La performance, la performance art, il performativo, i Performance Studies costituiscono concetti artistici e teorici non del tutto stabili, poiché spesso si riferiscono – non solo storicamente ma anche sincronicamente – alle diverse pratiche artistiche e teoriche. Questo articolo rappresenta un tentativo di chiarire, almeno in parte, la storia e la metodologia dei Performance Studies attraverso la ricerca dei diversi metodi e teorie che questi hanno adottato, e nello stesso tempo di gettare uno sguardo critico sull’istituzionalizzazione di quella che ultimamente viene definita come una post-
disciplina.1
La storia e la metodologia dei Performance Studies, che qui vengono sottintese come contemporanee, sono condizionate pragmaticamente. Da un lato occorre collocare lo sviluppo dei Performance Studies a cavallo dei due secoli nella prospettiva che s’ispira allo sviluppo di nuove e nuovissime teorie ancora difficilmente caratterizzabili; dall’altro lato si tratta del tentativo di facilitare le chiarificazioni concettuali indagando questo fenomeno della nostra epoca ancora troppo spesso di difficile comprensione, per incoraggiarne la futura discussione. Inoltre, non si può più negare che le nuove forme di performance, o di produzione performativa, abbiano segnato la nostra epoca e che, in ogni forma di teoria e di pratica, siano sempre più numerosi i teorici che cercano di approfondire questo discorso. Va poi tenuto presente che alcuni dei loro rappresentanti e dei loro fautori sono riusciti ad accreditarsi in importanti università non solo negli Stati Uniti ma anche nel resto del mondo.2
I Performance Studies, intesi nel loro significato contemporaneo, hanno inoltre subito a partire dagli anni Settanta un notevole cambiamento che, sul piano epistemologico, può essere visto come
1 L'espressione «post-disciplina» viene per la prima volta utilizzata da Joseph Roach, ma non del tutto chiarita. Cfr. Roach 1995: 46. 2 Attualmente (2016) esistono cinque dipartimenti universitari di Performance Studies ufficialmente considerati come preminenti: Department of Performance Studies, Tisch of the Arts, New York University; Northwestern University, Chicago; Centre for Performance Research (CPR), University of Wales, Aberystwyth, Wales, Gran Bretagna; The Schechner Center presso la Shanghai Theatre Academy a Shangai; Performance Studies Department all'Università di Sidney. Secondo alcune statistiche esistono circa mille dipartimenti di Performance Studies, che tuttavia non portano ufficialmente questo nome; in altri casi i Performance Studies vengono insegnati nei dipartimenti di lingue, antropologia, teatrologia, cultural studies, semiotica. Alla University of California, Berkeley, ad esempio, i Performance Studies fanno parte di un amalgama riunito in Department of Theatre, Dance and Performance Studies, il che evidenzia la tendenza a introdurre i Performance Studies in dipartimenti già esistenti. Inoltre, un programma simile esiste in numerose università sotto il nome di Arte e cultura del mondo (per esempio il Department of World Arts and Cultures alla University of California Los Angeles). Questi dipartimenti pubblicano riviste quali The Drama Review, Performing Arts Journal, ecc.
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sintomo dell’allargamento della disciplina fuori dall'area umanistica, verso le scienze sociali e le scienze naturali. Tale determinazione implica anche l'introduzione di un nuovo metodo, che supera la precedente suddivisione delle discipline accademiche e si presenta in continua evoluzione. I Performance Studies rappresentano il tentativo di sviluppare la logica di una nuova (post) disciplina che vada sempre più diffondendosi e cancellando le differenze classiche tra le forme artistiche tradizionali e la loro percezione.
D’altra parte, questa “insostenibile leggerezza” dei Performance Studies ha fin dall’inizio suscitato il dubbio che essi rappresentassero una versione ristretta e limitata dei cultural studies; oppure che, ad esempio, i Performance Studies si espandessero su uno spazio così ampio proprio perché non avevano niente di nuovo e originale da offrire. Altre opinioni riconducono la creazione dell'intera disciplina al postmodernismo: una disciplina dedicata al vivo scambio artistico poteva essere facilmente sviluppata nelle università nel corso degli anni Ottanta proprio perché interdisciplinarietà e interculturalismo subentravano nei corsi di laurea. Nonostante col tempo queste critiche siano venute meno, oggi questa disciplina viene più spesso criticata per il tratto puramente anglosassone.3
Nella più breve delle definizioni, i Performance Studies offrono un continuo e dialettico approfondimento del concetto di performance che, nello stesso tempo, si definisce come una vitale prassi artistica, ma anche come mezzo per una migliore comprensione dei processi sociali, politici e culturali. Il nuovo concetto di performance supera non solo i confini delle arti performative, ma anche dell’arte in generale e si riferisce alle diverse pratiche performative presenti nell’arte, nella cultura e nella società. Da quando ha pubblicato il saggio Approaches to
Theory/Criticism nel 1966, in cui parlava delle attività pubbliche come performance, in molte
occasioni Richard Schechner ha ripetuto «i principi fondamentali» degli studi sulla performance
3 Per la critica di questi studi si veda Wilshire 1990; N. Stucky, C. Wimmer, Introduction: The Power of Transformation in Performance
Studies Pedagogy e J. Roach, Theatre Studies/Cultural Studies/Performance Studies, entrambi in Stucky e Wimmer (a cura di) 2002:
1-29; 33-40; McKenzie, Roms e Lee (a cura di) 2010.
Wilshire ha fortemente osteggiato l’applicazione della metafora teatrale alla vita sociale, poiché essa cancella la differenza tra di loro abolendo la responsabilità etica. Egli non nega l’esistenza dei ruoli sociali, però ritiene che certe predisposizioni fisiche siano presenti nel corpo prima di ogni mimesi sociale e perciò che la mimesi, come anche gli atti creativi e spontanei che appartengono al comportamento morale ed etico, non possano essere classificati nella categoria dei modelli di ruoli sociali che vanno ripetuti o recitati. Wilshire ritiene che l’identità di qualcuno non possa essere ridotta ai ruoli sociali e da essi limitata. Sia che “reciti” un ruolo o che giochi, una persona è pur sempre un essere umano che possiede le potenzialità per qualcosa di più rispetto ai ruoli che potrebbero essere esteticamente valutati; per mantenere la realtà etica ed esistenziale, secondo Wilshire, bisognerebbe limitare la definizione del parateatro.
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(Schechner 1966)4. Secondo Schechner, le performance s’inseriscono in molte istanze e contesti
diversi, e in forme altrettanto diverse si presentano.
«La performance, come categoria generale, deve essere costruita come “vasta gamma” oppure come un ”continuum” di azioni a partire da rituale, gioco, sport, divertimento popolare, arti performative (teatro, danza, musica) e performance quotidiane, fino all’esecuzione dei ruoli sociali, professionali, di genere, razza e classe, alle pratiche curative (da sciamanesimo a chirurgia) e alle varie rappresentazioni e costruzioni di azioni nei media e su internet» (Schechner2002: IX-XIII).
Più tardi Schechner perfeziona questa definizione proponendo l’opposizione «is/as performance»: vale a dire, studiare gli eventi considerandoli come performance e studiare eventi che sono
performance (Schechner 2006: 1-28). Applicando e sviluppando queste teorie, Schechner
costruisce il concetto transdisciplinare diperformance, che può essere osservato in quasi tutti gli ambiti dell’attività umana. In seguito, egli introduce il concetto di restoration of behavior,5
ulteriormente presente anche come showing doing e come explaining showing doing (Schechner 2006: 28). In tal senso, il concetto di performance di Schechner non si riferisce a ogni attività umana (comportamento, rappresentazione), ma solo a quella «consapevole di essere performance» – il che avvicina questo concetto alle contestualizzazioni istituzionali delle pratiche artistiche, rappresentando anche una decisione di carattere metodologico.6
La Storia
È importante notare che la posizione dei Performance Studies è totalmente contrapposta all’estetica idealistica hegeliana, secondo la quale ogni fase storica di un’arte viene vista come forma specifica e concreta di una determinata idea dell’arte e ogni opera artistica come concretizzazione dello spirito oggettivo di qualche epoca o “forma artistica”, il che in precedenza permetteva la collocazione storica e sistematica dell’arte e della sua sintesi. Anche se esistono molte versioni riguardanti la nascita dei Performance Studies, è possibile costruire alcune storie
4 La traduzione italiana del saggio si trova in Schechner 1999: 53-94, dove figura in una versione precedentemente riveduta e corretta dall’autore per l’inserimento in Schechner 1988.
5 Cfr. Schechner 1985: 35-116 e What is performance in Schechner 2006: 28-30. Si veda anche Schechner 1985. 6 Per un’articolazione più chiara si veda Schechner 2002.
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intellettuali in grado di spiegare il loro aspetto specifico, ossia la loro differenza rispetto alle discipline affini – la teatrologia, la musicologia, l’etnomusicologia, la storia della danza, la storia del dramma, la sociologia dell’arte, l’estetica, l’antropologia teatrale, i cultural studies, oppure alle altre discipline contigue. La mia “versione” degli eventi è solo una variazione sulle versioni offerte da Richard Schechner (Salgado Seiça e Vieira 2012)7, Joseph Roach (Roach 2002: 33-41), Marvin
Carlson (Carlson 1996) e Peggy Phelan (Phelan 1999: 1-9).
Tuttavia, sommando queste testimonianze, possiamo individuare un tratto comune: i presenti studi sono nati grazie alla collaborazione tra Richard Schechner e Victor Turner.8 Portando il teatro in
relazione con l'antropologia, entrambi i teorici hanno notato le questioni profonde che si trovano dietro a queste visioni delle espressioni culturali. Nonostante le diversità tra le varie culture, queste ultime contenevano la tendenza continua verso la teatralizzazione, a sua volta indice che la performance rappresentava un modo universale di espressione, addirittura più universale del linguaggio stesso. Nello stesso istante si è imposta la domanda se il concetto di teatro fosse appropriato per definire la vasta gamma di “azioni performative” presente in culture diverse. Presto è diventato chiaro che il termine performance era molto più adatto per descrivere queste attività. Nello stesso momento, Schechner – insieme con altri studiosi di performance, teatro e danza come Michael Kirby, Barbara Kirshenblatt-Gimblett, Brooks McNamara, Marcia Siegel, ecc. – ha tentato di allargare il campo delle ricerche e anche delle attività pratiche della performance, del teatro e della danza fuori dalle classiche definizioni, privilegiando i legami con le avanguardie storiche e con la neoavanguardia americana nell’ambito accademico del Department of Drama alla Tisch School of the Arts della New York University (che solo nel 1980 è diventato Dipartimento di Performance Studies). Artisti come Allan Kaprow, Jerzy Grotowski, Eugenio Barba, Laurie Anderson, Richard Foreman, Robert Wilson, Augusto Boal, Julian Beck e Judith Malina, Trisha Brown, Steve Paxton, Yvonne Reiner, Richard Foreman, Julie Taymor, Spalding Gray, ma altrettanto teorici come Erving Goffman, Clifford Geertz, Colin Turnbull, Herbert Blau, Deborah Jowitt, Phillip Zarrilli, Peggy
7 La stessa intervista, ulteriormente rivista dall’autore, figura, col titolo The 1960s, TDR, and Performance Studies, in Schechner 2015: 32-57. La versione italiana, R. Schechner, Gli anni Sessanta, TDR, e i Performance Studies, trad. di M. Giraldo, è in Jovicevic 2017.
8 Victor Turner aveva invitato Schechner alla conferenza intitolata “Ritual, Drama and Spectacle” nel 1977. L'evento riscosse tanto successo da spingere Schechner e Turner a organizzare tre conferenze sotto il titolo comune “World Conference on Ritual and Performance”, che includevano i rituali e le performance di diverse culture e coinvolgevano performer da tutto il mondo. Questa feconda collaborazione terminò per la morte precoce di Turner nel 1983, ma l’eredità è rimasta. (Cfr. R. Schechner, What is
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Phelan, Joseph Roach, Diane Taylor e Carl Weber partecipavano ai corsi accademici secondo varie modalità.
In seguito, negli anni Ottanta, i Performance Studies vengono scossi dalla generale “esplosione teorica” – scaturita dalla teoria critica francese degli anni Sessanta e Settanta, diffusasi rapidamente nel contesto accademico nord-americano. In quel periodo, le ultime tendenze dello strutturalismo e della semiotica, come anche i passi iniziali della teoria postcoloniale e quella postfemminista, degli studi gay, lesbici e queer, ossia i gender studies, nascono parallelamente allo sviluppo delle nuove idee in antropologia, filosofia occidentale e orientale, estetica, storia, teoria del teatro, cultural studies. È il momento in cui gli studiosi di teatro seguono lo sviluppo delle forme artistiche che si trovano tra “l’arte” e “la vita” (happening, rituali, para-teatro), come anche le somiglianze tra il lavoro degli artisti euro-americani e i performer tradizionali nelle società asiatiche e in quelle africane, innestando una sorta di scambio bidirezionale di rituali, di tecniche performative e di metodi di formazione tra le culture del primo, del secondo e del terzo mondo. Nonostante il loro carattere pionieristico negli anni Ottanta, soprattutto nel promuovere l’apertura della disciplina e nell’incitare i legami metodologici tra la scienza, la teoria e la prassi artistica, i Performance Studies, per molto tempo ancora, non accettano il fondamentale cambiamento epistemologico che l’esplosione teorica ha prodotto nel campo delle discipline umanistiche. Sebbene nella maggior parte delle ricerche nate in quest’ambito nel corso degli anni Ottanta siano stati introdotti nuovi interessi teorici (per i mass media, per la cultura popolare, per l’interculturalità, ecc.) e nuovi metodi di ricerca (archeologia delle scienze umane, costruttivismo, ecc.), la base epistemologica dei Performance Studies è rimasta praticamente identica.
Tuttavia, a metà degli anni Novanta la piattaforma epistemologica dei Performance Studies subisce nuovamente significativi cambiamenti. Oltre al fatto che i Performance Studies fanno la propria comparsa nelle nuove regioni del mondo – per esempio, nell’Europa dell’Est e in Germania – abbracciando le metodologie di post-strutturalismo, cultural studies, teorie linguistiche, psicoanalisi, post-femminismo, queer studies, gender studies, studi postcoloniali, studi dei media ecc., viene operato un cambiamento di rotta anche sul piano della metodologia scientifico-teorica, portata a svilupparsi nella direzione del costruttivismo non-universale. A tutto ciò contribuisce l’allargamento del campo dei Performance Studies a regioni geopolitiche finora escluse (Africa e sud dell’America), la loro sempre più stabile accademizzazione e la comparsa di un gran numero di
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nuovi teorici formati nei diversi ambienti teorici e artistici (cinema studies, dance studies, visual studies, memory studies, trauma studies). Grazie a questi cambiamenti e progressi, nell’ultimo decennio, si arriva all’espansione dei Performance Studies, che ora sviluppano una delle più critiche piattaforme teoriche di ogni forma dello spettacolo e della cultura nel contesto socio- politico globale e non solo nord-americano.
Metodologia
Nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta nella antropologia sociale e culturale (Geertz, Goffman, Turner) si verifica un cambiamento nelle prospettive della ricerca: gli elementi performativi delle varie culture, finora largamente sottovalutati, conquistano una rinnovata importanza. La metafora della “cultura come performance” inizia la propria ascesa, come anche la svolta performativa nelle arti. Negli anni Cinquanta viene anche coniato il concetto di performativo, che John L. Austin introduce nella filosofia del linguaggio a scapito del concetto performatorio (performatory). Austin si fa autore di una scoperta rivoluzionaria per la filosofia del linguaggio, secondo la quale gli enunciati linguistici non servono soltanto a descrivere uno stato di cose e a esporre un fatto, ma anche a compiere azioni, e che oltre agli enunciati constativi, esistono anche quelli performativi. L’enunciazione di queste frasi non soltanto dice qualcosa, ma esegue proprio l’azione di cui parla. Da questo momento in poi viene dunque confermato un fatto già noto: l'azione del parlare possiede una forza capace di cambiare il mondo e può operare le trasformazioni. (Fischer-Lichte 2015: 41-66).
Inoltre, negli anni Ottanta, Judith Butler introduce nella filosofia della cultura il famoso concetto di
corpo discorsivo, ossia corpo performativo. Imprimendo una svolta rivoluzionaria, Butler afferma
che l’identità di genere (gender), come l’identità in generale, non si dà a priori, cioè a livello ontologico o biologico, ma rappresenta il risultato di una specifica opera di costruzione: il genere non viene considerato come un'identità stabile, quanto piuttosto come un'identità istituita attraverso una ripetizione stilizzata di certe azioni, che Butler definisce come «performative», laddove il termine performativo implica il doppio significato di «drammatico e non referenziale» (Butler 1990).9 Secondo Butler, la performance del genere è azione «sociale», «collettiva»,
«pubblica» e «ripetuta» che ricorda i concetti di Schechner come «restoration of behavior» e
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«showing doing» (Butler 2013: 198).
Butler interpreta il processo della produzione performativa dell’identità come un processo d’incarnazione (embodiment), descrivendolo come il modo di agire, drammatizzare, e riprodurre una situazione del passato. Attraverso la ripetizione stilizzata di atti performativi vengono incarnate precise possibilità storico-culturali e, in questo modo, si produce il corpo come qualcosa di storico e culturale, a cominciare dall’identità. In seguito, Butler paragona le condizioni d’incarnazione a quelle dello spettacolo teatrale. Come in uno spettacolo teatrale, gli atti che mettono in evidenza e pongono in essere l’appartenenza di genere non rappresentano solo un atto individuale, quanto piuttosto un’esperienza condivisa e un’azione collettiva.
Secondo Erika Fischer-Lichte, anche il fatto che i termini performance e performative derivino dal verbo to perform appare significativo: la performatività porta allo spettacolo o, per meglio dire, si manifesta e si realizza nel carattere di spettacolo delle azioni performative, così come la spinta performativa induce le arti a realizzarsi in spettacoli e come spettacoli, o meglio a manifestarsi in nuove forme d’arte, come la performance art o l’arte di azione. Secondo Fischer-Lichte si è mostrato così opportuno fondare una «estetica del performativo» proprio sul concetto di spettacolo. Ciò significa che alle teorie del performativo esistenti viene aggiunta una nuova teoria estetica della performance/spettacolo. La studiosa ammette che, invece di fare riferimento singolarmente ai diversi approcci che si sono sviluppati nell’ambito di sociologia, etnologia, antropologia, o della teoria generale della cultura, sembra più produttivo il riferimento a un’estetica del performativo, che punti cioè a ritornare a quelle che devono essere considerate come le prime teorizzazioni del concetto di spettacolo, ossia alla scienza dello spettacolo emersa in seno alle avanguardie storiche. (Fischer-Lichte 2014: 51-52). Inoltre, la comparsa di un gran numero di teorici e artisti, ovvero di teorici/artisti (Richard Schechner, Laurie Anderson, Meredith Monk, Hélène Cixous, Jean-Luc Godard, Jérôme Bel, Orlan, Anne Teresa de Keersmaeker, ecc.) sulla scena artistica e teorica della seconda metà del Ventesimo e all’inizio del Ventunesimo secolo rappresenta una nuova affluenza di avanguardia nella pratica della performance. Dal momento che questi artisti hanno tentato di spiegare lo sviluppo delle proprie estetiche con riferimento alla svolta performativa, tutte le arti hanno modificato il concetto di performance e di performativo avvicinandosi a una teoria discorsiva, cioè a una situazione di condivisione della ricerca attraverso le argomentazioni critiche durante qualsiasi forma dello spettacolo.
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La performance art, le arti performative, lo spettacolo teatrale non sono solamente gli atti di
rappresentazione, ma anche i luoghi dell’incontro reale, quindi lo spazio in cui si verifica
un’intersezione unica tra la rappresentazione “organizzata” (a volte estetica) e la vita (reale) quotidiana. Questo introduce anche la “materialità della performance” che è ancora riconoscibile nel teatro e nelle altre arti performative (la partecipazione di persone in carne e ossa: performer e spettatori, operatori di scena, l’organizzazione, la direzione, il lavoro dello staff tecnico, i mezzi materiali, ecc.), oppure quello che Fischer-Lichte definisce come la co-presenza corporea di attori e spettatori. Ciò che rende unica la performance è che l’atto della performance/realizzazione della performance e l’atto della sua ricezione si svolgono come un’attività reale qui e ora. La performance è quindi una parte della vita che i performer e gli spettatori trascorrono insieme e condividono nello stesso spazio nel quale si svolge la realizzazione e la ricezione della performance. L’emissione e la ricezione dei segni e dei segnali si svolgono contemporaneamente e lo spettacolo nasce da quest’incontro, da questo confronto, da questa interazione. (Fischer-Lichte 2014: 67). In oltre, negli ultimi anni, il trionfo del “paradigma digitale” ha alterato la modalità percettiva: la percezione simultanea e multi-prospettica sta sempre più sostituendosi alla percezione tradizionale, lineare e consequenziale. La mediatizzazione e la globalizzazione della società, come anche la circolazione continua delle immagini mobili, contribuiscono al formarsi di una percezione più superficiale e generale che sostituisce il modo più concentrato e profondo di percepire – ossia contemplare/leggere – il testo/l’immagine. Sotto la crescente pressione dei “poteri uniti” dei nuovi paradigmi, il discorso della performance si stacca da quello teatrale, ma nel contempo gli si avvicina rispetto alla funzione che svolge nella cultura osservata nel suo complesso. Nel corso degli anni Novanta, Peggy Phelan e Philip Auslander introducono il concetto di liveness, creando una nuova dicotomia tra spettacolo dal vivo e spettacolo mediatizzato, che per loro rappresentava una questione quasi ideologica. Mentre Phelan attribuiva alla performance dal vivo l’autenticità e una capacità sovversiva e superiore al performer mediatico, Auslander trovava superata la questione, perché la performance “live” sarebbe già da tempo confluita e dissolta nella performance mediatizzata.10
L'eterogeneità delle varie performance scuote le certezze metodologiche che dovrebbero riporre fiducia nelle causalità generali dello sviluppo dell’arte. Piuttosto, nei Performance Studies