Ippolito Aldobrandini, divenuto pontefice nel 1592 con il nome di Clemente VIII, era nato a Fano, nelle Marche. Il padre Silvestro, giureconsulto fiorentino in esilio, ricoprì la carica di sostituto del vice legato di Fano e lavorò presso la corte di Ferrara e di Urbino fino alla nomina ad avvocato concistoriale a Roma nel 1548, ottenuta grazie alla protezione del cardinale Alessandro Farnese. Il futuro vescovo di Roma
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frequentò le università di Padova, Bologna e Perugia e studiò legge, pare sempre grazie all’aiuto del cardinale Farnese, data la situazione finanziaria dissestata degli Aldobrandini. Ippolito iniziò la sua carriera ecclesiastica durante il pontificato di Pio V come auditore del camerlengo nel 1568, l’anno seguente divenne auditore di Rota e nel 1571 segretario del cardinal nipote Michele Bonelli, in occasione delle ambascerie in Spagna, Portogallo e Francia. Durante il papato di Gregorio XIII l’Aldobrandini vide temporaneamente bloccata la propria ascesa; è noto soltanto che prese nel 1585 gli ordini minori e maggiori e fu molto vicino al futuro santo Filippo Neri e al suo Oratorio. Fu grazie al favore del successivo pontefice, Sisto V Peretti, che nel dicembre dello stesso anno divenne cardinale e fu per il successo ottenuto come legato “a latere” in Polonia nel 1588 che si collocò tra i cardinali più in vista e favoriti al soglio pontificio128. Dopo due anni dalla morte di Sisto V e i tre brevi pontificati di Urbano VII, Gregorio XIV e Innocenzo IX, a lui preferiti dalla fazione filospagnola perché sospettato di essere vicino ai Medici (come, infatti, una volta raggiunto il governo della Santa Sede, svelò essere), fu nominato papa.
Ippolito Aldobrandini non proveniva, dunque, da una delle nobili e antiche famiglie del baronaggio romano, dimostrava un sincero spirito religioso e di essere un degno figlio della Controriforma, pertanto, prometteva un nuovo tempo per la cristianità, per il governo dello Stato Pontificio e per Roma. Si distinse subito come continuatore delle politiche accentratrici di Sisto V, anche per far fronte ai dissesti finanziari creatisi con il tempo nello Stato Pontificio. A tal proposito, fu emessa la bolla Pro
commissa nobis il 15 agosto 1592, con la quale “veniva riordinata l’organizzazione
comunale e venivano disciplinati i suoi rapporti con gli organi centrali”129
e fu creata la Congregazione del Buon Governo. Sempre in vista di tale obiettivo, Clemente VIII regolò i rapporti con il ceto nobiliare e fu deciso nel voler “sottrarre alla feudalità il monopolio della violenza, controllare e reprimere comportamenti ora avvertiti più decisamente come devianti e criminosi”130. Costituì anche la Congregazione dei Baroni nel 1595, alla quale quattro anni dopo ampliò ulteriormente i poteri. Questa aveva il compito di “curare l’esecuzione delle sentenze pronunciate contro i baroni
128
A. Borromeo, Clemente VIII, in Enciclopedia dei Papi, Roma, Treccani, 2000; per approfondire L. Von Pastor, Storia dei Papi dalla fine del Medio Evo, XI, Roma, 1929.
129 Ibid., p. 260.
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morosi, anche mediante la vendita all’incanto dei loro beni e senza tenere conto di eventuali vincoli di fidecommesso”131
. Il papa Aldobrandini, inoltre, fu in prima linea contro il brigantaggio, che si era diffuso in modo a dir poco capillare nello Stato Pontifico, forte dell’appoggio di alcuni nobili feudatari e signori locali, che spesso utilizzavano tali bande per spadroneggiare nei loro territori e per arricchirsi con ruberie e assalti132. Per tale missione nel 1593 ingaggiò due famosi capitani delle guerre di Fiandra, Celso Celsi e Flaminio Delfini. Nel corso del 1600 sembra che il fenomeno del brigantaggio fosse in regressione, costituendo per il papato un primo successo in vista dell’accentramento e rafforzamento del proprio potere sul territorio e sui diversi ceti. Clemente VIII da ex auditore di Rota e figlio di un giureconsulto non dimenticò neppure di occuparsi delle istituzioni giudiziarie, consapevole di quanto la loro efficienza fosse cruciale per il raggiungimento dei suoi scopi, che comprendevano anche la moralizzazione della società romana, l’esempio per tutta la cristianità. Pertanto, al “più consistente perseguimento dei reati” combinò “una politica di rigore delle pene, nella quale rientrò l’adozione delle decisioni esemplari di cui i nobili romani furono le più famose vittime”133
.
In un periodo di cambiamenti e di transizione simile gli stessi rapporti familiari di ceto alto erano mutati, perdendo il senso solidaristico di inizio secolo. Infatti, “l’incertezza delle alleanze, la riduzione dello spazio economico, l’esclusione dalle risorse, la difficoltà di sostenere le esigenze e gli impegni finanziari legati alla trasmissione della proprietà o alla penuria di denaro liquido … l’accresciuta mobilità sociale, i rischi della perdita di status”134, la conclusione delle guerre di Fiandra e la morte di Alessandro Farnese avevano prodotto nei nobili romani incertezza e paura per il futuro. Quindi, era aumentata drasticamente la conflittualità all’interno delle stesse famiglie, le quali da porto sicuro e fonte di prestigio si erano tramutate in un microcosmo, in cui la sopravvivenza del proprio onore e della propria rendita erano continuamente in pericolo a causa delle stesse pretese degli amorevoli parenti.
131
Borromeo, Clemente VIII cit., p. 260.
132 Tra le famiglie nobiliari processate per reati connessi al banditismo vi furono quella dei Savelli
(Troilo, Orazio e Girolamo), dei Conti (Orazio, Camillo, duca di Carpineto, Annibale e Camillo) e dei Caetani (Scipione e Antonio), cfr. S. Feci, Violenza nobiliare nella Roma di Clemente VIII, in Di Sivo (a cura di), I Cenci cit.; I. Fosi, La giustizia del papa. Sudditi e tribunali nello Stato pontificio in età
moderna, Roma, Laterza, 2007; Di Sivo, Calzolari, Grantaliano, Giustizia e criminalità cit.
133 Feci, Violenza nobiliare cit., p. 335. 134 Ibid., p. 324.
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Il momento non era per nulla facile neppure per i militi di ritorno dalle guerre, i quali, abituati ad essere il punto fermo delle loro casate per il conseguimento di cariche e notorietà nella Curia pontificia, dovettero prendere coscienza del “capovolgimento della relazione”, per cui “ormai solo la corte romana era il centro dispensatore di uffici e onori”135, una situazione favorevole soprattutto per i membri delle famiglie papali. Resistere, però, non era impossibile, la chiave stava nel “modificare atteggiamenti desueti e pericolosi, diversificare le alleanze, recepire ed elaborare nuove strategie - non ultima un maggior senso della famiglia - per prendere parte o continuare a partecipare alle risorse economiche e a quelle del prestigio”136
, come alcuni nobili compresero sagacemente. Chi invece non ci riuscì è tristemente noto, come la famiglia Cenci.
Clemente VIII non fu certo un oppressore del ceto nobiliare. Egli, infatti, non riuscendo a concepire una legittimazione del proprio potere diversa da quella effettuata dalla vecchia feudalità, aveva estremo bisogno del loro appoggio. Pertanto, contro gli “eccessi” perpetuati dai feudatari nei confronti dei vassalli o contro il banditismo “nobiliare” e i loro plurima scelera, Ippolito Aldobrandini non riuscì a mantenere una linea dura e coerente, ma fu a più riprese macchiata da “incertezze del procedere”, da “troppo frequenti battute di arresto di fronte” ai crimini degli aristocratici, da “contraddittorie procedure” e “ineguali sentenze”137
. Di questa debolezza i Cenci avrebbero dovuto approfittare, se non fossero stati così ancorati alle vecchie logiche di potere e alle loro ridotte e poco coltivate relazioni sociali da non accorgersi dei tempi in mutazione e da pensare di poter far assassinare uno dei testimoni chiave e presunto sicario dell’omicidio di Francesco Cenci, Olimpio Calvetti, impunemente e senza fare alcun affronto al sovrano pontefice. Un errore di valutazione talmente grave da aver contribuito in modo rilevante, molto probabilmente, a determinare l’esito processuale.
135 Feci, Violenza nobiliare cit., p. 333. 136 Ibid., p. 337.
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