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Apologia della prudenza

Gli studi teatrali si trovano, oggi, di fronte al problema di doversi confrontare con un’apertura di campo per molti versi inedita. Tale situazione discende da due cause principali: le dinamiche linguistiche che hanno caratterizzato il teatro del Novecento e le formulazioni teoriche che tali pratiche hanno accompagnato. Questo nuovo scenario operativo e critico ha comportato un riassestamento – a tratti anche radicale – degli apparati normativi e categoriali legati alla nozione di teatro, in altri termini di ciò che lo qualifica come atto linguistico.

Muoversi all’interno di tale apertura, e delle conseguenze che ha generato, è un atto metodologicamente complesso, visto che a essere messo in discussione non è solo il “come si fa” ma lo stesso “cosa è” del teatro. Occorre, quindi, una giusta dose di prudenza, ma non di timidezza, nel gestire il ragionamento. È con questa intenzione che vorrei introdurre tre termini che possono aiutarci a gestire in una maniera misurata il discorso sulla specificità di ambito del “teatrale”: confine, perimetro e barriera. Il primo indica ciò che separa e, al tempo stesso, unisce. Il secondo, perimetro, invece, definisce il territorio all’interno del quale ci si muove. Barriera, infine, è la trasfigurazione ostile della nozione di confine, che accentua l’elemento della separazione e la rende, per certi versi, assoluta.

Il primo grande riassestamento del teatro novecentesco è consistito nello spostamento del suo perimetro concettuale dall’ambito delle arti letterarie a quello delle arti della visione. È un passaggio che ha portato a considerare il momento scenico come atto linguistico in sé, a trattare elementi tradizionalmente considerati para-linguistici come atti linguistici a tutti gli effetti. Le ricadute sul piano dell’impostazione degli studi sono state importanti, sia per quanto riguarda l’analisi critico-interpretativa dello spettacolo che per le modalità di indagine e ricostruzione della storia. Insomma sia per quanto riguarda l’approccio ermeneutico alla dimensione artistica del teatro che per quanto riguarda l’approccio storiografico.

Se, nel primo caso, tale nuova impostazione metodologica ha consentito una più efficace comprensione dello spettacolo e del suo sistema linguistico (in primis quello contemporaneo, ma

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non solo), nel secondo è stata foriera di una profonda revisione dell’impianto storiografico, che ha consentito una più articolata lettura dei fenomeni teatrali nella loro dislocazione storica. Basti fare, a titolo d’esempio, il caso della contestualizzazione della drammaturgia rinascimentale all’interno del complesso sistema della teatralità cinquecentesca o quello degli studi dedicati ai diversi modi del teatro medievale.

Su di un piano più complessivo, l’individuazione del momento visivo come elemento linguisticamente caratterizzante, non accessorio o subalterno rispetto a quello letterario, ha permesso di leggere il processo storico del teatro occidentale come un corpus non omogeneo, evidenziandone elementi di discontinuità e disomogeneità, con un’enfasi che si è concentrata su aspetti linguisticamente diversi da quello letterario. È quel fenomeno che mi piace definire la reazione anti-aristotelica della riflessione teoretica contemporanea, la frattura, cioè, di quel “pensiero unico” di matrice aristotelica, o, meglio, post-aristotelica, che ha caratterizzato la valutazione estetica del teatro fino al Novecento. Una frattura che ha arricchito la nostra comprensione di ciò che è stato il teatro, con le sue diverse specifiche peculiarità, nelle sue diverse fasi storiche, ampliando i confini di ciò che consideriamo riconoscibile in quanto teatro (si pensi, nuovamente, al caso, appena citato, degli studi sul Rinascimento o il Medioevo).

Questo “miglioramento” nella comprensione dello specifico teatrale comporta, però, anche dei problemi e qui il discorso comincia a toccare enunciazioni meno ovvie. Le nuove prospettive della teatrologia, che hanno consentito di cogliere la diversificazione storica nel processo di costruzione identitaria della nozione di teatro, rischiano di tradursi, a loro volta, in una nuova forma di “pensiero unico”: leggere indistintamente il teatro come atto scenico, senza tenere conto delle priorità linguistiche e dei confini storici. È il caso, ad esempio, della lettura in termini registici di fenomeni che, al più, possono essere considerati come pre-registici o che, addirittura, con la regia propriamente intesa presentano solo assonanze (interessanti e importanti quanto si vuole, ma pur sempre assonanze). A voler ragionare nei termini di un giusto equilibrio dialettico tra perimetro e confine (tra ciò che è proprio, ciò che è ai limiti e ciò che è esterno) è metodologicamente prudente affermare che l’assunto “il teatro è un atto scenico” va sempre puntualizzato e circoscritto in questo modo: un atto scenico storicamente determinato. Vale a dire che dobbiamo tenere presente che c’è atto scenico e atto scenico; che la dimensione testuale dell’atto scenico – ché di questo si tratta, altrimenti il discorso si banalizza nel sostenere che il teatro è qualcosa che si

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compie sempre dal vivo nel qui e ora di un’esperienza condivisa del tempo e dello spazio – è qualcosa di storicamente determinato. Vale a dire che in particolari momenti storici c’è e in altri, invece, manca o almeno non è centrale.

Una risposta esemplare al rischio di cadere nel «pensiero unico», riferito al caso della regia, è il saggio dedicato da Umberto Artioli alle origini della regia, lì dove mette a confronto il resoconto di una festa mantovana del Cinquecento con i tratti distintivi della regia moderna, arrivando a dimostrare come il piano degli enunciati possa sembrare uguale, trattandosi, invece, di analogie di superficie che affondano, invece, in differenze profonde e rilevanti (Artioli 2000). Questo non gli serve a dire che nel Cinquecento il fatto scenico avesse un rilievo o un significato secondari, tutt’altro. Gli serve, invece, a rimarcare le differenze presenti all’interno dello stesso concetto di teatro come atto scenico.

Più in generale, possiamo sostenere che postulare l’orizzontalità testuale dei linguaggi è stato senz’altro un modo per infrangere molte barriere culturali, ma che assumerla come valore universale rischia di produrne di nuove, e direi più insidiose, di barriere. Non è infatti un concetto che possiamo meccanicamente sovrapporre a quello dell’interferenza dei linguaggi nell’opera d’arte teatrale. Con quest’ultima si intende il “dato di fatto” della molteplicità dei codici che agiscono in un qualsiasi spettacolo, mentre con orizzontalità testuale facciamo un’affermazione ben più circoscritta, che presuppone l’uso indifferenziato ed equipollente dei diversi linguaggi da parte di una figura che riconosciamo come l’autore scenico. Se non applichiamo tale nozione con l’opportuna pignoleria metodologica, rischiamo di non comprendere che ciò che conta non è la generica presenza di elementi linguistici diversi all’interno dell’opera teatrale ma il “luogo di sintesi” concettuale che li pone in una disposizione gerarchica di volta in volta diversa. Se nel teatro di regia novecentesco esso si esprime nella messa in scena (con la propensione verso un uso orizzontale del linguaggio) o, in molto teatro dell’Ottocento, nell’attore, è innegabile che, nel Seicento francese di Racine, il focus sia rappresentato dal testo letterario.

Quanto vorrei sostenere, con il sostegno di questi pochi esempi molto sommariamente esposti, è che l’uso di modelli e di categorie nell’analisi del fatto teatrale (che servono a circoscrivere ciò che pensiamo essere il teatro) è utile o addirittura imprescindibile (non c’è Cinquecento senza la nozione di Rinascimento) nella misura in cui, però, tali modelli e tali categorie li utilizziamo, prudentemente, in una prospettiva storica. Nella misura in cui sono modelli e categorie

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storicamente determinati e storicamente determinabili e verificabili.

I modelli e le categorie sono strumenti di indagine applicabili allo studio del teatro con grandissima utilità nella misura in cui “servono”, quando, cioè, ci aiutano ad agire interpretativamente in modo corretto dentro un perimetro precisamente circoscritto dal punto di vista storico e geografico. La loro “utilità” consiste nel consentire un racconto della storia del teatro come storia di una identità in divenire e non come tentativo di approdare a una ontologia (il teatro è) basata su parametri più o meno convenzionali o più o meno moderni e attuali. Inviterei, così, a tenere conto di quanto sostenuto di recente da Claudio Vicentini quando ha parlato di una «ecologia delle nozioni di lavoro». Ipotesi preziosa tesa a dimostrare la sostanziale poca utilità del tentativo di giungere alla formulazione di affermazioni assolute. Riguardo a concetti generali come possono essere quello di teatro o di recitazione, «è come se fosse sufficiente un “tanto più o meno ci intendiamo”», scrive, a suggellare che l’ambiguità e l’approssimazione connaturate a tali concetti metodologici (cosa sia il teatro, cosa la recitazione, cosa o chi l’attore) non sono necessariamente dei limiti quanto l’indizio della «natura complessa» dei termini in gioco «che includono ambiti di significato contigui, ognuno dei quali – e questo è probabilmente il dato più importante – “preme” in maniera diversa all’interno del discorso che viene condotto senza però mai liquidare gli altri ambiti di significato» (Vicentini 2014: 8).

Le «nozioni di lavoro» vanno assunte, dunque, come realtà metodologiche, senza intenzioni dogmatiche o normative ma in un’accezione pragmatica e dialettica.

Teatro e performance. Una trappola ontologica

Viceversa mi sembra presente, oggi, una certa tendenza ad assolutizzare le categorie, ad esempio quella di performance, in una prospettiva che tiene in conto relativo i perimetri storicamente definiti. È un atteggiamento metodologico, questo, che produce due esiti, apparentemente opposti che sono, invece, fondamentalmente complementari. Il primo lo definirei un atteggiamento inglobante. La performance è vista come un atto sociale al cui interno la distinzione tra ciò che è teatrale e ciò che non lo è, è di metodo e non di merito. Sul versante opposto, invece, la posizione che presuppone distinzioni nette fino alla inconciliabilità tra ciò che è definito performance e ciò che è definito teatro. Ciò che è l’una sembra non poter essere l’altro.

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storicamente enunciati di una modalità di pensiero che vuole affermare il metro efficacia/non efficacia nel valutare il valore delle argomentazioni teoriche e che, viceversa, finiscono per essere proiettate dentro un ambito argomentativo che presuppone ancora l’antinomia vero/falso. Sembra, per molti versi, che attorno ai concetti di teatro e di performance sia in corso una sorta di “battaglia della verità”.

Per comprenderne le dinamiche, prendiamo in esame due studi che non teorizzano la performance ma ne rielaborano, sulla base di un’ampia analisi delle diverse posizioni critiche, gli ambiti di specifica peculiarità.

Il primo è Performance. A Critical Introduction di Marvin Carlson (Carlson 2004). Nelle conclusioni dell’edizione del 2004 (il libro aveva avuto la sua prima edizione nel 1996), Carlson azzarda una distinzione tra la performance teatrale e altre che non lo sono, con l’intenzione di salvaguardare la specificità della prima. Dopo aver enunciato le tesi che vedono nella presenza e nell’incorporazione la specificità teatrale, introduce lui stesso due concetti che gli sembrano, meglio dei precedenti, individuare la specificità della performance di teatro. «Di tale tipo di performance – scrive – è fatta esperienza da un individuo che è anche parte di un gruppo, così che le relazioni sociali sono costruite all’interno dell’esperienza stessa» (Carlson 2004: 215). Si tratta di una relazione, specifica, in cui la dimensione autoreferenziale (le relazioni sono costruite all’interno dell’esperienza) si gioca in un rapporto a tre tra performance, spettatore, singolo e resto degli spettatori. Ci sono, cioè, due direttrici di relazione, una che lega lo spettatore, come individuo, all’attore che ha di fronte e una che ne dispone l’individualità all’interno di un gruppo di cui condivide la posizione nei confronti dell’evento rappresentativo.

Carlson procede, quindi, a segnalare una seconda distinzione. La performance teatrale è un evento «separato in una maniera quasi invariabilmente chiara dal resto della vita, presentato da performer e a cui assiste un pubblico, i quali considerano entrambi quell’esperienza come un materiale da interpretare» (Carlson 2004: 216). A specificare quanto ha espresso in precedenza in termini di autoreferenzialità, rispetto alla ricaduta effettiva sul reale, Carlson indica come la performance teatrale sia un atto locale e circoscritto rispetto alla vita e come essa sia – e come tale sia intesa – come un atto comunicativo, con una sua destinazione semantica. Esisterebbe, in sostanza, secondo Carlson una linea di demarcazione netta, un confine che divide due perimetri culturali e linguistici prossimi come possono essere la performance teatrale e altre tipologie di

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possibili eventi performativi, magari di natura sociale o rituale.

Una posizione non dissimile è espressa da Erika Fischer-Lichte in The Routledge Introduction to

Theatre and Performance Studies (Fischer-Lichte 2004). Si tratta di uno studio che, come il

precedente, intende proporre un’analisi delle diverse posizioni critico-teoriche, per valutarne la portata e contestualizzarla nel quadro della dialettica tra performance di teatro e performance di altro genere, un modello che potremmo, forse, definire performance di non-teatro. Scrive Fischer- Lichte, a proposito dei diversi ambiti di pertinenza degli studi teatrali e dei Performance Studies, che «invece di postulare che gli studi teatrali e i Performance Studies dovrebbero coprire ogni

cosa, è più utile delineare il campo: quegli studi [i Performance Studies] rappresentano una

disciplina che studia gli spettacoli (in opposizione ai testi)» (Fischer-Lichte 2014: 184). È un’affermazione che – estratta da un contesto argomentativo che, nel libro, ha toni più dialettici – dà l’impressione di essere più apodittica di quanto non voglia, ma che comunque ha precise implicazioni assertive. Fischer-Lichte intende nettamente distinguere il perimetro degli studi teatrali da quello degli studi performativi, riguardando questi ultimi la dimensione spettacolare dell’evento teatrale, gli altri la componente testuale e suggerendo, a marcare ulteriormente la distinzione, che i primi agiscono sullo spettacolo inteso come elemento non solo distinto ma opposto al testo.

Si tratta di una distinzione che ha un suo senso preciso in termini di geografia culturale (nel contesto germanico e anglosassone che distingue anche lessicalmente gli ambiti) che qui viene però fortemente concettualizzata. Ciò che fanno Carlson e Fischer-Lickte è tentare di fornire linee di perimetrazione che abbiano una loro consistenza certa, netta, assoluta e universale. Agendo concettualmente nella frattura della barriera che isola il teatro come prodotto estetico e valutandola, in dettaglio, attraverso un’accurata indagine storico critica degli eventi teatrali e performativi e delle posizioni teoriche, i due studiosi, nelle loro conclusioni, abbandonano la collocazione storica dei discorsi e finiscono per cadere nella trappola ontologica di categorie che si pretendono assolute e assolutamente valide.

Actuals di Richard Schechner: un caso di studio

Ma è possibile, e come, ragionare in termini non ontologici ma storicamente determinati di questioni che abbiano una pretesa concettuale? Restiamo all’ambito del rapporto (o distinzione)

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tra teatro e performance, affrontando la riflessione teorica di Richard Schechner. L’esperimento è interessante perché, negli studi teatrologici, è proprio a lui che viene attribuita la “responsabilità” di aver avviato la ridefinizione dei confini disciplinari, mettendo in gioco la nozione di performance come categoria autonoma e specifica dell’atto teatrale.

Il testo a cui si fa più sovente riferimento è Actuals, perché è in esso che viene messa a fuoco con particolare evidenza per la prima volta, nell’ambito degli studi teatrali, la pertinenza antropologica della dimensione performativa e la centralità del rituale. Il saggio è pubblicato nel 1970 e già solo fermare la nostra attenzione sulla data di edizione ci consente di considerare le affermazioni che vi vengono fatte come un atto di pensiero storicamente condizionato e non come una «affermazione di verità» (Schechner 1970). Si tratta della data strategica in cui il Living si lancia nell’avventura dell’animazione nelle favelas brasiliane, al di fuori dei confini estetici del teatro come arte, e in cui Grotowski, viceversa, li ribalta, quei confini, superando la fase che definirà «arte come presentazione» e avviandosi lungo la via dell’«arte come veicolo». Insomma Actuals è scritto in una fase di transizione epocale del Nuovo Teatro e di quel clima culturale va considerato parte integrante.

Facciamo, però, prima un passo indietro e prendiamo in esame un altro saggio di Schechner, altrettanto importante del precedente: i Sei assiomi per l’Environmental Theatre. Pubblicato nel 1968, i Sei assiomi, al contrario di quanto abbiamo visto per Actuals, è scritto non in una fase di transizione o di crisi di un modello di innovazione linguistica, ma nel pieno della sua più intensa capacità inventiva (Schechner 1968). Per restare al dato personale di Schechner, i Sei assiomi sono scritti prima di Dyonisus in 69 e Actuals subito dopo. E, considerato il ruolo di spartiacque che ebbe quello spettacolo nella vicenda artistica di Schechner, la determinazione cronologica non è priva di un suo portato.

Oltre al concetto di environment – che gli serve per ridefinire la nozione di spazio scenico e trattarlo come una scrittura – nei Sei assiomi Schechner tenta una sistematizzazione della categoria “teatro”. È celebre lo schema quadripartito che vede ai due estremi il teatro tradizionale di rappresentazione e gli avvenimenti di piazza e, in mezzo, gli happening e l’Environmental Theatre, dentro cui si legge chiaramente l’applicazione, in ambito teatrologico, del concetto di Goffman della vita come rappresentazione (è il primo caso in cui questo concetto, che diventerà in seguito così popolare, viene assunto in una prospettiva dichiaratamente teatrale).

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Lo schema dei Sei assiomi è, dunque, il tentativo di ridefinire i confini estetici del teatro, forzandone il perimetro istituzionale. Ma il discorso, anche quando tocca l’antropologia (vi compaiono gli Hevehe, un esempio di ritualità performativa che tornerà tante volte in seguito) o la sociologia, è e resta saldamente nei confini dell’estetico. Schechner parla, a proposito del limite più estremo di ciò che considera teatro – il confronto tra manifestanti e forze di polizia in occasione del Congresso democratico di Chicago del 1968 e, più in generale, le marce politiche – di una sua «conformazione estetica». Tale conformazione colloca, a tutti gli effetti, questi eventi di matrice sociale all’interno del perimetro concettuale del teatro. Di un teatro ripensato nei termini minimalisti espressi da Cage, e citati da Schechner: «Per me il teatro è semplicemente qualcosa che vincola la vista e l’udito» (Schechner 1968: 26).

Alle spalle dello schema di Schechner ve ne è un altro, meno noto ma non meno importante, quello che Oskar Schlemmer disegnò, nel 1925, in Uomo e figura artistica (Schlemmer 1925). Il dettaglio della impostazione è, per molti versi, diverso, ma molto vicina appare l’intenzione: determinare uno statuto linguistico del teatro che ecceda il confine istituzionale dell’estetica e perimetri, in una maniera più ampia e dialettica, la nozione di teatro. Agli estremi del suo schema – che ha la struttura di una partitura visiva – vi sono il culto religioso e l’intrattenimento popolare; al centro vi è il teatro propriamente inteso, la cui identità è contornata da due aree liminali: la prima riferita alla sacra rappresentazione e all’azione festiva; la seconda al cabaret, al varietà e al circo. Non è questo, però, il luogo per entrare nel dettaglio di una ipotesi di nuova catalogazione del fatto teatrale che presenta interessantissime implicazioni; ci interessa solo designarla come antesignana di quella proposta da Schechner, che, nei Sei assiomi, offre un tentativo di sistematizzazione dei processi teatrali in corso (una «critica in atto»); la risposta – in nome della performance – all’allargamento di campo dello specifico teatrale, attraverso una nuova, anti-aristotelica modellizzazione dell’evento teatrale.

Anche Actuals va letto in questa direzione, relativizzandone gli assunti al momento storico. Presenta, infatti, una nuova sistematizzazione del lessico teatrale per agire dentro l’analisi del teatro della fine degli anni Sessanta che, come abbiamo detto in precedenza, vive un momento critico epocale che si esprime, in primo luogo, proprio attraverso la forzatura delle barriere identitarie. Il discorso di Schechner si sposta, così, verso l’analisi in chiave performativa dei rituali ma la strategia che ne sovrintende le intenzioni è sempre quella di trovare sistemi di analizzabilità

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critica di “certi” fatti teatrali. Verifichiamo quanto dice al proposito in due importanti passaggi del suo testo: «L’ambizione di cambiare il teatro in rito non è niente altro che un desiderio di rendere la performance efficace» e «Non vi è possibilità per il crudo di venire dopo il cotto. Così con l’arte e con la vita. L’arte è cucinata e la vita è cruda: l’arte è il processo che trasforma l’esperienza cruda in forme mangiabili» (Schechner 1970: 43). Sono due modi – specie il secondo, in cui è esplicita la

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