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Negli ultimi due capitoli mi sono focalizzato in modo specifico sulla signo- ria e sui suoi funzionamenti; tuttavia, come già detto più volte, questa forma di potere, per quanto diffusa e maggioritaria, non era affatto totalizzante nel quadro delle campagne italiane dell’epoca. Prima di iniziare la seconda parte del libro, dedicata nello specifico all’analisi dell’interrelazione tra pratiche e linguaggi nel mondo signorile, mi sembra quindi indispensabile completare il quadro fin qui delineato, approfondendo il ruolo strutturale di quei “po- teri collettivi” attivi nello spazio rurale, a cui ho più volte fatto riferimento in precedenza. Con questa espressione intendo le comunità urbane e rurali in qualità di attori politici autonomi; due tipi di realtà il cui peso quantitati- vo nell’organizzazione politica del territorio risulta peraltro profondamente differente. Se fin dai decenni intorno al 1100 il ruolo delle collettività di ci-

ves appare decisamente significativo e interessa settori via via crescenti delle

campagne, le comunità rurali autonome costituiscono invece una tipologia di organizzazione politica meno incisiva sugli assetti complessivi, e che si fa anzi (molto probabilmente) progressivamente sempre più rara, almeno fino alla fine del periodo qui preso in esame. Tuttavia è necessario analizzare con grande attenzione entrambe queste forme di potere se si vuole capire appieno la struttura politica delle campagne dell’epoca e quindi il contesto di sviluppo e affermazione del dominatus loci. La signoria si trova infatti a interagire in varie modalità (pratiche e ideologiche) con questi modelli, almeno in parte alternativi, di organizzazione e funzionamento del potere locale, che non pos-

sono quindi essere tralasciati, anche all’interno di un discorso il cui fuoco è schiettamente signorile. Inizierò il mio percorso con le comunità urbane (ov- viamente meglio conosciute e su cui le fonti sono decisamente più abbondan- ti) e la loro azione nel territorio, per passare poi al mondo, più elusivo e alme- no apparentemente meno significativo, delle collettività rurali indipendenti. 1. I protocomuni urbani

Il tema del comune urbano riveste un ruolo del tutto centrale nella gran- de narrazione del medioevo italiano, fino almeno dalla prima metà del XIX secolo. Con queste premesse suscita quindi un certo stupore il fatto che la primissima fase dell’esperienza politica autonoma delle collettività di citta- dini sia stata oggetto di ricerche non particolarmente numerose, almeno se paragonate con la sterminata produzione dedicata ai periodi successivi, come ha sottolineato Chris Wickham nel suo recentissimo volume dedicato a que- sto specifico tema1. All’interno di tale panorama, già non ricchissimo di suo,

ancora meno numerosi sono gli studi che si sono focalizzati sulle relazioni politiche tra la città e il territorio rurale in questa precisa fase; ciò non solo per una specifica mancanza di interesse, quanto anche, e forse soprattutto, per una effettiva debolezza delle fonti. Non bisogna infatti dimenticare che la stragrande maggioranza degli studi sui comuni italiani, con poche eccezioni, è composta da lavori di carattere monografico su singole città, e in un conte- sto di questo tipo risulta arduo costruire analisi articolate davanti a fonti sul controllo del territorio che fino agli anni Trenta del XII secolo sono, nella mi- gliore delle ipotesi, radissime, mentre iniziano a farsi più abbondanti, almeno nei casi più fortunati, solo per l’epoca federiciana2. Se invece analizziamo nel

suo insieme la documentazione relativa a questo tema fino al 1130 circa essa, pur non sovrabbondante, non risulta neanche scarsa in modo scoraggiante3.

Nelle prossime pagine proverò a fornire una prima e parziale lettura d’insie- me di questo materiale, per cercare di arricchire e articolare ulteriormente il quadro della situazione politica delle campagne fin qui delineato. Le comu-

1 Wickham, Sonnambuli, pp. 13-14.

2 Tra le principali eccezioni alla dimensione monografica degli studi sui comuni, si vedano Mai- re Vigueur, Cavalieri e cittadini, e Bordone, La società cittadina. Sulla giurisdizione comunale una importante panoramica, particolarmente attenta anche ai decenni intorno al 1100, è fornita da Milani, Lo sviluppo della giurisdizione.

3 Particolarmente utili risultano in questo senso alcune lunghe raccolte di deposizioni testimo- niali (o di riassunti delle stesse) relative alla giurisdizione nel contado da parte di comunità ur- bane. I documenti in questione risalgono alla seconda metà del XII secolo, ma alcuni testimoni raccontano di eventi avvenuti a partire dai primissimi decenni del secolo. Si vedano Documenti

degli archivi di Pavia, docc. 45-48 (a. 1184), pp. 72-193 (su alcuni centri dell’Oltrepò contesi

tra Pavia e Piacenza); Gli atti del comune di Milano, doc. 73 (a. 1170), pp. 103-107 (sul Seprio, conteso tra Milano e Como); doc. 74 (a. 1170), pp. 108-111 (su alcuni centri del Comasco, sempre contesi tra Milano e Como); e Appendice, in Castagnetti, Il processo per Ostiglia, doc. 1 (ante a. 1151), pp. 317-369, sul centro di Ostiglia, conteso tra Ferrara e Verona.

nità urbane si muovono infatti nello spazio rurale con forme e modalità solo parzialmente assimilabili a quelle tipiche dei signori, e questa specificità va sottolineata e indagata per cercare di capire pienamente la complessità dei contesti politici locali e le forme di interazione tra i loro attori.

Anche se si tratta di un dato ben noto, è comunque importante ricordare in via preliminare come ancora sul finire degli anni Venti del XII secolo le strutture istituzionali comunali non fossero ancora pienamente formalizzate, con pochissime eccezioni. Per queste ragioni nelle pagine che seguono non userò quasi mai il termine “comune”, che si riferisce a formazioni politiche ormai più strutturate e mature, limitandomi a impiegare il meno impegnati- vo lemma “protocomune” per indicare la collettività dei cives come specifico attore politico. Ciò non significa che le collettività di cives non fossero in gra- do di articolare un’azione politica autonoma, talvolta in un rapporto di piena collaborazione con i tradizionali riferimenti istituzionali locali (in primis i ve- scovi, più raramente marchesi e conti), come a Milano e Pisa, talora in aperta opposizione a questi ultimi, come a Cremona, ad Arezzo o a Torino4. La crisi

delle strutture di governo pubblico degli anni Ottanta portò anche in questo caso a una dirompente accelerazione di processi e dinamiche già esistenti, aprendo alle collettività urbane spazi di azione autonoma prima semplice- mente impensabili.

Prima di spostarci nello spazio esterno rispetto a quello delimitato dalle mura urbane è tuttavia opportuno sottolineare che all’interno delle città le dinamiche di potere erano ben diverse rispetto a quelle descritte nei capitoli precedenti. Lo spazio urbano appare infatti connotato da una maggiore con- tinuità nelle forme quotidiane di esercizio del potere; cambiano i protagonisti (dai tradizionali ufficiali pubblici ai primi esponenti della collettività cittadi- na) ma le pratiche mostrano una notevole stabilità, rimanendo imperniate su quelle forme di azione collettiva tipiche della fase precedente5. Anche laddove

non si assistette a una precoce formalizzazione di istituzioni comunali e il tradizionale ruolo del vescovo rimase saldo (come a Fermo, Volterra o Asco- li), egli rimase comunque un leader civico, senza sviluppare forme di potere dispotiche e muovendosi invece nel solco dell’antica tradizione del potere di matrice pubblica, arricchita spesso dalla crescente centralità assunta dall’a-

rengo, l’assemblea dei cittadini6. Tuttavia proprio la significativa continuità

nelle concrete e quotidiane pratiche di potere che caratterizzò l’ambito urbano ci può consentire di comprendere meglio lo iato tra le città e (la gran parte de) i centri rurali. Pochissime furono le realtà urbane che sperimentarono forme di dominazione analoghe a quelle considerate come del tutto normali nelle campagne, e quando ciò accadde, come in alcune città laziali, e nei centri pa- dani soggetti a podestà imperiali tedeschi negli anni Sessanta del XII secolo,

4 Per queste dinamiche si veda in generale Wickham, Sonnambuli. 5 Wickham, The ‘feudal revolution’.

6 Ciò è particolarmente visibile nel caso di Parma; su cui Schumann, Istituzioni e società a

ciò costituì un autentico trauma per i cives7. La migliore documentazione su

questo specifico tema riguarda probabilmente Terracina, nel Lazio pontificio, e pur risalendo alla seconda metà del XII secolo, non lascia dubbi sull’effettiva drammaticità del cambio di regime, non solo per gli assetti politici locali, ma anche per la concreta vita quotidiana degli abitanti8.

Con ciò non si vuole certo affermare che le città, e i comuni cittadini, fos- sero un mondo privo di violenza; le ricerche degli ultimi decenni hanno anzi sottolineato con forza l’importanza dell’elemento militare della vita urbana, la militarizzazione delle loro élites, la ferocia dei conflitti tra le città e soprattutto dentro le città9. Si tratta tuttavia a mio avviso di una violenza diversa, inserita

in un contesto profondamente differente, in cui il potere rimaneva – sia a livello ideale sia pratico – qualcosa di condiviso, fondato sulla collettività e la costru- zione del consenso. La violenza intra-urbana era infatti essenzialmente legata al conflitto per il potere10; quella rurale (anche) all’esercizio stesso del potere11.

Se invece ci spostiamo dall’interno dalle mura urbiche alle campagne su cui i protocomuni cercavano di imporre il loro potere, il quadro appare ovvia- mente ben diverso. Risultano comunque alcune differenze rispetto al mondo signorile che vanno opportunamente sottolineate. Da un lato i testi relativi alle azioni nel quadro di conflitti per il controllo del territorio ci mostrano pratiche belliche del tutto assimilabili a quelle messe in atto dalle masnade signorili. Particolarmente istruttivo a tale proposito è il contenuto del De

bello et excidio urbis Comensis, scritto da un testimone oculare degli even-

ti, che descrive con grande vividezza la cruenta guerra tra Como e Milano nel decennio tra il 1118 e il 112712. Leggiamo di razzie, di villaggi incendiati

e saccheggiati, di stupri, di rustici passati a fil di spada e, più in generale, di violenze di ogni genere, che si aggiungono a feroci scontri in campo aperto e ad attacchi a castelli; tutte azioni che sembrano prese di peso da una delle più cruente querimoniae signorili. Il modo in cui i protocomuni praticavano la guerra era dunque altrettanto spietato e feroce di quello dei signori. Per contro, nelle fonti a nostra disposizione, pur non abbondantissime, relative ai rapporti istituiti con le comunità rurali direttamente dipendenti dai comuni urbani non osserviamo invece quelle forme di brutalità e violenza legate al

7 Sui podestà imperiali e la loro azione si veda Güterbock, Alla vigilia della Lega; e MGH, Diplo-

mata Frederici I., II, n. 444 (a. 1164), pp. 343-344 (su Treviso); si veda a riguardo anche Bisson, The Crisis, pp. 316-319. Sulle città laziali si veda invece Carocci, La signoria rurale, pp. 190-195.

8 Il ricchissimo testo in questione è edito con numerosi errori in Contatore, De Historia Terra-

cinensi, pp. 52-57; un’utile edizione, emendata ma parziale, è nell’appendice (n. 3) a Carocci, Le lexique du prélèvement seigneurial. Tornerò più nel dettaglio su questa importante fonte nella

seconda parte del libro, nel capitolo dedicato alla violenza (capitolo 10.2). 9 In questo senso il riferimento obbligato è a Maire Vigueur, Cavalieri e cittadini.

10 Sul caso di Genova, si vedano in particolare Filangieri, Famiglie e gruppi dirigenti; e Ingu- scio, Reassessing civil conflicts.

11 Su questa dimensione del potere signorile in ambito rurale rimando all’ampia discussione del tema nel capitolo 10.

quotidiano esercizio del potere così diffuse in ambito signorile13. Non ci sono

ad esempio menzioni di bastonature e frustate arbitrarie, né tantomeno di stupri, ai danno dei rustici. Non che gli ufficiali comunali non sapessero es- sere più che assertivi nei confronti delle popolazioni locali, ma la loro azione sembra avere un carattere decisamente più temperato rispetto a quella degli aristocratici del contado. Ritorneremo più avanti su questo importante tema; prima di potere provare ad affrontarlo occorre infatti analizzare più nel detta- glio non solo le forme e le modalità con cui si esplicava concretamente l’azione politica dei protocomuni nel territorio rurale, ma anche le scansioni cronolo- giche del processo di espansione di questi ultimi, che trova nel nostro periodo il cruciale momento di gestazione prima, e di decollo poi.

Il periodo delle guerre civili con la disarticolazione delle tradizionali strutture di potere regie e lo sfaldamento delle dominazioni marchionali, ma anche con i forti conflitti interni tra comunità urbane e vescovi filo-imperiali o, più di rado, filo-papali (con l’allontanamento talvolta per lunghi anni dei presuli) aprì alle collettività dei cives spazi d’azione prima impensabili. Libere dalla tutela vescovile, esse potevano organizzarsi autonomamente e assumere in prima persona le responsabilità connesse al governo cittadino e, più in ge- nerale, alla tutela degli interessi urbani, anche nello spazio rurale. La rapida affermazione delle comunità urbane come attori politici autonomi, evidente già nei diplomi del 1081 di Enrico IV per Lucca e Pisa, o in quello, di pochi anni più tardo, per Mantova, si associò fin da subito, in diversi casi, all’eser- cizio di forme di controllo politico sul territorio rurale circostante ai singoli centri urbani14. Certamente in questa primissima fase l’effettiva capacità di

proiezione politica nel contado doveva essere, con poche eccezioni, limitata a un raggio di qualche chilometro dalle mura urbane. Non bisogna tuttavia fare l’errore di sottostimare il ruolo dei protocomuni in ambito rurale già prima del 1100. Nel 1095 i cittadini di Asti prendevano il controllo dell’importan- te castello di Annone, situato a poco meno di una decina di chilometri dalle mura urbiche15. Nel 1097 Matilde di Canossa concesse in beneficio ai rappre-

sentanti del comunum di Cremona, in cambio dell’aiuto militare dei cittadini nella guerra contro Enrico IV, i diritti comitali sull’Isola Fulcheria, una vasta area tra il Serio e l’Adda posta a una ventina di chilometri a nord della città; diritti che i Cremonesi cercarono di rendere effettivi scatenando già l’anno successivo una violenta guerra con Crema e i conti Gisalbertini16.

È tuttavia negli anni successivi al 1100 che i dati relativi all’azione poli- tica dei protocomuni nel contado si fanno (relativamente) più numerosi, per-

13 Gli atti del comune di Milano, doc. 73 (a. 1170), p. 106 (sul Seprio, conteso tra Milano e Como); e Appendice, in Castagnetti, Il processo per Ostiglia, doc. 1 (ante a. 1151), sul centro di Ostiglia, conteso tra Ferrara e Verona.

14 Per Mantova si veda MGH, Diplomata Henrici IV., n. 421 (a. 1091). 15 Codex Astensis, III, doc. 94 (a. 1095), p. 651.

16 Le carte cremonesi, II, doc. 242 (a. 1098), pp. 53-54; si veda Menant, La prima età comunale, pp. 201-210.

mettendo di cogliere due distinti fenomeni. Da un lato aumenta fortemente il numero delle comunità urbane impegnate nel contado, dall’altro emerge anche nettamente una significativa differenza nella capacità dei singoli centri di incidere sul territorio. Milano già intorno al 1110 aveva iniziato a espander- si al di fuori della sua (ampia) diocesi, distruggendo Lodi e impadronendosi politicamente di quasi tutto il suo territorio17. A Piacenza e Pavia i cives risul-

tano del resto già in quegli stessi anni in grado di scortare regolarmente con contingenti di milites, in caso di guerra, i battelli fluviali lungo tutto il tratto del Po all’interno delle rispettive diocesi, in modo da garantire la continuità dei transiti commerciali18. Negli stessi anni Como, dopo avere consolidato la

sua presa sull’area più vicina alla città, sottomettendo centri come Mendri- sio e Civenna, situati a più di una decina di chilometri dalle sue mura, stava cercando di imporre con le armi il suo diretto controllo sulle comunità rurali autonome e le signorie attive nel nord della sua diocesi, come attestato dalla guerra con Isola Comacina, sita a quasi una trentina di chilometri dalla città19.

Sempre negli anni Dieci Firenze era già stata impegnata in un conflitto di sca- la regionale come la “guerra di Prato”, e nel 1119 distrusse il vecchio castello cadolingio di Montecascioli, situato a una decina di chilometri dalla città e difeso dal marchese imperiale di Tuscia Rabodo, ucciso nello scontro,. Tra il 1104 e il 1106 Pisa e Lucca si contesero con le armi il controllo del castello di Ripafratta, collocato a una decina di chilometri dalle due città20. Pochi anni

più tardi la comunità pisana estendeva la sua presa fino a Piombino, mentre Genova, dopo avere posto sotto il suo pieno controllo l’area più vicina alla cit- tà, fondava un insediamento militare nella lontana Portovenere e conquistava alcuni castelli appenninici, per assicurarsi il controllo dei percorsi stradali che la univano alla pianura piemontese e lombarda.

Da questa rapida carrellata appare evidente che i centri più precoci, in grado di proiettare rapidamente il proprio potere a distanza anche di diverse decine di chilometri dalle mura urbane furono quelli situati nel cuore della Pianura padana o nelle immediate adiacenze, come Milano, Pavia, Brescia, Piacenza e Como (anche se non tutti, e comunque con significative differenze) e i due grandi centri portuali di Pisa e Genova. Gli altri protocomuni, come Lucca, Firenze o Asti, appaiono infatti nello stesso periodo, impegnati in un ambito territoriale decisamente più circoscritto, anche per la presenza di com- petitori locali particolarmente forti, come i Monferrato e i del Vasto per Asti, o i Guidi per Firenze, ma anche per l’interferenza suscitata dall’intervento di Enrico V, in particolare dopo il 1116, quando l’acquisizione dei beni matildici fornì al governo imperiale una fitta rete di castelli in gran parte dell’Italia

17 Landolfo di San Paolo, Historia mediolanensis, p. 37.

18 Documenti degli archivi di Pavia, docc. 45-58 (a. 1184), pp. 72-193.

19 Gli atti del comune di Milano, doc. 73 (a. 1170), pp. 103-107; su altri centri (tra cui Mandello, Lierna e Civenna) direttamente controllati da Como e poi passati a Milano negli anni Venti si veda Gli atti del comune di Milano, doc. 74 (a. 1170), pp. 108-111.

padana. Non bisogna inoltre dimenticare che proprio l’ultimo Salico, pur rico- noscendo molte comunità urbane come soggetti politici autonomi, intervenne militarmente in modo durissimo contro i cives di Arezzo e Novara, colpevoli di avere cercato di privare i vescovi filo-imperiali delle loro tradizionali pre- rogative politiche21.

Fu comunque il fallimento del progetto di governo di Enrico V, in evidente difficoltà già nel 1120, e definitivo dopo il 1125, ad aprire definitivamente la strada all’espansione dei protocomuni nel contado. Se nel 1115 Bologna appa- riva ancora intenta ad affermare, anche con la forza, la sua stessa autonomia, distruggendo la rocca urbana imperiale, solo otto anni più tardi era in grado di sottomettere tre castelli appenninici, situati a una trentina di chilometri dalla città e nel 1131 sottometteva la lontana Nonantola22. Nel 1118 i Cremo-

nesi avevano preso il controllo di Soncino, a oltre venti chilometri a nord di Cremona, trasformandola nel loro avamposto militare locale contro Crema e i suoi conti23. Nel 1120 i Bresciani misero sotto il loro diretto controllo il castel-

lo di Orzivecchi, collocato a circa quindici chilometri dalla città, mentre l’an- no successivo distruggevano il castello imperiale di San Martino di Gavardo, presidiato da truppe tedesche, posto a una ventina di chilometri da Brescia24.

Alla fine degli anni Venti Pavia aveva ormai stretto la sua presa su gran parte della sua diocesi, mentre a Piacenza praticamente tutta la zona di pianura ri- conosceva l’egemonia del governo urbano, che era in grado di intervenire mili- tarmente anche nel territorio di Parma25. Spicca anche in questo caso Milano,

che controllava oltre alla sua diocesi e a gran parte di quella di Lodi, anche buona parte del territorio di Como, in seguito alla distruzione della città nel 1127; centri rurali come Mandello e Civenna, situati a una sessantina di chilo- metri a nord della città, sulle rive del Lario, erano ormai sotto il diretto con- trollo dei consoli ambrosiani26. A partire dagli anni Venti del XII secolo Ferra-

ra riesce con buon successo a esercitare diritti su Ostiglia, un centro signorile dipendente da un ente ecclesiastico veronese, situato a oltre 40 km dalla città; inviava periodicamente suoi ufficiali per riscuotere il fodrum, tasse sui mulini e (almeno parzialmente) il teloneum, particolarmente redditizio in un centro situato lungo una via fluviale di primaria importanza27. Anche una comunità 21 Delumeau, Arezzo, pp. 1005-1010 e si veda Ekkeardo, Chronicon, p. 244. Le ragioni della di- struzione di Novara (a. 1110) sono meno esplicite, ma sono quasi certamente legate alle tensioni tra i cives e il vescovo filo-imperiale, si veda Ekkeardo, Chronicon, p. 244.

22 Al 1123 risale la sottomissione diretta dei castelli appenninici di Rodiano, Sanguineto e Ga- vriglia ai consoli cittadini; si veda Savioli, Annali Bolognesi, I.2, p. 173 (a. 1123). Sulla prima fase