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Nel concordare largamente con quanto è stato detto in precedenza, vorrei solo aggiungere alcune precisazioni su ta- luni aspetti.

Quello che ci proponeva Giovanni Orlandini io lo chiamai, nel libro sui licenziamenti che scrissi cinque anni fa con il collega Domenico Dalfino, preferenza ordinamentale per la tutela in forma specifica.

Naturalmente, vi è un problema delle forme in cui tale op- zione potrebbe prendere corpo, e certamente vi è un lato che in questa sede vorrei definire di battaglia culturale. La giuri- sprudenza costituzionale sulla reintegrazione non è perfetta- mente costante nel corso dei decenni: se è vero che ha sem- pre affermato la discrezionalità legislativa in materia di scelta del regime sanzionatorio nei confronti dei licenziamenti ille- gittimi, è vero pure che se si scava nelle motivazioni delle sentenze si trova una qualche oscillazione che trova il punto più lontano dalla tesi di cui sto parlando nella sentenza n. 46/2000 sull’ammissibilità del referendum abrogativo del- l’art. 18.

Appartiene alle scelte politiche della CGIL, e dunque non la conosco, la ragione per la quale non sia stato, o non sia stato ancora, riproposto il quesito referendario adeguandolo alle pur discutibili – e persino erronee – motivazioni fornite dalla

Corte costituzionale nella sentenza n. 26/2017 con cui ha di- chiarato inammissibile il quesito come era stato proposto.

Quel che però possono fare i giuristi, in questa fase, è ria- prire su questo una discussione culturale, che ha robustissimi riferimenti e precedenti nella giurisprudenza delle Sezioni Unite di un tempo precedente e assai migliore rispetto a que- sto: e mi riferisco alla sentenza n. 141/2006.

Il secondo lato dell’iniziativa che occorre assumere invece è costituito dalle questioni che sono ancora aperte e che per- ciò verranno in discussione in sede giurisdizionale.

Inviterei qui alla cautela, non perché la sentenza n. 194/2018 non sia un successo per le ragioni che sono state illustrate in precedenza da tutti coloro che ne hanno parlato, ma perché sappiamo che l’ordinanza di rimessione era a mio giudizio assai difettosa, e che ovviamente ha legato la Corte; e dunque qual- che osservazione integrativa sulla sentenza mi pare debba es- sere qui proposta, in particolare sui lati più controvertibili della sentenza stessa.

Innanzitutto la questione del principio di uguaglianza, di cui discutemmo in questa stessa sede subito dopo il Jobs Act. Già allora espressi una certa cautela, e in effetti la sentenza ha fornito una risposta che può discendere da prudenza, dalla sua discussione interna o da altro. Tuttavia, proprio dal puto di vista culturale occorre affrontare l’argomento con cui è stata giustificata la differenziazione tra vecchi e nuovi assunti.

La relatrice lo ha fatto in punta di penna, affermando che «appare coerente limitare l’applicazione delle stesse tutele [quelle previste dal d.lgs. n. 23/2015] ai soli lavoratori assunti a decorrere dalla loro entrata in vigore, quelli, cioè, la cui as- sunzione avrebbe potuto [corsivo mio] essere da esse favorita», e poi, come è stato già ricordato, che «non spetta a questa Corte addentrarsi in valutazioni sui risultati che la politica occupa- zionale perseguita dal legislatore può aver conseguito».

Orbene, non si può chiedere alla Corte di arbitrare i con- flitti politici o sindacali che esistono nel paese. Tuttavia, il

presupposto della autodichiarata finalità legislativa era la teo- ria che la caduta delle tutele avrebbe determinato maggiori opportunità di assunzione. Ma questa è una teoria ormai del tutto minoritaria, smentita persino nei documenti di istitu- zioni quali l’OCSE o il FMI. Non credo che sia utile assu- mere un atteggiamento alla Ichino, per cui la teoria econo- mica – tra le molte esistenti e in conflitto – che preferisce ciascuno di noi giuristi sia adoperata come se fosse la incon- testabile verità scientifica; ma io direi questo: la Corte ha svolto un argomento che è apprezzabile dal punto di vista della valutazione della coerenza interna. Insomma, il legisla- tore, dichiaratamente credendo che la diminuzione delle tu- tele contro il licenziamento illegittimo aumenti le assunzioni, ha disposto le previsioni del Jobs Act, del quale non si può negare la coerenza dei mezzi rispetto allo scopo indicato.

Ma – e questa è una questione soprattutto per i colleghi

costituzionalisti, perché travalica largamente la sentenza in questione e la materia del lavoro – se il legislatore pone una correlazione tra uno scopo e un mezzo, che venga ritenuta prevalentemente, e da parti anche molto diverse, del tutto priva di senso e di fondamento empirico, può la Corte in sede di scrutinio di ragionevolezza dell’operato del legislatore li- mitarsi a una verifica della coerenza interna rispetto a un nesso tra scopi e mezzi che sia mero frutto della fantasia del legislatore stesso? Non diventa invece necessario che la Corte ne verifichi la ragionevolezza non dell’inidoneità ex

post, perché su quello ha ragione la Corte a ricusare in sostan-

za di essere il giudice delle politiche, ma dell’idoneità in a- stratto del mezzo indicato dal legislatore a conseguire lo sco- po anch’esso indicato dal legislatore?

Avrebbe dovuto la Corte, anche perché la questione era stata posta dalla difesa della lavoratrice, indagare esattamente questa questione: poi è stata dichiarata inammissibile perché non era contenuta nella assai insoddisfacente ordinanza di ri- messione. Ma la questione resta aperta proprio sotto il profilo

costituzionalistico, mi pare: se il legislatore istituisce un rap- porto tra scopi e mezzi del tutto folle, può la Corte in sede di giudizio di ragionevolezza rifiutare di giudicare ex ante e in astratto la congruità di questa correlazione? Io credo di no.

Poi ci sono un’altra serie di questioni rilevanti. Con tutto il rispetto per la Corte e l’affetto personale per la giudice re- dattrice, direi che la sentenza in un passaggio è stata disin- volta, perché l’ordinanza di rimessione, con tutti i suoi difetti, censurava chiaramente il limite massimo dell’indennità, men- tre la Corte prima ha dichiarato che il cuore della questione fosse il meccanismo di calcolo e poi ha dichiarato legittimo il limite massimo.

A me quest’ultimo pare un punto di discussione che va tenuto aperto: bisogna pensare alla polifunzionalità della re- sponsabilità civile, senza enfatizzare eccessivamente il pro- filo risarcitorio, che potrebbe provocare degli effetti davvero curiosi, di riduzione della misura della tutela; si discute, come sappiamo, se sia una sentenza puramente ablativa o se, sia pure nascostamente alla motivazione, si tratti in realtà di una sentenza additiva, perché, come ha sostenuto Maria Teresa Carinci, contiene i criteri: e per questo e i problemi connessi rinvio alla relazione di Amos Andreoni.

Il punto è che non esiste, non può esistere, una tutela in- dennitaria che sia dissuasiva nei confronti delle grandi azien- de. Se noi valorizziamo esclusivamente la natura risarcitoria dell’indennità rispetto a quella sanzionatoria, ci disarmiamo, secondo me, rispetto alla questione di criticare il limite mas- simo che è una misura di «socialismo all’interno della sola classe datoriale», giacché consente il fatto che le imprese mi- nori siano effettivamente dissuase dai licenziamenti illegit- timi, specie dopo l’incremento del limite massimo contenuto nel cd. decreto Dignità, permettendo invece alle imprese maggiori di licenziare illegittimamente in maniera di fatto li- bera nell’area della tutela indennitaria.

Perciò eviterei di insistere sul profilo puramente risarcito- rio dell’indennità, anche perché alcuni dei criteri richiamati

nella sentenza della Corte palesemente non hanno nulla a che fare con il risarcimento: per esempio le dimensioni eco- nomiche dell’azienda, che invece ha a che fare con il profilo sanzionatorio.

E dunque, occorre tenere ben ferma la polifunzionalità della responsabilità civile, e si potrebbe forse anche immagi- nare un’altra causa pilota nella quale si faccia valere la non dissuasività nei confronti delle imprese maggiori delle san- zioni attualmente previste, compreso il limite massimo a trentasei mensilità.

Poi c’è un’altra questione aperta, che è quella del licenzia- mento disciplinare, che non può restare così; c’è la questione del licenziamento collettivo, dove forse meriterebbe atten- zione la questione della sussistenza o meno della delega ri- spetto all’art. 10 del d.lgs. n. 23/2015.

Un punto di dissenso con affermazioni che ho ascoltato qui riguarda invece il fatto che la coerenza avrebbe dovuto portare la Corte a dichiarare l’incostituzionalità anche della norma di delega, la quale, come sappiamo, contiene esatta-

mente l’automatismo del maccanismo di calcolo dell’indennità.

Per cui, paradossalmente, oggi abbiamo una normativa di ri- sulta, dopo la sentenza n. 194/2018, nel d.lgs. n. 23/2015 che è incostituzionale perché in violazione della delega che pre- vedeva un meccanismo automatico: il che è assurdo.

Poi c’è un altro profilo di violazione del principio di ugua- glianza – non parlo qui per mancanza di tempo degli effetti della sentenza sugli artt. 4, 6 e 9, che pure offrirebbero ma- teria di riflessione – che consiste nel fatto che la tutela inden- nitaria nel campo di applicazione dell’art. 18 post legge n. 92/2012 è minore di quella vigente nel campo di applicazione del d.lgs. n. 23/2015: il che dipende evidentemente dal carat- tere affrettato dell’intervento di aumento contenuto nel cd. decreto Dignità, e non mi pare sanabile con la considera- zione che nella prima sono maggiori i casi di reintegrazione, giacché evidentemente occorre comparare casi analoghi, per i quali in entrambi sia prevista la tutela indennitaria.

Il sistema sanzionatorio contro i licenziamenti illegittimi, complessivamente inteso, dunque, è oggi privo di senso e di ordine: il che ci riporta al discorso sulla sua necessaria coe- renza (qui anche solo interna) e di nuovo alle violazioni del principio di uguaglianza.