solo nel XX secolo. La chiesa gerarchica assecondò inoltre il concentrarsi delle pratiche devozionali sul culto mariano, che poco alla volta fece passare in secondo ordine

gli antichi patroni locali58.

Ciò non significò, però, il completo oblio delle chiese minori poste sul monte o nella campagna fuori dal villaggio; queste rima- sero in molti casi un forte segno di riconoscimento identitario, e lo stesso controllo vescovile esercitato attraverso le visite pastorali servì spesso a difenderne il decoro, attraverso l’imposizione di restauri e migliorie. Proprio questi edifici “minori” hanno così sovente mantenuto caratteristiche architettoniche e conservato resti pittorici di epoca medioevale, in quanto non soggette alle ricostruzioni, agli ampliamenti e agli ammodernamenti che inve- ce segnarono le vicende edilizie delle chiese di cura d’anime in età moderna e contemporanea.

1 Com’è noto, tali termini atti a descrivere fenomenologicamente l’esperienza

religiosa sono stati introdotti dal teologo della religione tedesco Rudolph Otto nell’opera Il Sacro (1917).

2 Nolan, Shrine locations, pp. 75-84.

3 Si tratta delle parrocchie cittadine di San Pietro e Santa Maria Maddalena,

di quelle suburbane di Piedicastello e Povo e del distretto che faceva capo alla canonica regolare di San Michele all’Adige.

4 Per tale contabilità e i confini della diocesi si rinvia a Curzel, Le pievi trentine. 5 Alcuni esempi: Andenna, Alcune osservazioni, pp. 685-689; De Vitt, Pievi e

parrocchie, pp. 60-106; Ostinelli, Il governo delle anime.

6 Sul fenomeno si veda Nubola, Giuspatronati popolari, p. 397, e bibliografia

generale ivi citata.

7 Curzel, Le pievi trentine, pp. 74-75.

8 Zanettin, Vecchi oneri spirituali, pp. 84-91, articolo plagiato poi (parola per

parola) da Giovannini, Oneri spirituali, pp. 193-198.

9 Buccella, Aspetti istituzionali, pp. 293-295. Peraltro in tale occasione gli

abitanti di Faedo ottennero anche un’ampia autonomia sacramentale, dato che il sacerdote deputato alla celebrazione poteva «ipsos homines et personas peniten- ciare, comunicare, seppellire, et natos ipsorum batizare, crismare et mulieres que parturiverint ad sanctam ecclesiam conducere et signare, et eis et ipsorum quemli- bet in omnibus et singulis oportunis sacramenta ecclesie generaliter ...»

10 Greg. IX, III, 48, 3 (Corpus Iuris Canonici, II, coll. 652-653). «Alexander III

Eboracensi archiepiscopo. Ad audientiam nostram noveris pervenisse, quod villa, quae dicitur H., tantum perhibetur ab ecclesia parochiali distare, ut in tempore hiemali, quum pluviae inundant, non possint parochiani sine magna difficultate ipsam adire, unde non valent congruo tempore ecclesiasticis officiis interesse. Quia igitur dicta ecclesia ita dicitur in reditibus abundare, quod praeter illius villae proventus minister illius convenienter valeat sustentationem habere, fraternitati tuae per apostolica scripta mandamus, quatenus, si res ita se habet, ecclesiam ibi aedifices, et in ea sacerdotem, sublato appellationis obstaculo, ad praesentationem rectoris ecclesiae maioris cum canonico fundatoris assensu instituas ...»

11 A puro titolo di esempio, noto che la difficoltà di raggiungere la pieve fu

1390 (si veda sopra, p. 116); da quelli di Storo, contro Condino, nel 1409 (Poletti, Le chiese, pp. 38-53); da quelli di Peio, contro Ossana, nel 1481 (Morizzo, Reich, Codex Clesianus, p. 548); da quelli di Albiano, contro Cembra, nel 1520 (con esplicita citazione della decretale: Casetti, Storia documentata di Albiano, p. 61); da quelli di San Lorenzo in Banale, contro Tavodo, nel 1690 (si veda oltre, p. 402), ecc.

12 Curzel, Le pievi trentine, pp. 307-309.

13 Gabrielli, Memorie ecclesiastiche di Predazzo, p. 10 (da documenti dell’Archi-

vio Parrocchiale di Predazzo: Casetti, Guida, p. 582).

14 Il dato si può trarre dai più antichi elenchi completi delle chiese della dio-

cesi in nostro possesso, preparati per l’appunto a fini fiscali, nei quali vengono

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