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Alberto Piccinini 

Faccio parte di coloro che non sanno e non vogliono sa- pere cosa accade dietro le quinte di una camera di consiglio prima che venga emessa una sentenza: penso quindi che di- vulgarlo sia sconveniente, lo considero quasi un oltraggio alla «sacralità» della funzione giurisprudenziale.

Per questo motivo non mi ha fatto piacere leggere le estrinsecazioni di Pietro Ichino nell’imminenza del comuni- cato sulla sentenza della Corte costituzionale, secondo le quali la decisione sarebbe stata presa con un solo voto di maggioranza e un membro (viene sottolineato: giuslavorista) in missione.

Posso però comprenderne il disappunto, e quello dei tanti che si sono visti scardinare il d.lgs. n. 23 proprio nel suo nu- cleo essenziale: una rigida predeterminazione dell’indennità dovuta al lavoratore licenziato illegittimamente in base alla (sola) anzianità di servizio, allo scopo di garantire al datore di lavoro una precisa conoscenza dei costi del programmato illecito.

È evidente che, per ragioni uguali e contrarie, esprimo grande apprezzamento per questa decisione che rimette in gioco non tanto e non solo il ruolo del giudice e dell’avvocato, ma soprattutto la possibilità per chi ha subito un atto illegit- timo di far valere in giudizio i propri diritti con prospettive

ben diverse da prima.

Detto questo, devo riconoscere che la motivazione lascia trapelare che vi siano state delle posizioni divergenti, e sem- bra quasi che tutta la prima parte della sentenza sia destinata «ad accontentare» queste ultime.

La premessa è necessaria per giustificare il fatto che, pur molto apprezzando – come detto – la sentenza, intendevo dedicare il mio intervento alla prima delle questioni sollevate dal Tribunale di Roma (sulla quale tanti prima di me si sono già soffermati a riflettere e commentare), relativa alla denun- ciata violazione del principio di uguaglianza, per l’attribu- zione ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 di una tutela ingiustificatamente deteriore rispetto a quelli assunti, anche nella stessa azienda, prima di tale data.

La Corte dichiara la questione non fondata, ritenendo la riduzione delle tutele adottata dal legislatore una misura in- sindacabile in quanto coerente con la finalità di incentivare l’instaurazione di nuovi rapporti di lavoro a tempo indeter- minato.

Molti interventi che hanno preceduto il mio hanno auto- revolmente criticato nel merito questo punto della decisione.

Pallante ha evidenziato che a venire in rilievo non è il mo- mento in cui le persone vengono licenziate ma la data della loro assunzione, con la conseguenza che al momento del re- cesso vengono differenziate posizioni che sono identiche sotto molteplici aspetti: si pone quindi un problema di ugua- glianza sul piano sincronico, al quale la Corte risponde sul piano diacronico, cioè attraverso il tempo. Ma il giudice che aveva sollevato la questione di costituzionalità non aveva po- sto il tema della successione nel tempo di diverse discipline legislative, bensì evidenziato che vi era coesistenza nel mede- simo tempo di posizioni differenziate. E la Corte non ha dato risposta.

Andreoni parla di un «passaggio davvero brutto» e del «se- gno del compromesso realizzato in camera di consiglio» e si

sofferma sullo scopo – della legge – di favorire nuove assun- zioni a tempo indeterminato: contesta che si sia effettiva- mente conseguito tale risultato e critica il passaggio in cui la Corte dichiara non competerle tale verifica, affermando, al contrario, che essa ha il dovere di farlo, in presenza di una compressione del diritto costituzionale alla stabilità del posto di lavoro coincidente con un’amplificazione della libertà di licenziare.

Speziale, riprendendo il medesimo argomento, ribadisce l’esigenza che due normative non siano contemporanea- mente presenti e che quindi non si sovrappongano, anche lui ritenendo che la Corte avrebbe dovuto verificare se lo scopo (incremento dell’occupazione) fosse stato effettivamente raggiunto.

Ponterio evidenzia la confusione creata dalla legge delega che ipotizza una difformità di trattamento con riferimento a un contratto a tutele crescenti, sottolineando che non si trat- ta di un contratto diverso da un contratto di lavoro subordi- nato a tempo indeterminato: nessuna giustificazione trova quindi la violazione del principio di uguaglianza tra assunti con lo stesso tipo di contratto prima e dopo una certa data. Anche Barbieri, come Andreoni, contesta il senso e la ve- rità empirica della correlazione tra scopo (maggiori opportu- nità di assunzione) e mezzo (caduta delle tutele), definendoli frutto della fantasia del legislatore, e pertanto ritiene che la Corte avrebbe dovuto indagare questa questione con una va- lutazione di idoneità in astratto ex ante.

Nessuno, però, fino all’intervento di Esposito che ha pre- ceduto il mio, si era soffermato su una contraddizione (da lui definita freudiana) che intendo appunto mettere a mia volta a fuoco.

È utile leggere con attenzione questo passaggio della mo- tivazione della sentenza: «Poiché l’introduzione di tutele certe e più attenuate in caso di licenziamento illegittimo è diretta a incentivare le assunzioni a tempo indeterminato, ap- pare coerente il limitare l’applicazione delle stesse tutele ai

soli lavoratori assunti a decorrere dalla loro entrata in vigore, quelli, cioè, la cui assunzione avrebbe potuto essere da esse favorita».

Se fino a p. 28 della sentenza le citate tutele potevano con- siderarsi certe e attenuate, a partire dalle pagine successive è la stessa Corte a non renderle più né certe né troppo atte- nuate: per citare Lassandari, dopo l’intervento della Corte l’indennizzo in caso di licenziamento illegittimo è non pre- vedibile (e quindi incerto) e non modestissimo (e quindi meno attenuato).

Infatti il combinato disposto del cd. decreto Dignità, che ha aumentato l’indennizzo massimo a 36 mesi (in una pro- spettiva di sua applicazione non prima del 2033…), e dell’art. 3 primo comma del d.lgs. n. 23 nella sua versione attuale, involontariamente ha fatto sì che oggi, potenzialmente, un assunto dopo il 7 marzo 2015 potrebbe ottenere persino 36 mensilità per un licenziamento ingiustificato, anche senza avere un’anzianità di servizio di 18 anni.

Non metto in dubbio che, rispetto alla possibilità di otte- nere la reintegra nel posto di lavoro, il d.lgs. n. 23 costituiva e continua a costituire un «alleggerimento delle conseguenze del licenziamento illegittimo».

Non può però negarsi che, al netto della reintegrazione, l’indennità massima ottenibile con il Jobs Act è superiore (di un terzo) a quello che potrebbe ottenere un dipendente al quale si applichi l’articolo 18 nelle «altre ipotesi» (rispetto alla reintegra), e persino all’importo che percepirebbe chi, aven- do ottenuto un’ordinanza di reintegrazione, ad esempio do- po 5 mesi dal licenziamento, optasse per l’indennità sostitu- tiva di 15 mensilità: 36 mensilità rispetto a 20.

Ma questo cosa significa? Significa che viene clamorosa- mente contraddetto un passaggio fondamentale della moti- vazione: quello fondato sulla legittimazione dell’introdu- zione, da parte del legislatore, «di tutele certe e più attenuate» finalizzate «a rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo

del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupa- zione» (alinea dell’art. 1, comma 7, della legge delega n. 183/2018).

La dichiarazione di incostituzionalità smentisce che tali fi- nalità – anche ammesso, e certo non concesso, che si siano effettivamente realizzate – potessero essere perseguite con quelle modalità, e fa venir conseguentemente meno i presup- posti su cui si è ritenuto infondato il primo motivo. Mina, quindi, la ragionevolezza della motivazione con cui la Corte dichiara non fondata la questione di costituzionalità relativa alla violazione del principio di uguaglianza per gli assunti dopo il 7 marzo 2015.

Altrimenti ragionando e rovesciando il punto di vista della Corte (basato, si ripete, su erronei presupposti di fatto), si dovrebbe paradossalmente dedurre che il nuovo apparato sanzionatorio appena creato dalla Corte stessa indebolisca le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro degli inoccu- pati. Ma se non è vera – come non può essere vera – una simile affermazione, deve dedursi che la decisione della Con- sulta, in questo specifico passaggio, mostra una incoerenza che desta sconcerto.