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ONTOLOGIA DELL

ANIMA E ASCETICA DELL

ESISTENZA

Se per la nostra ricerca volessimo evocare una scena originaria – il punto d’avvio della riflessione sulla cura del sé e sulla cura dell’anima – non potremmo limitarci ad un’unica sorgente. Seguendo le indicazioni di Foucault, dovremmo esplorare la ricchezza del repertorio platonico per trovare i due dialoghi che si offrono come le matrici delle due possibili declinazioni del tema dell’epimeleia: epimeleia tes psyches come ontologia dell’anima e

epimeleia seautou come ascetica ed estetica dell’esistenza.

I due dialoghi in questione sono l’Alcibiade e il Lachete. È Foucault, come si diceva, a segnalare questo sdoppiamento della scena inaugurale: egli crede che sia possibile rinvenire già nello sviluppo dei due testi platonici la differenza d’accento che caratterizzerà il suo stile di ricerca, articolato attorno al problema della costituzione di sé, in rapporto a quello di Patočka fondato, a suo modo di vedere, sul primato ontologico e gnoseologico dell’anima29.

La valutazione di Foucault merita senz’altro di essere problematizzata e di questo ci occuperemo nelle pagine a venire. E’ indubbio, tuttavia, che Patočka concentri la sua attenzione sull’Alcibiade e non menzioni mai il Lachete, laddove invece Foucault pone quest’ultimo come motivo germinale della sua indagine sull’epimeleia.

Bisogna osservare, tuttavia, che Foucault arriva ad occuparsi del Lachete solo nel suo ultimo corso al Collège de France, mentre nelle fasi precedenti della sua riflessione aveva preso in considerazione altri testi30. Potremmo dire, pertanto, che è solo in una luce

29 Mariapaola Fimiani, commentando questo passaggio foucaultiano, scrive: “due grandi profili della filosofia occidentale sono decifrabili negli esempi platonici dell’Alcibiade e del Lachete: per il primo la cura, l’epimeleia heautou, è conoscenza dell’essere dell’anima e avvia la ‘metafisica del sé’, per il secondo è ‘arte del vivere’, produzione costante della propria vita come opera d’arte, e si fa ‘stilistica dell’esistenza’” (M. Fimiani, Foucault e Kant. Critica, clinica, etica, La città del sole, Napoli 1997, p. 83).

30 Per quel che riguarda il repertorio platonico, l’attenzione di Foucault si era rivolta, in particolare, all’Alcibiade e alle Lettere, che, come vedremo, costituiranno per il filosofo un punto di riferimento importante per illuminare in modo originale il rapporto tra politica e filosofia. Più in generale, nella sua disamina del mondo antico, Foucault prende in esame uno spettro di testi molto ampio, che va dalle

retrospettiva che Foucault pone il Lachete all’origine del suo percorso: luce retrospettiva che, come vedremo, non illumina solo la questione antica dell’epimeleia, ma il modo stesso di interpretare i decorsi, le divaricazioni e le discontinuità della storia della filosofia occidentale.

Dialogando con Socrate

Credo sia opportuno avviare questa ricerca ripercorrendo a grandi linee lo sviluppo dei due testi platonici che, malgrado l’inevitabile arbitrarietà che caratterizza ogni scelta dell’origine, si possono porre come scene inaugurali del pensiero filosofico della cura.

Prendersi cura della propria anima

L’Alcibiade è un dialogo a due tra Socrate e il giovane Alcibiade, il quale ambisce ad entrare in politica per diventare l’uomo di spicco della democrazia ateniese. Socrate, innamorato di Alcibiade31, intende dimostrare l’inadeguatezza della sua educazione in vista del potere politico: Alcibiade, sottoposto al domandare socratico, mostra di non sapere cosa sia il giusto e cosa sia il bene per la città. Il dialogo si articola dunque attorno a due parole chiave della nostra ricerca, ossia il governo politico degli altri e la formazione di sé.

Socrate, nel mostrare ad Alcibiade che egli ignora l’oggetto del buon governo, lo sprona a

prendersi cura di sé: vediamo come il tema della cura emerga in rapporto all’azione politica,

giacché per governare gli altri bisogna imparare a riflettere su di sé, a conoscere i propri limiti, a controllare le proprie debolezze.

Messo alle strette dal domandare socratico, Alcibiade riconosce di non avere la giusta preparazione e accetta di buon grado che Socrate gli insegni a prendersi cura di sé. Ecco che emerge il passaggio centrale del dialogo: il primo passo per aver cura di sé, spiega Socrate, è far proprio il precetto delfico e imparare così a “conoscere se stessi”.

L’indagine si sposta allora sulla questione del sé: si tratta di capire quale sia la vera essenza dell’uomo e quale debba essere, pertanto, il vero oggetto dell’epimeleia. Attraverso una serie di

tragedie di Euripide ai testi stoici di Seneca e Marco Aurelio, dagli scritti di medicina di Galeno agli scritti di Epitteto.

31 Sottolineo questo aspetto perché la questione del rapporto d’amore tra un uomo adulto e un ragazzo è oggetto di riflessione da parte di Foucault soprattutto nelle pagine finali de L’uso dei piaceri, dove la questione dell’erotica sarà messa in relazione al vero amore, ossia all’amore per la verità, tema centrale nella dottrina platonica.

domande, Socrate giunge ad affermare che l’uomo è colui che si serve del corpo, come il calzolaio delle forbici e il suonatore di cetra della cetra. E dal momento che il corpo non può comandare se stesso, cos’è che comanda il corpo se non l’anima? L’anima, conclude Socrate, è il “se stesso” dell’uomo, mentre il corpo non è che il suo strumento esteriore. Vediamo dunque definirsi una delle questioni cardine del dialogo: il sé coincide con l’anima e prendersi cura di sé significa prendersi cura della propria anima.

Nelle ultime battute del dialogo, Alcibiade chiede a Socrate come si possa conoscere la propria anima così da averne cura. Socrate ricorre alla celebre metafora della vista: per comprendere il fenomeno della visione, occorre contemplare il proprio sguardo in quella parte dell’occhio altrui che realizza l’azione virtuosa del vedere; allo stesso modo, per conoscere la propria anima, occorre rivolgersi alla parte più nobile di un’anima, a quella parte dell’anima, cioè, che l’uomo condivide col divino. Per conoscere se stessi, occorre orientarsi al divino il quale esprime le virtù dell’anima al massimo grado. La conoscenza del divino si profila pertanto come condizione di possibilità della conoscenza dell’anima e dunque della cura di sé. Questo, a grandi linee, è il percorso tracciato dall’Alcibiade.

Avere cura del proprio sé

Il Lachete è un dialogo che vede coinvolte cinque persone: Lisimaco e Melisia, due uomini ateniesi che, interrogandosi sull’educazione da impartire ai propri figli, chiedono consiglio a Nicia e a Lachete, due valorosi comandanti che, a loro volta, chiederanno l’intervento di Socrate. Il tema è l’educazione dei ragazzi: Lisimaco e Melisia dichiarano di volersi prendere cura della formazione dei figli e, mentre assistono all’esibizione di un combattimento in armi, chiedono a Nicia e a Lachete se questa possa essere una buona disciplina da insegnare ai figli. Trovandosi in disaccordo, Nicia e Lachete chiedono a Socrate di esprimere la sua opinione e di dirimere il diverbio. Come di consueto, Socrate mostra che il problema è stato mal posto: per un problema delicato come l’educazione dei giovani non ci si può affidare al parere della maggioranza. Quindi non si tratta di fare un bilancio dei favorevoli e dei contrari ma di capire chi può dirsi competente in materia di educazione. Serve dunque un maestro, ma di cosa? Secondo Socrate, ci si sta occupando dell'arte della lotta solo in virtù del bene che essa procura all'animo dei giovani, pertanto la discussione dovrebbe vertere su ciò che effettivamente migliora l'anima. Un buon maestro sarà dunque colui che avrà saputo migliorare l’anima del suo discepolo e che può vantare, a sua volta, dei buoni maestri. Socrate dichiara di non aver

avuto maestri e di non conoscere l’arte della cura dell’anima. Su invito di Socrate, Nicia e Lachete passano in rassegna la propria formazione e finiscono per ammettere di non aver mai imparato a prendersi cura di se stessi. Ecco che la discussione passa dal problema dell’educazione dei giovani alla cura che ciascuno rivolge a se stesso per tutto il corso della propria vita. A questo punto si tratta di capire cosa apporterebbe giovamento all’anima e la risposta è semplice: la virtù. Socrate invita i suoi interlocutori a chiedersi se davvero sappiano cosa sia la virtù ma poiché la definizione della virtù in generale sarebbe un compito troppo gravoso, Socrate limita l’indagine al coraggio. Nicia e Lachete confrontano le loro opinioni che ben presto vengono messe in crisi dal domandare socratico. Pur rivelando l’inadeguatezza delle posizioni di Nicia e Lachete, Socrate non arriva a formulare una definizione positiva del coraggio. Il dialogo ha pertanto una conclusione aporetica che costringe tutti i partecipanti a riconoscere la loro impreparazione e ad ammettere di aver bisogno di qualcuno che insegni loro a curarsi della propria vita. Se Lisimaco e Melisia sono alla ricerca di un maestro per i loro figli, Socrate si rivela la persona più adatta perché conscio dei propri limiti e consapevole che anche in età avanzata è necessario curarsi di sé e della propria educazione.

Il correlato della cura: la psyche e il bios

Seguendo la traccia delle osservazioni di Foucault, cerchiamo di mettere in luce le differenze che intercorrono tra questi due testi nell’articolazione del tema dell’epimeleia. Prima di tutto, sebbene l’interrogativo di partenza sia il medesimo – come prendersi cura dei giovani, come prepararli alla vita adulta – cambia il correlato della cura: se nell’Alcibiade esso era identificato con l’anima, con quel principio trascendente e immortale che si distingue dalla materialità del corpo, nel Lachete vediamo come la cura si rivolga all’intera esistenza del singolo, al rapporto che il sé intesse con l’intera trama della sua vita. Commentando i due testi, Foucault afferma che, nell’ambito del Lachete, l’oggetto di cui occorre occuparsi è propriamente la vita, il bios, la maniera di vivere: è lo stile di vita, la pratica dell’esistenza a costituire l’oggetto dell’epimeleia. Al contrario, nell’Alcibiade l’attenzione cade sull’anima come istanza che gode di un privilegio ontologico e gnoseologico.

Questo ci porta alla seconda differenza, ossia al fatto che l’Alcibiade stabilisca il primato della conoscenza sull’esistenza, il primato dell’auto-contemplazione sull’auto-poiesi: è dall’ingiunzione delfica alla conoscenza di sé che si irradia la pratica della cura.

Se nei testi platonici, eredi di una ricca tradizione anteriore, la nozione di epimeleia non si trova ancora del tutto sbilanciata sul versante conoscitivo, nelle rielaborazioni successive di tale concetto l’imperativo della conoscenza di sé assumerà un primato indiscusso, mentre la dimensione ascetica, pratica, esistenziale associata alla cura e alla conoscenza di sé scivolerà nell’ombra. L’Alcibiade mostra chiaramente come, a partire dal momento platonico, si cominci ad attribuire all’anima e alle sue virtù conoscitive un privilegio destinato ad obliare la cura come esercizio che coinvolge l’intera esistenza. Il Lachete è, invece, un’interessante testimonianza di questa seconda possibile modulazione dell’epimeleia: l’instaurazione del sé, non inteso più come psyche ma come bios, si rivela correlativa a un modo di conoscenza che, pur facendo riferimento al principio delfico del “conosci te stesso”, lo declina in modo completamente diverso. Non si tratta della contemplazione dell’anima che si rimira nello specchio della divinità, ma dell’esercizio, della messa alla prova della propria maniera di condurre l’esistenza. Conoscere se stessi significa guardare la propria vita, rendendo ragione delle proprie scelte, valutando le proprie azioni, dando forma al proprio stile.

Da ciò possiamo derivare il terzo elemento di differenza: se nell’Alcibiade l’incitamento a prendersi cura di sé viene rivolto ai giovani che intendono intraprendere la carriera politica, la cura a cui invita il Lachete non si rivolge solo ai giovani, ma agli uomini di tutte le età. La cura del proprio stile d’esistenza si perpetua nelle diverse tappe della propria vita, non può mai dirsi conclusa, si rinnova come pratica ininterrotta di auto-stilizzazione.

Un quarto motivo di differenza potrebbe essere rintracciato in merito alla questione della verità. Entrambi i dialoghi si misurano con il problema della verità: a quali condizioni Alcibiade può dire la verità su se stesso? A quali condizioni un uomo può dire la verità sull’educazione dei giovani? Per quanto gli interrogativi siano prossimi, essi vengono sciolti in maniera differente. Alcibiade potrà dire la verità su di sé solo dopo aver contemplato la propria anima come partecipe del divino, Socrate nel Lachete può azzardarsi a dire la verità sull’educazione dei giovani non perché possegga una certezza metafisicamente fondata, ma perché il suo logos si riflette nel suo ethos, perché i suoi atti di veridizione trovano un rispondenza nelle pratiche che egli mette in atto32. Se nell’Alcibiade la questione dell’etica della verità indaga il processo che porta alla purificazione dell’anima e la rende capace di verità, nel Lachete viene esplorato il versante della volontà, della risoluzione, del sacrificio,

dell’ostinazione e della capacità di lotta che il soggetto deve mettere in campo per poter dire la verità.

Questo spiega altre due differenze: primo, nell’Alcibiade le virtù evocate sono quelle del bene e della giustizia, mentre nel Lachete si parla del coraggio33; secondo, il Lachete ha una sorta di finale aporetico estraneo alla luminosità dell’Alcibiade: in definitiva, non si giunge a una ricetta universalmente valida per la cura di sé, laddove nell’Alcibiade il precetto del “conosci te stesso” e l’equazione tra anima e divino sembrano garantire una solida soluzione al problema.

Se queste sono le differenze che Foucault riscontra tra i due dialoghi – differenze che, come abbiamo anticipato, lo inducono a sostenere che proprio nell’Alcibiade e nel Lachete sia possibile rinvenire le matrici, non solo delle due diverse interpretazioni della nozione di cura, ma anche della natura stessa della pratica filosofica – va altresì segnalato che lo stesso Foucault, ne L’ermeneutica del soggetto34, poneva con minore perentorietà tali differenze,

dimostrandosi più interessato a cogliere quegli elementi ambivalenti e paradossali che ponevano il momento platonico all’origine di una divaricazione che andava annunciandosi ma che era ancora di là da venire.

Nel corso dell’81 Foucault si dimostra più cauto nell’interpretare la nozione di psyche: ritiene che nell’Alcibiade il concetto di anima abbia una sfumatura particolare, che rende interessante il modo in cui si specifica il rapporto tra anima, sé e cura del sé. Socrate è intento a distinguere il “nocciolo” dell’anima da ciò che le è estrinseco: ne vuole mettere in luce l’irriducibilità. Come abbiamo visto, Socrate, operando una serie di distinzioni, giunge a definire l’anima come ciò che si serve del corpo, degli organi, degli strumenti: qui, scrive Foucault, l’anima non è il cocchio alato del Fedro, o la prigioniera del corpo descritta nel

Fedone, ma è l’anima come soggetto d’azione, vale a dire un’anima che utilizza, dirige,

manovra. Foucault ci invita a prestare attenzione al verbo khrestahai attribuito all’anima, giacché esso ha due accezioni fondamentali: da una parte significa “servirsi di”, dall’altra

33 Il tema del coraggio, come vedremo, riemergerà in diversi passaggi della nostra ricerca. È significativo ricordare che l’ultimo corso di Foucault al Collège de France reca il titolo Il coraggio

della verità, laddove il filosofo, ricorrendo a questa espressione, suggerisce l’intimo nesso che lega il

coraggio alla pratica della veridizione.

34 Si tratta del corso che precede di due anni Le courage de la verité, dove fa esplicito riferimento all’opera di Patočka.

“avere una relazione con qualcosa”. La khresis35 che l’anima intrattiene col mondo è una relazione di tipo strumentale col corpo e con l’ambiente circostante, relazione che tuttavia indica anche la posizione trascendente dell’anima rispetto a ciò di cui si serve.

Da ciò Foucault ne deriva che “Platone non ha affatto scoperto l’anima-sostanza. Quel che ha scoperto è piuttosto l’anima-soggetto”36. La nozione di khresis è allora fondamentale perché consente di comprendere che la cura dell’anima non è la cura di una sostanza, ma la cura di un principio di azione che intrattiene relazioni plurali col mondo: “occuparsi di se stessi, infatti, vorrà ormai dire occuparsi di sé nella misura in cui si è ‘soggetti di’, (…) soggetti che si servono di cose, che hanno un certo atteggiamento, che hanno determinati tipi di rapporto, e così via”37.

Le stesse cautele che Foucault adotta per l’interpretazione della nozione di psyche si rinnovano anche per quel che riguarda il rapporto tra cura e conoscenza. Se è vero, infatti, che le antiche tecniche del sé vengono qui subordinate all’imperativo della conoscenza di sé, la cura di sé non cade nell’oblio (come accadrà nel “momento cartesiano” della filosofia moderna38): assistiamo, piuttosto, al compenetrarsi dei due principi39.

35 Troviamo qui quella nozione di khresis, di uso, che sarà tema fondamentale del secondo volume della Storia della sessualità, significativamente intitolato L’uso dei piaceri.

36 M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto, cit., p. 52.

37 Ibidem.

38 Foucault definisce “momento cartesiano” l’avvicendarsi tra due regimi di verità: un primo regime legato alla tradizione antica della spiritualità che si chiede in che termini il soggetto debba modificarsi per avere accesso alla verità; e un secondo che ritiene sufficiente che il soggetto ragioni in modo congruente e conseguente per arrivare al vero. L’avvicendarsi tra i due regimi modifica lo statuto stesso della verità: nel primo caso, si tratta di una verità che, una volta raggiunta, si riflette sul soggetto modificandolo; nel secondo caso, la verità diviene conoscenza di un campo di oggetti che lascia immutato il soggetto. Secondo Foucault, la filosofia moderna ha inizio quando, con Cartesio, si ritiene che sia la conoscenza, ed essa soltanto, a permettere l’accesso alla verità. Entreremo nel merito di queste tesi nella sezione dedicata a Foucault.

39 Va segnalato, tuttavia, come Foucault rintracci un paradosso nell’argomentazione platonica. Per spiegare come sia possibile conquistare la conoscenza di sé, Socrate ricorre all’immagine dello specchio: l’anima può conoscere se stessa solo volgendosi a qualcosa che abbia la sua stessa natura, così come l’occhio ha bisogno dell’altro occhio per conoscere se stesso. Ma più dell’occhio altrui è l’atto della visione che si scorge nell’altro a farci conoscere il nostro stesso occhio. Come si traduce tutto ciò per l’anima? Nel fatto che l’anima conosce se stessa solo a condizione di applicare il suo sguardo verso il pensiero e verso il sapere. E il divino sarà l’elemento che l’anima deve guardare per conoscere se stessa come principio di conoscenza e sapere. È attorno a tale questione che si articola il paradosso platonico e si comprende l’apparente incongruenza di Alcibiade quando, dopo aver ascoltato Socrate, dice che si prenderà cura della giustizia. Perché della giustizia e non di sé, si chiede Foucault? Perché il riferimento al dio ha istituito una circolarità che permettete di comprendere se stessi come quel principio che contempla il divino e la propria anima come ciò che conosce la giustizia. Occuparsi della giustizia significa allora occuparsi di se stessi e viceversa. In altri termini, si concepisce la

Ho voluto richiamare queste osservazioni di Foucault perché nel solco che esse inaugurano si offre a noi l’opportunità di mettere in discussione la categoricità della tesi espressa dal filosofo ne Le courage de la verité. Tali osservazioni, esibendo le convergenze tra la cura dell’anima così come viene a definirsi nell’Alcibiade e la cura del sé così come viene descritta nel Lachete, annunciano anche la possibilità di un dialogo proficuo tra le posizioni di Patočka e

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