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Nelle prossime pagine cercherò di verificare se e in che misura i decenni intorno al 1100 segnino un effettivo momento di discontinuità nelle concrete forme di esercizio del potere locale rispetto alla fase precedente. La mia atten- zione sarà focalizzata sulla signoria territoriale, che proprio in questo periodo diviene la cellula base di organizzazione dello spazio rurale sotto il profilo po- litico. Non va tuttavia dimenticato che nel medesimo lasso di tempo i neonati comuni urbani iniziano la loro azione di controllo del territorio, generalmente ancora limitata a spazi piuttosto circoscritti, anche se in costante crescita; un ruolo decisamente secondario, sebbene non irrilevante, è infine quello delle comunità rurali autonome, anch’esse impegnate nella costruzione di propri ambiti di dominio. Ritornerò su queste due specifiche forme di potere più avanti, nel capitolo conclusivo della prima parte; non va tuttavia trascurata la loro presenza dal quadro politico delle campagne italiane dell’epoca che non deve essere appiattito su un modello signorile che, per quanto fortemente maggioritario e caratterizzante, non risultava comunque esclusivo.

1. Il potere nelle campagne prima del 1050: terra e diritti pubblici

Prima di occuparci dei decenni intorno al 1100 risulta necessario rivol- gere preliminarmente l’attenzione al X e alla prima metà del secolo XI, per cercare di comprendere quali fossero in quella fase i funzionamenti tipici del

mondo rurale; quale fosse insomma il contesto su cui si innestarono le suc- cessive trasformazioni. Il panorama socio-economico appare segnato dalla centralità della terra e della rendita fondiaria, con una sempre crescente pre- senza di castelli, ma meno numerosi e in forme decisamente meno imponenti che in seguito1. Questi ultimi avevano peraltro generalmente una funzione di

protezione del grande possesso fondiario, e solo raramente risultavano legati all’esercizio di prerogative giurisdizionali, più o meno complete. Inoltre i com- plessi fondiari solo occasionalmente risultano grandi blocchi compatti, più di frequente sono inframmezzati ai possessi di altri proprietari. Rilevante, anche se ineguale a seconda delle aree, risulta poi la presenza dell’allodio contadino: la società rurale dell’Italia centro-settentrionale si connota infatti per la forza della piccola e media proprietà. Se più spesso l’allodio contadino convive con il grande possesso fondiario, relativamente numerose sono le comunità rurali in cui la grande proprietà aristocratica è sostanzialmente assente e la società locale è controllata di fatto dai proprietari locali, talvolta etichettati come ari- manni, direttamente collegati al potere pubblico. Quest’ultimo da parte sua costituisce un modello di funzionamento importante per tutti gli attori rurali. Se nel corso del secolo XI il numero delle signorie territoriali cresce co- stantemente, grazie alle sempre più numerose concessioni di diritti giurisdi- zionali ad aristocratici laici o chiese da parte del regno, rimangono tuttavia ampie aree soggette all’azione degli ufficiali pubblici o di attori (come i ve- scovi) comunque strettamente legati ad esso. In Abruzzo, ad esempio, ancora verso il 1060, pur in una situazione di crescente diffusione dei poteri signorili, i conti controllavano ancora saldamente l’intero Chietino, dove esercitavano il loro potere secondo forme del tutto tradizionali2. In questo contesto l’esercizio

della signoria “privata” doveva comunque modellarsi in modo forte sull’esem- pio degli ufficiali pubblici3. Così nell’organizzare una corte di giustizia signo-

rile nel 1057 il monastero di Casauria la modella sul placito comitale, sui suoi linguaggi e formalismi4. Anche a Inzago, in Lombardia, gli uomini del luogo

giurarono nel 1015 all’abate del monastero milanese di Sant’Ambrogio di «se distringere» e ricevere da lui giustizia «tamquam ante comitem»; una formu- la che indica in modo molto chiaro quali fossero per i diretti interessati i limiti per un corretto esercizio della giurisdizione5. Ancora negli anni Quaranta del

secolo espressioni del tutto analoghe mostrano che le nascenti signorie ter- ritoriali nelle mani del monastero di Farfa si esemplavano sulle prerogative precedentemente nelle mani dei locali conti6. Fino almeno alla fine degli anni

Cinquanta il potere pubblico era insomma il modello per chi esercitava (o

1 Per una panoramica generale Fiore, Les châteaux et la compétition. 2 Feller, Les Abruzzes médiévales, pp. 708-719.

3 Sull’imitatio comitis da parte degli altri detentori di poteri signorili si veda Tabacco, Egemo-

nie sociali, pp. 122-134.

4 Feller, Les Abruzzes médiévales, pp. 702-707.

5 Gli atti privati milanesi e comaschi, I, doc. 74 (a. 1015), p. 175. 6 Wickham, The origins of the signoria.

aspirava a esercitare) poteri signorili territoriali. Anche in quelle realtà locali dove i signori controllavano già pienamente il districtus, la pratica del potere locale risultava dunque in gran parte modellata su quella, piuttosto blanda, esercitata dagli ufficiali pubblici, a cui si univano le prerogative di carattere fondiario, relative cioè ai censi e alle prestazioni richieste agli affittuari delle terre signorili. Si trattava come già visto dell’esercizio della giustizia (con i connessi proventi), di prerogative di carattere militare, e del controllo di pe- daggi e diritti di mercato, a cui si affiancava lo sfruttamento degli incolti. Il caso dell’alta Valle Roya, nel comitato di Ventimiglia, illuminato dalla “carta di Tenda”, un importante testo risalente al 1060 circa in cui sono illustrati i poteri dei conti su alcune comunità di liberi, mostra chiaramente il peso piuttosto lieve delle tradizionali forme di potere pubblico sulla società locale7.

Appare quindi fondamentale sottolineare le implicazioni economiche del- le forme signorili prevalenti fino alla metà del secolo XI, che si traducevano in una relativa debolezza della pressione economica sui sudditi. La strada tra- dizionale per aumentare i profitti era quella dell’accrescimento della propria base fondiaria ai danni dei proprietari minori, ridotti a semplici affittuari e obbligati a versare censi fondiari; un processo che nei primi decenni del seco- lo XI assume non di rado il volto di confische violente. Un tipico esempio è nel contenuto della querimonia rivolta dalla chiesa reggiana contro i Della Palude verso il 10408; a un analogo contesto di aggressività nei confronti dei piccoli

allodieri e delle proprietà periferiche dei grandi proprietari fondiari (in par- ticolare, ma non solo, gli enti monastici), fanno del resto riferimento anche numerosi altri testi dell’epoca9. Fin qui niente di nuovo quindi rispetto alle

tipiche dinamiche di accrescimento del grande possesso aristocratico tipiche del tradizionale sistema carolingio. A questa tendenza si affianca tuttavia, in misura sempre crescente nella seconda metà del secolo XI, l’imposizione di prelievi nuovi (a base fondiaria o giurisdizionale a seconda dei diversi contesti locali). Una lettera di Pier Damiani, risalente alla fine degli anni Sessanta, de- nuncia esattamente una situazione di questo tipo, con riferimento dalla fami- glia dei Marchiones, attiva tra la Toscana orientale e l’Umbria nord-occiden- tale10; i signori si rendono infatti protagonisti di «confiscationes pauperum», 7 Daviso, La carta di Tenda.

8 Casagrande, Il ritrovamento del testo, il documento è edito alle pp. 124-127.

9 Oltre al testo citato nella nota successiva, si vedano ad esempio Gregorio di Catino, Il Chroni-

con farfense, I, pp. 248-258 (usurpazioni in Italia centrale verso la metà del secolo XI a spese

di Farfa); e Gregorio di Catino, Il Regesto di Farfa, IV docc. 900-901 (a. 1059), pp. 294-295 (tentativi di usurpazioni nella zona di Assisi); Papsturkunden, doc. 625 (a. 1045), pp. 1172-1175 (usurpazioni rurali a danno di San Pietro di Perugia). Per quanto riguarda l’appropriazione di terre di piccoli proprietari un’importante testimonianza è quella relativa all’azione nella Sacci- sica del vescovo di Padova, che costrinse con la forza («violenter») i locali allodieri a trasferirgli i loro beni fondiari attraverso «cartae», trasformandoli in affittuari e imponendo loro pesanti gravami («iniuste servitutis oppressione»); un’azione che trovò un ostacolo nell’intervento regio che costrinse il presule a restituire ai legittimi proprietari i loro beni e i documenti estorti. Su ciò MGH, Diplomata Henrici III., doc. 352 (a. 1055), p. 479.

che procedono parallelamente all’imposizione di nuove «illationes» (prelievi) sui rustici da loro dipendenti.

2. Le nuove forme del potere locale

Nei decenni immediatamente successivi tale tendenza avrebbe subito una fortissima accelerazione con l’imposizione di tutta una serie di nuovi grava- mi, prestazioni d’opera e prelievi alla popolazione rurale nel suo complesso, nel quadro di una complessiva ridefinizione delle forme di potere, che vide il trionfo e la generalizzazione della signoria territoriale11. Si tratta di un pas-

saggio di capitale importanza perché cambia strutturalmente le forme stesse del prelievo signorile, ma che rischia di non essere colto pienamente per la natura episodica delle fonti a nostra disposizione. Esse illuminano infatti, in modo del tutto occasionale, singoli contesti, senza però generare addensa- menti che permettano di osservare la natura dei processi in atto. Per questa ragione occorre valorizzare al massimo quei rari casi in cui la documenta- zione ci consente non solo di fotografare la situazione in un determinato mo- mento, ma di cogliere, seppur parzialmente, le dinamiche trasformative. Per capire più del dettaglio come e in che misura si trasformi l’esercizio del potere locale nei decenni intorno al 1100 mi sembra dunque interessante analizzare brevemente tre di questi casi: Calusco, in Lombardia12, Casciavola, in Tosca-

na13 e Cliviano, nel Lazio14.

Un testo del 1068, relativo agli accordi tra il signore di Calusco e alcuni rustici che si stavano trasferendo nel castello, mostra un potere ancora de- bole e limitato, fondato essenzialmente sulla percezione di censi agrari e su alcuni tenui obblighi legati all’usufrutto delle strutture fortificate. Se non co- nosciamo esattamente le dinamiche di trasformazione che caratterizzano il caso specifico, conosciamo invece molto bene il punto di arrivo, situato ad alcuni decenni di distanza. Un documento del 1130 ci offre infatti un’imma- gine molto precisa delle prerogative signorili che si erano ormai cristallizzate localmente. I rustici erano tenuti a fornire contributi, probabilmente moneta- ri, per l’acquisto di nuovi castelli, corvées e materiali grezzi per la costruzione di nuove strutture nel castrum e per la manutenzione di quelle esistenti, a effettuare servizi di guardia, e a versare tasse legate alla protezione militare

11 Segnalano come momento di svolta per quanto riguarda la definizione degli assetti propria- mente signorili in Lombardia, senza però problematizzare il tema, Keller, Signori e vassalli, pp. 118-136; e Menant, Campagnes lombardes, pp. 401-406; con specifico riferimento alla Toscana lo connette fortemente al collasso della marca di Tuscia Wickham, La signoria rurale. 12 Le pergamene degli archivi di Bergamo, doc. 37 (a. 1068), pp. 68-69, e Gli atti del comune di

Milano, doc. 3 (a. 1130), p. 6. Si veda a riguardo Menant, Campagnes lombardes, pp. 409-418.

13 Lettere originali del medioevo, I, n. 18 (aa. 1098-1106 c.), p. 156 (Casciavola); su questo im- portante testo si veda in particolare l’analisi di Wickham, La signoria rurale.

14 Gregorio di Catino, Il Regesto di Farfa, V, doc. 1303 (s.d. ma aa. 1090-1099), p. 290. Si veda a riguardo Carocci, La signoria rurale nel Lazio, pp. 195-196.

fornita dai signori stessi ai sudditi; tra questi prelievi spiccava il vecchio fo-

drum pubblico, ormai di piena disponibilità signorile. Occorre sottolineare

che il fondamento di questi nuovi prelievi era giurisdizionale e territoriale; per aumentare le loro entrate i domini loci non facevano perno sulla dimen- sione fondiaria del loro potere, ma su quella politica. Attraverso questo mec- canismo in sole due generazioni il peso della pressione economica sui sudditi si era dunque moltiplicato a dismisura, nonostante i vani tentativi di resi- stenza dei rustici che, ancora memori di una situazione ben diversa, nel 1130 provarono senza successo ad alleggerire i carichi che su di loro gravavano15.

Il caso di Casciavola offre invece una prospettiva differente, ma comple- mentare rispetto a quella del villaggio bergamasco; se infatti qui il processo di signorilizzazione fallisce (eccezionalmente) grazie all’intervento del comu- ne cittadino di Pisa, una carta di querela redatta intorno al 1100 mostra con grande efficacia le progressive dinamiche di trasformazione del potere aristo- cratico, in cui la violenza gioca un ruolo del tutto centrale16. La signoria, in-

coativa, del consortile aristocratico dei San Casciano sul villaggio si fondava proprio sulla protezione militare fornita ai rustici; i signori chiedevano infatti a ciascun nucleo familiare, oltre al servizio di guardia, solo due carri di legna per ciascuna «cella» occupata nel castello. In seguito il tributo annuale in natura fu sostituito da uno più pesante in denaro (ben 16 denari a famiglia), ma poco dopo i San Casciano richiesero altri tre carri di legna. In seguito a eventi bellici le strutture fortificate del castello furono distrutte e i rustici approfittarono della situazione per ritenersi liberi dai sempre crescenti obbli- ghi, formalmente legati alle mura del castrum; ma proprio quando gli uomini decisero di dire basta alle crescenti richieste la protezione fornita dai signori mostrò tutta la sua perversa ambiguità. Rifiutare la protezione significa infat- ti esporsi alla violenza da parte del protettore rifiutato; così nel caso specifi- co prese il via una lunga serie di angherie, prelievi arbitrari e prevaricazioni quotidiane ai danni degli abitanti di Casciavola, il cui unico scopo era di fare accettare loro la piena sottomissione al gruppo aristocratico e le nuove forme di estrazione del surplus. La svolta oppressiva fu tuttavia arginata, intorno al 1070, grazie al ricorso dei rustici presso il tribunale marchionale, che co- strinse i San Casciano a refutare i loro presunti diritti. Negli anni immediata- mente successivi, con il collasso dell’ordinamento pubblico nel contesto delle guerre civili degli anni Ottanta (ricordato nel testo con la formula retorica ma efficacissima, «postea, cum omnis potestas perdidit virtutem et iustitia mortua est et periit de nostra terra»), i signori ritornarono alla carica, dila- tando ulteriormente le proprie richieste e cercando di imporsi sulla comunità con una inaudita brutalità. Il testo menziona infatti confische di beni mobili, cibo e bestiame effettuate con la forza, selvaggi pestaggi ai danni dei giovani rustici e addirittura bastonate inflitte alle donne durante il parto. L’escalation

15 Per altro caso analogo (Calcinate) nella stessa zona Menant, Campagnes lombardes, p. 418. 16 Lettere originali del medioevo, I, n. 18 (aa. 1098-1106 c.), p. 156.

di violenze fu qui eccezionalmente arrestata grazie all’intervento del comu- ne pisano, ma getta una luce estremamente fosca su quelle che dovettero in molti casi essere le modalità di passaggio tra le tenui forme signorili attestate ancora intorno al 1070 e quelle, ben più gravose, ormai normali dopo il 1100.

L’appesantimento della pressione economica sulla società contadina in- teressò tuttavia anche i centri che ormai da parecchi decenni erano soggetti a poteri signorili territoriali. Una interessante testimonianza in merito è re- lativa a Cliviano, nella valle del Salto, nel Reatino. Si trattava di una località appartenente da secoli all’abbazia di Farfa, ceduta nel quadro di una permuta a una famiglia dell’aristocrazia laica negli ultimi lustri del secolo XI. Alcuni anni dopo la permuta gli abitanti incaricarono il locale sacerdote, Adamo, di scrivere un’accorata lettera all’abate pregandolo di riprenderli sotto la sua signoria17. Il motivo era proprio la rapacità dei nuovi signori rispetto al vec-

chio dominio monastico: «eo quod seniores tollunt omnia et vos modicum tenetis»18. Nella prospettiva locale Farfa si associava a un potere esercitato

con modalità non oppressive, al contrario di quello dei «seniores». Tuttavia il cambiamento non era dovuto semplicemente al mutamento di proprietà, ma era un processo di carattere più generale, come mostrano proprio le coeve fonti farfensi, in cui si evidenzia un appesantimento degli oneri gravanti an- che sulle comunità direttamente controllate dai monaci19. Il testo di Cliviano

mostra inoltre, come già per Casciavola, la (relativa) repentinità del muta- mento, nettamente percepito dai sudditi e non disteso sul lungo periodo.

Sotto questa prospettiva un dato su cui occorre provare a riflettere è quel- lo dell’effettiva pressione economica signorile a base territoriale sulle singo- le comunità di villaggio. L’assoluta povertà dei dati quantitativi relativi alla nostra epoca impedisce di effettuare analisi dettagliate, possibili per conte- sti molto più tardi cronologicamente. Tuttavia alcune fonti ci consentono di provare almeno a delineare degli ordini di grandezza, relativi ai profitti giu- risdizionali. Tali importi non vanno sottovalutati. Come abbiamo visto poco fa a Casciavola, sul finire del secolo XI, i San Casciano richiedevano almeno 16 denari (oltre a tre carri di legname e ai lavori di manutenzione e guardia del castrum) per ogni singolo fuoco; e questo prima che iniziasse la fase di si- stematiche violenze ed estorsioni ai danni dei residenti, in cui la pressione si- gnorile sicuramente aumentò considerevolmente, ma in modo impossibile da quantificare20. A Marzana, un importante castello della Valpantena, i diritti

giurisdizionali dei Canonici di Verona nel 1121 furono valutati in maniera for- fettaria 10 lire all’anno (equivalenti a 2.400 denari), ma ad esse si aggiunge-

17 Gregorio di Catino, Il Regesto di Farfa, V, doc. 1303 (s.d. ma aa. 1090-1099 c.), p. 290. Si veda Carocci, La signoria rurale nel Lazio, pp. 195-196.

18 Ibidem.

19 Gregorio di Catino, Il Regesto di Farfa, V, doc. 1154 (a. 1097 c.), p. 158 per le nuove e pesanti

corveés di lavoro imposte alle comunità della Sabina, teoricamente per l’edificazione della nuo-

va chiesa abbaziale, ma in pratica per lavori di fortificazione. 20 Lettere originali del medioevo, I, n. 18 (aa. 1098-1106 c.), p. 156.

vano altri «servitia» non meglio precisati; inoltre negli stessi anni gli abitanti del villaggio furono tenuti a ristrutturare le mura del castello e a ricostruire la grande torre signorile, probabilmente distrutta nel corso di eventi bellici21.

Marzana era un centro piuttosto grande, abitato da una élite di arimanni be- nestanti e da semplici «vilani» (affittuari); se ipotizziamo una popolazione di 150 fuochi e dividiamo le 10 lire di proventi giurisdizionali il risultato sarebbe di 16 denari per nucleo abitativo, proprio come a Casciavola22. È comunque da

sottolineare che in questo caso una quota piuttosto significativa del surplus locale doveva rimanere nelle mani dei membri della comunità, dal momento che questa si era impegnava anche a versare ulteriori 10 lire di fodro nel caso (allora assai poco teorico) di una presenza imperiale in Italia. Infine, secondo la querimonia amiatina, poco dopo il 1080 gli Aldobrandeschi richiedeva- no in tutto circa 30 lire all’anno, comprensive con ogni probabilità di diritti giurisdizionali e fondiari, da un paio di piccoli villaggi monastici («villulae») passati sotto il loro controllo, a cui si aggiungevano le corvées edilizie cui erano tenuti i residenti; visto che non si trattava di due insediamenti parti- colarmente significativi sotto il profilo demografico, il livello di prelievo deve essere stato decisamente superiore a quello di Marzana, o della prima fase signorile a Casciavola, anche se non quantificabile esattamente per fuoco23.

Un primo dato che emerge è quindi quello della marcata variabilità dell’in- cidenza del prelievo “giurisdizionale” a seconda dei contesti locali. Tuttavia di per sé queste cifre dicono poco e devono essere paragonate con i canoni fondiari e i prezzi della terra agricola per avere un termine di paragone. A Zevio, nel Veronese, nel 1121, l’anno del patto di Marzana, un appezzamento massaricio con arativi e casa fu affittato – da un proprietario che non era il signore locale – a un rustico per un soldo (24 denari) e la quarta parte dei cereali prodotti24: una cifra quindi non così distante da quella che doveva gra-

vare sui singoli nuclei familiari residenti a Marzana (somma a cui peraltro si aggiungevano i canoni fondiari). Nei decenni intorno al 1100, in Italia centra- le, appezzamenti fondiari con casa sufficienti al sostentamento di una singola famiglia contadina, con una superficie di 5-7 moggi e casa, erano non di rado valutati intorno ai 20 soldi (equivalenti a una lira o 240 denari)25. Ciò ci fa

capire che anche una somma di 16 denari (a cui si aggiungevano le presta- zioni d’opera) era tutt’altro che irrilevante e doveva diminuire sensibilmente

21 Le carte del capitolo di Verona, I, doc. 48 (a. 1121), pp. 96-99.

22 Sulla disponibilità da parte delle élites locali di Marzana di beni fondiari (talvolta rilevanti) si vedano Le carte del capitolo di Verona, I, doc. 129 (a. 1147), pp. 246-247; e soprattutto doc. 135 (a. 1149), pp. 256-257. Per quanto riguarda il calcolo effettuato, se ipotizzassimo una popo- lazione di 120 o 200 fuochi il risultato sarebbe ovviamente diverso, ma, ciò che qui più importa, l’ordine di grandezza rimarrebbe comunque il medesimo.

23 Codex Diplomaticus Amiatinus, II, doc. 309 (ante a. 1084), pp. 261-263. 24 Le carte del capitolo di Verona, I, doc. 47 (a. 1121), pp. 95-96.

25 Si veda ad esempio Le carte di S. Croce di Sassovivo, I, doc. 129 (a. 1100), pp. 196-197; II, doc. 118 (a. 1143), p. 143; prezzi del tutto analoghi sono del resto attestati anche in area padana;