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Adua 1896: la prima coloniale di una potenza

L’Etiopia nei progetti coloniali italiani, 1887-

1.3 Adua 1896: la prima coloniale di una potenza

europea

La sconfitta di Dogali espresse palesemente nel colonialismo italiano i primi problemi di dialettica tra l’elemento politico e quello militare, con una conseguente contrapposizione tra una concezione diplomatica e una di conquista circa la presenza italiana nel Corno d’Africa; problemi che emersero in tutta la loro evidenza nelle vicende che condussero alla battaglia di Adua nel marzo 1896. Caratteristica di tutti i modelli di governo coloniale, nella realtà italiana del tempo la contrapposizione si manifestò attraverso due diverse linee di condotta teorizzate per la colonizzazione dell’Etiopia59. I militari, fautori della

linea tigrina, sostenuta soprattutto dal generale Antonio Baldissera, sostenevano che sarebbe stato possibile conquistare l’Etiopia con le armi, attraverso un controllo maggiore dei territori circostanti Massaua e una successiva avanzata in direzione dell’altipiano etiopico e della regione del Tigrè.

Sul versante diplomatico gli emissari italiani, tra i quali spiccava il conte Pietro Antonelli, suffragavano l’ipotesi della distruzione dell’impero etiopico di Giovanni IV attraverso il sostegno a uno dei ras emergenti, Menelik dello Scioa. Si può perciò condividere la conclusione di Nicola Labanca secondo il quale, al più tardi nel 1888, nella politica coloniale italiana era già nata la dialettica tra la linea tigrina e quella scioana60.

58 N.LABANCA, Oltremare, cit., p. 71.

59 Per quanto concerne i problemi centro/periferia e gli attriti tra linee diplomatiche e

militari dei paesi europei coinvolti nel processo di espansione si veda: M.FERRO, Histoire des colonisations: des conquêtesaux indépendences, 13-20 siècle, Editions du Seuil, Paris, 1994.

Nonostante frizioni tra militari e diplomatici siano riscontrabili in tutte le esperienze coloniali delle potenze europee, la specificità del caso italiano risiede nel fatto che il governo di Francesco Crispi non scelse tra una di queste due linee d’azione, ma le supportò entrambe, probabilmente con l’intenzione di sposare all’ultimo la direttrice che avrebbe sortito i migliori risultati.

La presa di Cheren del 2 giugno 1889, e la successiva conquista di Asmara del 4 agosto dello stesso anno, costituirono i primi successi della linea tigrina in una fase durante la quale i diplomatici si mossero stringendo un accordo con Menelik per una fornitura di armi61; questo patto fu prospettato al presidente del consiglio italiano, come la prova materiale che, in un prossimo futuro, il Regno d’Italia avrebbe potuto ottenere un protettorato sull’intero impero etiopico.

La morte del Negus Neghesti Giovanni IV apparve al governo italiano, e soprattutto ai sostenitori della linea scioana, come il momento opportuno per raccogliere i frutti della politica di sostegno a Menelik. Lo stesso Pietro Antonelli premette nei confronti del ras scioano, affinché firmasse un trattato di amicizia con il Regno d’Italia; le insistenze furono tali che Menelik firmò il trattato il 2 maggio 1889, quando ancora non era stato incoronato Negus Neghesti62. L’accordo, che prese il nome di Trattato di Ucciallì, dal nome del villaggio nel quale la carovana di Menelik stava effettuando una sosta al momento della firma della convenzione, nella sua traduzione italiana poteva essere interpretato come l’instaurazione di un protettorato italiano sull’impero etiopico; nelle altre traduzioni, il trattato affermava l’accettazione da parte di Menelik dei servizi del Regno d’Italia in qualità di tramite per le comunicazioni etiopiche con le potenze europee.

Nel 1889 le questioni africane avevano ormai acquisito uno spazio rilevante nella vita politica italiana, al punto che lo stesso Re d’Italia,

61 L’accordo, che prevedeva la fornitura da parte del Regno d’Italia al ras dello Scioa

Menelik di fucili e munizioni, fu firmato per conto del governo italiano da Pietro Antonelli il 2 luglio 1888. Il 24 giugno 1888 il Re d’Italia Umberto I aveva nominato lo stesso Antonelli Cavaliere dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro e Commendatore dell’Ordine della Corona d’Italia, Plenipotenziario dell’Italia per trattare, negoziare e conchiudere con S.M. Menelik, Re di Scioa, Kaffa e di tutti i Paesi Galla, su tutte le questioni che comportavano le istruzioni da lui ricevute e delle quali gli fu dato speciale incarico di comunicare a Menelik.

nel suo discorso di apertura della IV Sessione della XVI Legislatura, sentì la necessità di dedicare alcune parole alla missione africana del Regno d’Italia, e in particolare fece riferimento al Trattato di Ucciallì. “Accordi internazionali, che si stan discutendo colla nostra partecipazione – annunciava la Corona – ci daranno, speriamo, il vanto di servire efficacemente la causa dell’umanità in quel continente, dove questa ancora si offende con la più crudele delle barbarie. Noi faremo, intanto, entro le nostre nuove frontiere, e presso il Sovrano e le popolazioni che fidano nella nostra leale amicizia, propaganda di civiltà; e, come nei tempi migliori, in cui il genio italiano allargava i confini del mondo conosciuto, tutti si gioveranno dell’opera nostra. Così, io intendo, col mio Governo e con voi, far benedetto il nome della nuova Italia”63.

Nella seduta del 5 marzo 1890 di quella stessa legislatura, aperta con l’auspicio della Corona di una pronta civilizzazione italiana delle regioni del Corno d’Africa, o almeno di una parte di esse, il deputato Luigi Ferrari presentò in Parlamento una mozione sul Trattato di Ucciallì e sull’articolo XVII, quello sul quale si fondavano le speranze e le certezze italiane circa il diritto a un protettorato sull’Etiopia64.

Sulla base della pubblicazione nel Libro Verde dei documenti diplomatici italiani del testo del Trattato di Ucciallì, Ferrari presentò mozione di incostituzionalità del trattato, poiché non era stato sottoposto a votazione del Parlamento. Il deputato si dimostrava inoltre perplesso dal fatto che la gran parte dei parlamentari del Regno fosse venuta a conoscenza della convenzione attraverso la sua pubblicazione nel Libro Verde, nonostante alcune cancellerie europee fossero state informate tempestivamente della stipula del trattato65.

63 Ministero degli Affari Esteri, L’Africa Italiana al Parlamento Nazionale, 1882-1905,

Tipografia dell’Unione Cooperativa Editrice, Roma, 1907, p. 188.

64 L’articolo XVII nella traduzione italiana del Trattato di Ucciallì recitava: ‹‹Sua Maestà

il Re dei Re d’Etiopia consente di servirsi del Governo di Sua Maestà il Re d’Italia per tutte le trattazioni di affari che avesse con altre potenze o Governi››.

65 La cancelleria europea a cui faceva riferimento Luigi Ferraris era quella francese. In

particolare il deputato per dimostrare che il governo Crispi volesse risolvere la questione del protettorato sull’Impero d’Etiopia tenendo volontariamente all’oscuro il Parlamento, citò il caso di una discussione del Parlamento francese che si svolse il 24 gennaio 1890, durante la quale il ministro degli esteri Spuller rispose a un’interpellanza del deputato De Breteuil sostenendo che il Trattato di Ucciallì a causa della mancanza della ratifica da parte di uno dei contraenti avrebbe avuto valore di patto unilaterale.

Dopo essersi accordato con il governo italiano per la fornitura di due milioni di cartucce, il Ras scioano attese la consegna di queste ultime, avvenuta il 16 febbraio 1893, per poi denunciare il preteso protettorato italiano sull’Etiopia attraverso una lettera inviata il 27 febbraio 1893 a tutte le cancellerie europee.

La denuncia da parte di Menelik del protettorato italiano, portava con sé non soltanto l’invalidamento del trattato firmato da Pietro Antonelli, ma la ben più grave conseguenza del fallimento della linea scioana, portata avanti fino ad allora dai diplomatici italiani. Questa debacle era frutto, probabilmente, di una sbagliata valutazione del divario di forza, non solo militare, esistente tra il Regno d’Italia e l’Impero d’Etiopia, e più precisamente di una sopravalutazione della forza italiana66.

Se la linea scioana aveva dimostrato tutte le sue lacune, dopo la denuncia del protettorato italiano rimaneva ancora attiva la linea tigrina, i cui sostenitori ancora supportavano l’ipotesi di una conquista territoriale, se non di tutto il territorio etiopico, almeno di una sua vasta parte. Il ritorno di Francesco Crispi al governo il 15 dicembre 1893, dopo la parentesi rappresentata dalla presidenza di Antonio Starabba di Rudinì (6 febbraio 1891-15 maggio 1892), e di Giovanni Giolitti (15 maggio 1892-15 dicembre 1893), segnò una fase di rinvigorimento dei progetti coloniali sostenuti da Baratieri, divenuto il 28 febbraio 1892 comandante generale della colonia Eritrea. Nel periodo compreso tra il dicembre 1893 e il dicembre 1894, Baratieri autorizzò l’avanzata dei soldati italiani in Sudan, azione che portò all’occupazione di Cassala il 17 luglio 1894, e una nuova occupazione della città santa di Adua, conquistata il 28 dicembre 1894. Da questa manovra militare di Baratieri, oltre che dalla denuncia del protettorato italiano sull’Etiopia, nacquero le frizioni politiche che opposero il governo di Francesco Crispi a quello di Menelik II, e che portarono alla battaglia di Adua del 1896. Nonostante i governi condotti da Antonio Starabba di Rudinì e da Giovanni Giolitti avessero ripetutamente diminuito il bilancio a disposizione della colonia, Oreste Baratieri “faceva intravedere addirittura il miraggio dell’oltre Mareb con un minore o almeno con lo stesso potenziale militare con

cui il primo governo Crispi era salito ad Asmara”67. Se il governo di Rudinì si era caratterizzato per un ripensamento sulla politica di espansione nel Corno d’Africa, e aveva fatto intravedere la possibilità di stabilizzare i possedimenti italiani nel triangolo Massaua-Asmara- Cheren, e il successivo governo Giolitti aveva ricercato una politica di compromesso con Menelik II e con i capi tigrini che sfociasse in un allargamento della sfera d’influenza italiana senza il ricorso alle armi, l’atteggiamento del nuovo governo Crispi e in particolare il comportamento dello stesso presidente del consiglio fu indirizzato alla promozione della linea promossa da Baratieri, sicuro quest’ultimo di poter assicurare l’espansione italiana nel Tigrè senza un aumento del bilancio della colonia e l’incremento del numero di soldati a sua disposizione68. Prese corpo sotto tali auspici la campagna militare che avrebbe dovuto consegnare al Regno d’Italia il controllo della regione del Tigrè.

Successivamente alla spedizione su Adua, Baratieri promosse l’invasione del Tigrè con l’attacco di Coatit del 13 gennaio 1895. Il piano d’azione del governatore si era concretizzato con l’avanzamento delle truppe italiane su tre punti del fronte tigrino: Adigrat, Amba Alagi e Macallè. Il 17 settembre Menelik II, dopo avere compattato il suo numeroso esercito, iniziò la sua controffensiva muovendo le sue truppe contro la colonia Eritrea. La sconfitta patita dal maggiore Pietro Toselli e dai suoi uomini il 7 dicembre all’Amba Alagi costituì per il governo italiano, e per i vertici militari, il primo segnale che il tentativo di allargare i domini italiani senza un adeguato potenziamento del bilancio per la colonia e l’incremento del numero di soldati a disposizione di Baratieri, si stava dimostrando inattuabile.

L’assedio di Macallè da parte dell’esercito etiopico, e la simbolica liberazione del maggiore Giuseppe Galliano il 21 gennaio 1896, dimostrarono definitivamente che il nemico sfidato da Crispi e Baratieri aveva poco da spartire con quell’insieme di tribù incivili e divise descritte dal governo in Parlamento. Nonostante l’invio di rinforzi deciso dal governo italiano, la situazione militare precipitò soprattutto a causa della politica di divisione attuata da Baratieri nei

67 Ivi, p. 77. 68 Ibidem.

confronti dei comandanti sottoposti, e della sopravalutazione delle possibilità italiane. Gli uomini al comando dei quattro generali italiani69 furono divisi dall’avanzata dell’esercito etiopico, e sconfitti singolarmente il primo marzo 1896 ad Abba Carima, nei pressi di Adua. La sconfitta ebbe proporzioni inimmaginabili per una guerra coloniale; dei sedicimila soldati che presero parte sul fronte italiano alla battaglia, quasi cinquemila italiani e mille indigeni rimasero sul campo. Adua costituì la più grande sconfitta patita da un esercito europeo durante il processo di spartizione e conquista dei territori africani, messo in atto nel secondo ‘800 dalle potenze europee. In quanto tale, le sue ripercussioni non tardarono a farsi sentire, anche in termini di politica interna. Lo stesso Francesco Crispi fu costretto alle dimissioni, accusato di avere esposto il Regno d’Italia e i soldati del Regio Esercito a una disfatta infamante, scaturita dal mero perseguimento delle ambizioni personali dello stesso presidente del consiglio70.

L’onda d’urto di Adua arrivò nella penisola attraverso le cronache dei giornali e le lettere alle famiglie dei sopravvissuti, suscitando un grande effetto nella società italiana, per la prima volta completamente coinvolta negli affari coloniali. La notizia della sconfitta fu seguita in numerose città italiane da cortei di protesta. A Milano “al Consiglio Provinciale due consiglieri volevano proporre un ordine del giorno di omaggio ai caduti, ma furono persuasi a desistere; il solito concerto in piazza della Scala fu, appena cominciato, fatto interrompere dal sindaco […] si parlava poi, in ogni angolo della città, e per tutto il giorno, della dimostrazione che si stava organizzando per la sera, e per la quale era somma l’aspettativa. Sino dalle ore 20 la piazza del Duomo e la Galleria erano affollate più del solito: all’imbocco di quest’ultima, capannelli di persone aventi sui cappelli dei cartellini con la scritta: ‹‹Vogliamo il richiamo delle nostre truppe dall’Africa

69 I soldati italiani durante la battaglia di Adua erano al comando dei generali: Matteo

Albertone, Giuseppe Arimonda, Vittorio Da Bormida e Giuseppe Ellena.

70 Si veda: D. A

DORNI, L’Italia crispina, riforme e repressione, 1887-1896, R.C.S.,

››, cercavano di raccogliere e di ordinare i dimostranti, ai quali altri cartellini venivano distribuiti”71.

Nel corso dei minuti il numero dei dimostranti crebbe fino a superare il numero di ventimila. Il corteo si diresse in piazza della Scala e “le grida ed i fischi divennero assordanti. Da S. Fedele venne fatta uscire una compagnia del 10° reggimento fanteria e schierata in via Marino, di fianco all’unica porta del palazzo comunale rimasta aperta. La folla le si fece incontro, agitando i cartelli e gridando: ‹‹Viva l’esercito! Viva i nostri fratelli!››. La ressa della gente era tale che fu ordinato il crociat-et. Echeggiarono grida di: ‹‹Abbasso le armi! Via le baionette…››. Il momento divenne penoso giacché la folla spingeva sempre più verso i soldati […] l’On. De Cristoforis, aggrappandosi ad una finestra di palazzo Marino, tentò di parlare, ma non vi riuscì, così assordanti erano le grida che partivano dalla vasta piazza gremita. Uguale tentativo lo fece, ma pure inutilmente, l’Avv. Turati. In questo frattempo accadde il fatto più doloroso della dimostrazione di iersera. Non è ben stabilito ancora in qual modo, ma un operaio 19enne, certo Carlo Osnaghi, abitante in via Manin, 2, venne raccolto col corpo trapassato da una baionetta nel dorso […] venne condotto all’Ospedale maggiore, ove appena giunto moriva”72. A Roma le proteste più vibranti avvennero nella zona universitaria ad opera degli studenti ai quali il deputato Gino Vendemini rivolse un discorso dai toni accesi a sostegno delle manifestazioni di dissenso nei confronti della politica africana del governo Crispi. Il corteo degli studenti, lasciata l’Università, si diresse verso il centro per manifestare nelle piazze principali della città ma si vide sbarrata la strada dalla forza pubblica. Il confronto tra i manifestanti e la forza pubblica si risolse in lunghe ore di scontri che si propagarono in altre zone della città.

A Napoli il rettore dell’Università decise di sospendere le lezioni, mantenendo comunque l’ateneo aperto. “Verso le nove intanto, nel vasto cortile dell’Ateneo, si riunirono parecchie centinaia di giovani, che serbarono calma e contegno ammirevoli, limitandosi a

71 ‹‹Il Corriere della Sera››, 3 marzo 1896, cit. in L.GOGLIA E F.GRASSI, Il colonialismo

italiano da Adua all’Impero, Editori Laterza, Roma-Bari, 2004, p. 65.

commentare i telegrammi riportati dai giornali del mattino. Poco dopo giunse il prof. Nitti, e dopo aver ringraziato gli studenti, che lo accolsero con vivissimi applausi, entrò in una delle aule a pianterreno, parlando sui gravi avvenimenti d’Africa, ed esortando tutti alla calma. ‹‹Mostriamoci forti nel dolore, disse il prof. Nitti, ma fermi e decisi a non sopportare le offese!››”73. Gli universitari napoletani insieme a una numerosa rappresentanza di operai della città, circa 2000 persone, decisero di recarsi dal Commissario Regio per manifestargli i loro sentimenti circa gli avvenimenti africani. Fu nominata una commissione composta di sei membri74 che ebbe il compito di presentare al Regio Commissario, comm. Tajani, una protesta formale contro la politica africana dell’esecutivo Crispi, chiedendo la messa in stato d’accusa dello stesso governo.

Anche i giornali cattolici diedero ampio spazio ai resoconti delle proteste di piazza nei confronti della politica governativa nel Corno d’Africa. In particolare La Civiltà Cattolica nei giorni successivi alla battaglia di Adua cercò di dimostrare come l’intento civilizzatore di quella iniziativa militare fosse volto soltanto a mascherare una mera volontà di occupazione dei territori africani, sottolineando come la maggioranza degli italiani si oppose sempre a questo progetto, “segno che non vi poterono mai ravvisare quel carattere così nobile e fulgente di civiltà, che a piena bocca vanno proclamando i fogli africanisti […] ci dicano infatti, di grazia, i caldi fautori della conquista africana da qual parte mai l’abbiamo noi a riguardare, per iscoprirvi un concetto solo, che possa chiamarsi veramente civile, un solo aspetto, il quale si presti ad annettere alla pazza impresa qualche pratico scopo di civiltà?”75.

Sull’onda della protesta scaturita dalla sconfitta di Adua, la rivista cattolica si spinse fino a contestare che “l’idea stessa di una guerra d’espansione, cioè di conquista, fatta per sovrapporsi colla spada a

73 ‹‹Il Mattino di Napoli››, 5-6 marzo 1896, cit. in L.G

OGLIA E F.GRASSI, Il colonialismo

italiano…, cit., p. 67.

74 La commissione era composta da due rappresentanti del corpo docente dell’università, i

proff. Nitti e De Martino, due esponenti degli studenti, Mocchi e Canale, e due commissari in rappresentanza degli operai, Esposito e Carbone.

75 ‹‹La Civiltà Cattolica››, 7 marzo 1896, cit. in L.G

OGLIA E F.GRASSI, Il colonialismo

popoli costituiti in unità nazionale, aventi proprio esercito, proprio Governo, proprie leggi, propria indipendenza, è diametralmente opposta a tutto ciò che nell’epoca moderna s’intende universalmente per civiltà, e che per civiltà dicono d’intendere soprattutto i nostri più forsennati gridatori di africanismo […] costoro distruggono coi cannoni in Africa quanto nel nome della civiltà moderna edificarono in Italia: l’unità politica, la libertà, l’indipendenza, il diritto di comandare in casa propria, escludendone ogni dominatore straniero, e di regolare a proprio senno gli interessi nazionali”76.

La politica del governo fu criticata anche dalle pagine de L’Osservatore Cattolico che nell’immediatezza della sconfitta oltre che rimarcare il proprio dissenso nei confronti di una politica di espansione da parte italiana non trovava giusticazioni al modo in cui “un governo di un popolo come il nostro postosi al cimento, abbia a dimostrarsi tanto inetto e tanto stupido”77. Una tale campagna di stampa che al di là delle sfumature e dei fini ultimi ricercati riuniva in un solo fronte anticoloniale giornali cattolici, socialisti e filogovernativi, ebbe ripercussioni sullo stesso operato governativo.

Il 17 marzo 1896 il marchese Antonio Starabba Di Rudinì, presentando il suo gabinetto di governo che sostituiva quello guidato da Francesco Crispi, spiegò ai parlamentari che, dopo la battaglia di Adua, il governo Crispi aveva lasciato il generale Baldissera libero di prendere qualunque decisione avesse ritenuto opportuna al fine di risolvere la difficile situazione. Al riguardo del negoziato di pace, i cui preliminari erano stati iniziati dal governo Crispi, Di Rudinì rassicurò che esso sarebbe stato condotto con prudenza e con fierezza, soprattutto con l’intento irremovibile di non accettare qualunque compromesso inconciliabile con il decoro dovuto al Regno d’Italia. Con una critica per nulla velata al suo predecessore, il neo presidente del consiglio affermò in parlamento che in Africa, piuttosto che stipulare trattati anche apparentemente vantaggiosi, sarebbe stato molto più funzionale alla politica italiana stabilire, con i fatti, uno

76 Ibidem.

77 S.A., Le sventure. Cercatene le cause, “L’Osservatore Cattolico”, 3-4 marzo 1896, cit.

in A Canavero, I cattolici di fronte al colonialismo, in A.DEL BOCA (a cura di), Adua, le

stato di cose conforme agli interessi nazionali78. Durante il discorso di presentazione del suo governo, Di Rudinì fece intravedere anche i

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