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Prima di muoverci verso l’analisi delle dinamiche più strettamente locali mi sembra importante cercare di analizzare più nel dettaglio il ruolo del potere imperiale in questo contesto di crisi e frammentazione dei quadri politici. Nelle pagine precedenti ho accennato più volte alle azioni di Enrico IV e di suo figlio, Enrico V, ma senza cercare di ricostruire le linee guida della loro azione nel con- testo del regno italico1. Questo capitolo cercherà di colmare tale lacuna. Le poli-

tiche imperiali, come la risposta delle forze locali a queste ultime, costituiscono infatti una vera e propria cartina di tornasole per individuare con più nettezza le trasformazioni negli assetti della Penisola. Se capire le aspirazioni e i progetti dei sovrani, alle prese con continue contingenze belliche, emergenze e rivolte, risulta talvolta un compito non proprio semplicissimo, è comunque possibile individuare alcune linee di condotta, caratterizzate da una significativa discon- tinuità rispetto al passato, che ci consentono di comprendere che gli imperatori non erano semplicemente interessati a ripristinare il perduto ordine, ma erano invece alla ricerca di soluzioni innovative per rispondere ai mutati assetti del regno. Il potere regio non deve infatti essere visto semplicemente come una vit- tima della crisi politica scatenatasi nel tardo XI secolo, con una lettura falsata da una prospettiva teleologica, ma deve invece essere restituito alla sua dimen- sione di attore di primo piano sullo scacchiere della Penisola.

1 Solo negli ultimi anni le ricerche stanno riscoprendo la figura di Enrico V, fino ad oggi messo in ombra dall’ingombrante figura paterna, che ha polarizzato l’interesse storiografico; si veda a riguardo l’importante Heinrich V. in seiner Zeit. Sul nostro tema particolarmente significativo il contributo di Goetz, Zwischen Reichszugehörigkeit.

Questa convulsa fase non fu semplicemente percepita dall’impero come una minaccia per lo status quo e per il suo tradizionale ruolo di supremazia, ma anche come una opportunità per liberarsi dai vincoli del vecchio sistema politico, guadagnando un nuovo e più diretto accesso al regno italico e alle sue risorse. Nel seguire questa prospettiva di analisi, mi focalizzerò sulle concrete risorse e sull’infrastruttura politica degli ultimi Salici nel regno d’Italia, cer- cando di colmare un vuoto della recente storiografia su questi temi; lascerò invece da parte i problemi connessi con la comunicazione simbolica e con la relazione con il papato, due temi che hanno polarizzato le ricerche negli ul- timi decenni2. A tale riguardo occorre precisare che parlare di infrastruttura

regia significa in questo periodo parlare principalmente di centri posti sotto il diretto controllo del potere regio. A questo proposito è tuttavia cruciale sotto- lineare il fatto che l’indagine sul patrimonio fiscale, la sua consistenza e il suo utilizzo sia resa particolarmente complicata dalle pratiche sociali ad esso con- nesse. Una recente e importante ricerca di Simone Collavini e Paolo Tomei ha infatti messo in luce che le aziende agrarie del fiscus (regio, marchionale e co- mitale che fosse) erano affidate e circolavano sulla base di pratiche esclusiva- mente orali, a differenza di quelle appartenenti ai privati3. Una proclamatio,

composta dal monastero toscano di San Michele di Marturi (oggi Poggibonsi) in vista di un conflitto da risolvere davanti al marchese di Tuscia Bonifacio di Canossa, intorno alla metà del secolo XI, chiarisce questa sistema gestio- nale4. Narrando le vicende del monastero e del suo patrimonio nei decenni

a cavallo del 1000, essa mostra che il cenobio, fondato dai marchesi su terra pubblica, e il complesso fiscale di cui faceva parte erano gestiti dai marche- si di Tuscia e dai loro rappresentanti locali non attraverso il ricorso ad atti scritti, ma con atti dispositivi e concessioni precarie di natura esclusivamente orale, che non venivano registrati in testi scritti. Il documento monastico evi- denzia in modo assolutamente chiaro che quei beni circolavano ampiamente tra i sostenitori e gli intimi dei marchesi che a loro volta li trasferivano in sub-concessione ai loro clienti, sempre tramite accordi orali e precari, del tut- to privi di una connotazione tecnicamente feudale. Il testo precisa poi che il ricorso alla scrittura per queste pratiche di trasferimento era tassativamente escluso, perché avrebbe violato la stessa natura fiscale del bene, che doveva rimanere sempre revocabile da parte dell’ufficiale pubblico, impedendo qual- siasi tentativo di patrimonializzazione da parte dei concessionari. Le impli- cazioni di questo documento sono molto evidenti: non potremo mai disporre di enfiteusi, livelli o concessioni feudali relative a questi beni, a differenza di quelli appartenenti alle chiese o agli aristocratici laici, ma solo di episodiche menzioni in testi di altra natura o nei diplomi, e quindi coglierli nel momento

2 Si vedano ad esempio Weinfurter, Reformidee und Königtum; Althoff, Heinrich IV.; D’Acunto,

L’età dell’obbedienza; Cantarella, Pasquale II.

3 Collavini, Tomei, Beni fiscali e “scritturazione”.

4 Su questo importante testo si veda ora la nuova edizione e il commento offerti da Collavini, I

in cui passavano dalle mani del fiscus a quelle di altri potenti. In quest’ottica i beni fiscali, regi o controllati dagli altri ufficiali pubblici, rappresenterebbero quindi degli autentici buchi neri documentari. Occorre quindi valorizzare al massimo gli scarni dati presenti nelle fonti a nostra disposizione. Per iniziare il nostro percorso è tuttavia necessario fare, anche in questo caso, un piccolo passo indietro, al regno di Enrico III, per cercare di comprendere quali fos- sero le caratteristiche del potere regio in Italia alla metà del secolo XI e come queste erano percepite dagli stessi sovrani.

1. Enrico III: la presa di coscienza dei limiti del potere imperiale

Intorno al 1050 il ruolo del potere regio nel contesto italiano era in qual- che misura contraddittorio. Da un lato esso era ancora percepito come la fonte ultima di ogni legittimo potere, e la sua superiorità era accettata da tutti gli attori attivi nel regnum, ma sotto il profilo pratico la sua capacità di azione risultava piuttosto limitata, ed era effettiva solo nel momento in cui il re (e il suo esercito) si trovavano a sud delle Alpi5. L’imperatore mancava infatti di

una struttura permanente e di una concreta base di potere nella Penisola, che gli permettesse di controllare efficacemente il gioco politico del regno italico in sua assenza. Il regno disponeva ancora di beni fondiari di rilievo, ma tutti o quasi questi beni erano di fatto controllati dagli attori politici italici, che fun- gevano quindi da mediatori tra le istanze del potere centrale e le società locali.

Quando si trovava in Germania l’imperatore doveva quindi fare quasi esclusivo affidamento sugli attori italici. Tuttavia in questa fase la rimozio- ne di ufficiali laici e la loro sostituzione era di fatto ormai quasi impossibile per il re, a causa del fortissimo radicamento delle famiglie aristocratiche sul territorio, anche di fronte a veri e propri episodi di infedeltà. Le cose non an- davano particolarmente meglio con vescovi e abati, anche se il regno mante- neva comunque un certo grado di controllo su alcune cattedre episcopali e su alcuni monasteri regi. Questa situazione doveva essere percepita come pro- blematica anche dallo stesso vertice imperiale, dal momento che durante il regno di Enrico III possiamo osservare alcuni tentativi volti a superarla, dan- do vita a nuovi assetti. Proprio in questa luce devono essere lette tendenze come la costruzione di rapporti più diretti con comunità locali, sia di carat- tere urbano sia di carattere rurale. Le comunità di uomini liberi erano infatti tradizionalmente viste come destinatarie della protezione regia, ed Enrico III cercò di valorizzare proprio questo legame, usando anche le (verosimilmente) poche curtes ancora sotto diretto controllo regio come perni per intensificare il potere imperiale. Una buona guida a questi fenomeni è costituita dall’azio- ne del sovrano in Valcamonica, dove egli cercò di usare l’importante curtis regia di Darfo per istituire robusti legami con le comunità libere dell’area, in

particolare con gli uomini della Val di Scalve, tagliando fuori i grandi poteri attivi nell’area, come il vescovo di Bergamo6. Inoltre Enrico rilasciò diplo-

mi direttamente a comunità urbane, evitando la tradizionale mediazione di marchesi e vescovi, come mostrato dai privilegi per Mantova e Ferrara del 10557. Provò inoltre a valorizzare il ruolo del re come protettore dei liberi

nelle campagne, fornendo a questi ultimi protezione dalle crescenti pressioni esercitate dai grandi proprietari rurali; confermando i privilegi e i diritti, sanciti dalla consuetudine locale, degli homines della Saccisica, una vasta area rurale non lontana da Padova, egli bloccò, almeno temporaneamente il tentativo del presule padovano di imporre un potere di tipo signorile su quel- le comunità8. Il sovrano fece anche un serio tentativo di acquisire il diretto

controllo della marca di Tuscia, la più potente struttura pubblica del regno, sfruttando i problemi dinastici dei Canossa, ma il tentativo ebbe risultati effi- meri9. Nonostante questi visibili ed evidenti segni di discontinuità rispetto al

recente passato, il progetto di consolidamento del potere regio e delle sue basi locali rimase in forma solamente larvata, anche per la prematura morte di Enrico III, che, come già detto, diede il via a una fase di crescente instabilità degli assetti politici.

2. Enrico IV: una distruzione creatrice

Come abbiamo visto nei capitoli precedenti in una primissima fase l’ap- proccio di Enrico IV ai problemi posti dal governo della Penisola fu piuttosto prudente10. Nei primi anni di governo l’imperatore si mosse sostanzialmente

sulle orme del padre, come mostrano ad esempio i privilegi rilasciati agli uo- mini di Lazise o agli arimanni di Vigevano11. Anche la proclamazione delle

pax italica, nel 1077, deve essere semplicemente letta come una valorizzazio-

ne del tradizionale ruolo del regno di garante dell’ordine pubblico12. Il dete-

rioramento della situazione rispetto ai primi anni Cinquanta rendeva infatti probabilmente difficile pensare a un piano di azione più ambizioso; e del resto lo stesso Enrico fu rapidamente costretto a prendere atto dei cambiamenti in- tervenuti nel contesto italiano. Ad esempio, se un ventennio prima suo padre era energicamente intervenuto per proteggere la libertà degli arimanni della

6 MGH, Diplomata Henrici. III, n. 199 (a. 1047), pp. 255-257; su questo diploma Menant, Cam-

pagnes lombardes, pp. 639-641.

7 MGH, Diplomata Henrici III., n. 351 (a. 1055), p. 478; n. 356 (a. 1055), p. 484.

8 Ibidem, n. 352 (a. 1055), pp. 479-80. Su tutti questi diplomi fondamentale l’analisi condotta in Tabacco, I liberi del re, in particolare pp. 165-196; e sulla Saccisica anche Rippe, Padoue et

son contado, pp. 161-177.

9 Goetz, Beatrix von Canossa, pp. 140-169. 10 MGH, Constitutiones, I, n. 68 (a. 1077), p. 117.

11 MGH, Diplomata Henrici IV., n. 170 (a. 1065), pp. 221-222 (Vigevano); n. 287 (a. 1077), pp. 375-376 (Lazise).

Saccisica, il nuovo imperatore dovette invece abbandonarli, sanzionando le pretese signorili del vescovo padovano13. Tuttavia, lo scoppio delle guerre ci-

vili degli anni Ottanta, con la forte e irreversibile accelerazione dei processi di scomposizione degli assetti politici, alterò completamente il quadro di ri- ferimento e aprì nuovi e impensabili spazi d’azione per l’imperatore. Di fronte al divampare del conflitto Enrico scelse infatti una linea di azione estrema- mente aggressiva, favorendo – e in alcuni casi provocando deliberatamente – la scomparsa di molte delle tradizionali circoscrizioni pubbliche, come la marca di Tuscia e quella di Torino, o la contea del Friuli. L’intento era chiara- mente quello di prendere il diretto controllo dei beni fiscali precedentemente controllati dagli ufficiali pubblici, e contemporaneamente di costruire legami diretti con gli attori politici locali, anche ai livelli più modesti, saltando le tradizionali mediazioni aristocratiche.

Se quindi le linee guida non cambiano rispetto agli anni di Enrico III, ben diversa risulta invece l’energia e la sistematicità con cui questa linea di azione è perseguita, grazie al nuovo contesto politico. Una delle guide più chiare a questo tipo di processi è fornita dalla marca di Torino. Qui Enrico IV non riconobbe i diritti ereditati della figlia della contessa Adelaide, governante della marca, agendo in modo del tutto opposto rispetto a quanto fatto dai suoi predecessori alcuni decenni prima14. La scelta dell’imperatore contribuì

in modo decisivo al collasso della grande struttura pubblica subito dopo la morte di Adelaide, nel 1091, in un contesto di guerre locali tra i vari preten- denti all’eredità della contessa. Lo stesso sovrano intervenne inviando il figlio Corrado con un esercito per acquisire il controllo dei beni fiscali marchionali, ma il progetto fallì anche per la ribellione del principe, che si unì al partito filo-gregoriano15. Anche in Toscana Enrico dichiarò Matilde di Canossa de-

caduta dalla carica marchionale, favorendo l’affermazione dei poteri locali, con cui cercò di instaurare relazioni dirette, ponendosi come nuovo vertice di riferimento. I numerosi diplomi imperiali rilasciati in quegli anni a comunità urbane e rurali, in tutto il territorio del regno, mostrano infatti perfettamente la chiara volontà dell’imperatore di entrare in una diretta connessione con le società locali, di creare un sistema di relazioni che unisse centro e periferie16.

Enrico non si limitò a distruggere quelle strutture intermedie percepite come pericolose per i progetti egemonici del potere imperiale, ma in alcuni casi cercò di rivitalizzarle usandole però come semplici strumenti di controllo del territorio. In Umbria e nelle Marche l’imperatore riportò in vita il ducato di Spoleto e la marca di Fermo/Ancona, che dopo una prima fase di gestione

13 Castagnetti, Arimanni e signori.

14 Sul collasso della marca arduinica e suoi successivi sviluppi, Provero, Aristocrazia d’ufficio; Pecchio, Sviluppi signorili.

15 Bernoldi Chronicon, pp. 495-496. Sulla defezione di Corrado, Goetz, Der Thronerbe als Rivale. 16 Si vedano ad esempio MGH, Diplomata Henrici IV., n. 170 (a. 1065), pp. 221-222; e n. 287 (a. 1077), pp. 375-376 (entrambi per comunità rurali); n. 334 (a. 1081), pp. 437-439 (per i cives di Lucca); n. 421 (a. 1091), pp. 563-564 (per i cives di Mantova).

separata, furono unite sotto il governo di un ministerialis regio di origine te- desca. Il nuovo duca/marchese fu attivo soprattutto nel settore adriatico, ma la sua area di intervento si estendeva, grazie all’invio di missi, fin nel cuore dell’Umbria17. In Veneto l’imperatore rilanciò la tradizionale marca di Vero-

na, nominando come marchese Lutoldo, un membro della potente famiglia transalpina degli Eppensteiner, che agì con grande vigore nell’area tra il 1077 e il 109018. Più in generale in quello stesso periodo Enrico confiscò castelli e

curtes ai ribelli in tutta la Pianura padana, cercando di costruire una rete di Reichsgüter, posta sotto il diretto controllo del sovrano: l’abbozzo di un’infra-

struttura regia di carattere permanente.

I suoi ambiziosi piani si scontrarono tuttavia con i rovesci bellici che ne minarono rapidamente la capacità di intervento, limitata ad aree sempre più ristrette. Quando Enrico IV, ormai sconfitto sotto il piano militare da Matilde e dai suoi alleati, fu in grado di lasciare l’Italia per la Germania, nel 1095, il suo progetto di un nuovo e più diretto sistema di governo regio era chia- ramente fallito19. Il sovrano manteneva una relativa influenza solo nell’Italia

nord-orientale e (forse) nelle Marche, ma le altre regioni del regno erano del tutto fuori dal suo controllo. Nel periodo 1097-1110 non venne redatto alcun diploma per destinatari italiani; si tratta del segno diagnostico di una crisi che era sia materiale sia ideologica. Il prestigio dell’impero come pure la sua capacità di azione nella Penisola erano ridotte ai minimi termini20. Solo du-

rante il governo di Enrico V l’azione regia avrebbe conosciuto un’importante fase di rilancio, secondo linee di intervento non dissimili da quelle abbozzate durante il regno di suo padre.

A questo tema sarà dedicato il prossimo paragrafo, ma prima di occu- parmi del regno di Enrico V, vorrei provare a riflettere sulle conseguenze di breve e lungo termine dell’azione imperiale nel contesto delle guerre civili di fine XI secolo, fino ad ora sostanzialmente tralasciate dalla ricerca. Per com- prenderne in pieno gli effetti è utile volgere brevemente l’attenzione alle tra- iettorie divergenti di due regioni: la Toscana e il Friuli. Si tratta di due aree dove ancora negli anni Settanta del secolo XI le strutture politiche di matrice carolingia erano praticamente intatte. In Toscana, come già detto, Enrico IV rimosse dal suo ufficio la marchesa Matilde e promosse attivamente la disso- luzione del tradizionale sistema di potere, visto come uno strumento del pote- re canossano, e quindi una diretta minaccia per il predominio regio21. Provò

quindi a stabilire dei legami diretti con le forze locali in ascesa, fossero queste comunità urbane, vescovi o dinastie comitali, senza tuttavia procedure alla nomina di un nuovo marchese, ma il risultato, in meno di un paio di decenni

17 Gregorio di Catino, Il Regesto di Farfa, V, doc. 1133 (a. 1094) p. 135; doc. 1251 (a. 1094) pp. 231-232.

18 Klaar, Die Herrschaft der Eppensteiner, pp. 108-115. 19 Hay, The military leadership, pp. 59-197.

20 Busch, Die Diplome der Salier, in particolare p. 293. 21 Ronzani, L’affermazione dei Comuni.

fu la completa disgregazione delle vecchie circoscrizioni pubbliche e il collas- so delle istituzioni tradizionali22.

Enrico IV rimosse dal suo ufficio anche il potente conte del Friuli, soste- nitore del partito riformatore, ma in questo caso si limitò ad affidare il suo ufficio, e tutti i connessi diritti, al patriarcato di Aquileia (una delle poche sedi episcopali ancora efficacemente controllate dal regno), favorendo la pre- servazione delle vecchie strutture politiche23. Il risultato di questa scelta fu

una straordinaria continuità, non solo sotto il profilo politico, ma anche sotto quello sociale. Ancora alla fine del XIII secolo il panorama sociopolitico del Friuli era per molti versi più simile a quello dell’Italia carolingia che a quello dell’Italia contemporanea24. Proprio il caso del Friuli, nella sua atipicità, mo-

stra tuttavia che la tendenza alla frammentazione e alla localizzazione delle strutture e delle dinamiche di potere non era inevitabile. Se le precondizioni nelle due aree non erano radicalmente diverse, gli esiti, così divergenti, appa- iono connessi in modo decisivo alle differenti linee guida adottate localmente dal potere imperiale; il modello tradizionale di funzionamento delle campa- gne italiane non era cioè destinato a un’inevitabile estinzione, e un diverso percorso evolutivo era possibile25. La ridefinizione del panorama socio-poli-

tico rurale non fu solo il risultato di processi di lungo periodo, ma anche il diretto risultato delle politiche e delle scelte imperiali.

3. Enrico V: il progetto di un’infrastruttura regia permanente

Negli anni del regno di Enrico V la relativa stabilizzazione del quadro po- litico, con la fine della fase più dura delle guerre civili, consente di leggere più chiaramente rispetto al periodo di Enrico IV le linee di indirizzo del program- ma politico imperiale. È evidente che il re stava cercando di costruire un siste- ma di governo funzionale e permanente, in grado di mitigare gli effetti delle sue inevitabili assenze attraverso la costruzione di una rete di infrastrutture politiche locali e di ufficiali addetti alla loro gestione. Ciò vale soprattutto per il periodo tra il 1116 e il 1125, un momento decisivo per il progetto di intensifi- cazione della presenza regia nella Penisola. Nel 1116, dopo la morte di Matilde di Canossa, Enrico scese infatti in Italia per rivendicare i propri diritti come erede dell’allodio della gran contessa: un patrimonio composto da centinaia di castelli, villaggi e curtes sparsi in tutta la Pianura padana26. Ottenere il con-

trollo di questi beni significava infatti acquistare quella reale base di potere che mancava al regno e che sarebbe stata in grado di sostanziarne i disegni

22 Cortese, Signori e castelli.

23 Cammarosano, Patriarcato, Impero.

24 Per una panoramica generale Il Patriarcato di Aquileia; si veda anche Zanin, L’evoluzione

dei poteri.

25 Fiore, Il tempo dei cambiamenti.

egemonici in Italia, in un momento in cui peraltro la sua capacità di governo in ambito tedesco era messa pesantemente in discussione27. Ristrutturare le for-

me di controllo sul regnum Italiae, facendone uno dei pilastri del potere im-