In tutti i manufatti e gli eventi dell’Arte non c’è “Informale” che non tenda alla “forma”.
Il grande equivoco dei decenni del dopoguerra è stato credere che ci potesse essere un “Informale” pago d’essere tale, sì da mettere in crisi definitiva la questione della “Forma dell’Opera”, dunque perseguire la negazione dell’Opera nella pratica d’Arte. Ma un matematico quale René Thom ci ha avvertito che, per esempio, dei prodotti della “Action painting” di Pollock è possibile percepire una “Forma” che appartiene all’ordine della Complessità e che dunque anche di questa – almeno in linea di principio e come procedimento d’approccio più consapevole che renda ragione di quel primo dato percettivo – si può definire la topologia complessa in termini di “bordo” o “contorno”, di esterno e di interno cobordanti rispetto a questo contorno, e ancora di “pregnanze” e “salienze” di questa Forma complessa, a partire dalla fondamentale incidenza del caos ai fini costitutivi proprio di un nuovo ordine complesso che consideri anche la possibilità di mutamenti catastrofici. L’opera d’arte “informale” aspira dunque ad essere valutata come tale, esattamente come le opere d’arte “formali” della tradizione che potremmo definire “classica”.
Naturalmente, attraverso la pratica del “casuale” destinata ad inserire nella forma di quell’opera “informale” il caos, si offrono alla valutazione “pregnanze” e “salienze” estranee alla presunta tematica dell’opera “classica”, così come alla sua struttura formale che di quella tematica si fa carico. Tali nuovi dati di percezione, e poi di valutazione, attengono per esempio all’ordine del materico, del gestuale, del temporale, dell’aleatorio; dati non assenti ma del tutto secondari nella forma dell’opera che per comodità abbiamo definito come “classica”, laddove “pregnanze” e “salienze” si manifestano come “tematiche” nelle loro correlazioni con dati strutturali, sia pure macrostrutturali e microstrutturali, organicamente connessi tra loro in una polisemia, ovvero in una correlazione molteplice e stellare che Della Volpe ha definito come «Omnicontestuale organica» (Della Volpe 1960), Hjelmslev come «Gerarchia di funzioni di funzioni» (Hjelmslev 1968) e Lotman «Semiosfera» (Lotman 1972). Tutto ciò si rimodula nel cosiddetto “Informale” secondo quei nuovi parametri che ci introducono in una nuova complessità attinente al caotico e tendente dunque ad una nuova “Forma” più complessa.
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Se tutto ciò è vero, il prodotto “informale” – di qualsiasi natura esso sia – tende alla forma
dell’opera esattamente come il prodotto “formale”, ma appunto in una maniera più complessa che accoglie la percezione della casualità, in termini di “pregnanze” che si fanno “salienze”, se usiamo la terminologia di Thom. Si genera da ciò la percezione di forme virtuali complesse che, per metafora possiamo definire simili alle topologie complesse che i matematici ottengono dai fenomeni fisici caotici.
Ciò distingue il procedimento artistico da quello sportivo: in quest’ultima sarà il criterio
quantitativo a parametrizzare ogni performance. E ne sanno qualcosa i medici sportivi: il ritmo cardiaco, la velocità della circolazione sanguigna, la produzione adrenalinica, lo stress muscolare e qualsiasi altro dato fisico parametrizzabile in termini quantitativi connoterà l’eccellenza o meno della performance sportiva; mentre la Aesthesis, il dato percettivo estetico della performance, resterà del tutto secondario; non escluso, ma secondario, posto che in ogni comportamento umano, e a maggior ragione in quelli performanti come lo sport, vi sia sempre qualcosa che attiene alla forma dell’arte.
Al contrario nella performance genericamente, e nel senso più lato, definibile come artistica la percezione della “Forma”, sia pure nella sua massima complessità, e sia pure come finalità a venire e magari inconseguibile, sarà il modo appercettivo di chi la osserva e insieme la finalità del performer. Così in Pollock, ma così egualmente in Cage, in Stockhausen, e così nel cosiddetto “Parateatro” di Grotowski a dispetto delle enunciazioni dichiarate, come a dispetto delle enunciazioni dichiarate di Pollock, Cage, Stockhausen.
Infatti, poiché la lingua non tradisce mai, di queste azioni performative si continuerà a dire che sono “belle”, e solo per metafora “buone”, mentre delle azioni performative dello sport si dirà che sono “buone” e solo per metafora “belle”. Ciò non toglie che ci possano essere dei prodotti performativi ambivalenti, o diversamente valenti a seconda del contesto. Di un piatto di spaghetti si dirà che sono “buoni”, ma guarda caso da Roma in giù si dirà che sono “belli”, questione di punti di vista.
Dunque, la performance che qui ci interessa sarà “bella” o se del caso “brutta”, a dispetto
del suo eventuale rifiuto dell’Opera o del suo accadimento indeterminato nello spazio o nel tempo. E quella valutazione estetica atterrà all’ordine della complessità e in ciò troverà il suo valore.
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Si, anche quella, poiché lo stesso Thom ci avvertirebbe che essa, come procedimento, non differisce in nulla dall’atto performativo della “Action painting” o dell’accadimento di “musica concreta”. Tutte queste cose sappiamo oggi che sono passibili d’essere dichiarate “belle” o almeno potenzialmente “belle”. E dunque non si scappa: sono “opere” o almeno “opere potenziali”.
Ciò comporta che se davvero vogliamo parlare di performance, non nell’ambito dello sport ma nell’ambito dell’arte, è di “opera” che dobbiamo parlare o di “tendenza all’opera”, quali che siano le dichiarazioni programmatiche del performer. E, dunque, di “opera” qui parliamo e, per quel che ci riguarda, non in termini di exploit pittorico o di exploit musicale, ma in termini di exploit scenico; una dimensione questa per altro ulteriormente complessa che può includere nella sua costitutiva eterogeneità anche le altre due: il pittorico e il musicale, oltre a molto altro s’intende.
Va da sé che il nostro “oggetto da spectare” – poiché qui trattiamo di performance fisica e non spaziale, luminotecnica, musicale, digitale o altro – è in primo luogo lo spettacolo che dà di sé, o intenderebbe dare di sé, una persona fisica che chiamiamo “performer”, senza escludere affatto, per altro, che in questo spettacolo di sé coinvolga quelle ed altre dimensioni. Come sempre, si tratta di “gerarchia di funzioni di funzioni eterogenee”, ai vertici della quale v’è comunque l’azione del performer.
Ora, i vertici di siffatte gerarchie complesse possono dipendere da due fattori: da un’evidente e oggettiva strutturazione di tale gerarchia; oppure dal punto di vista assunto dall’osservatore o dall’analizzatore che può anche decidere di porre al vertice ciò che magari nell’oggettiva gerarchia non lo è affatto. Per fare un esempio banale, quando di un’opera filmica o di un classico della drammaturgia si sceglie di analizzare in maniera specifica la performance del protagonista, o magari dell’interprete di un ruolo secondario la cui performance si ritenga particolarmente notevole. Molte volte le due prospettive, quella oggettiva e quella soggettiva, si trovano a coincidere; si potrà osservare o analizzare, allora, ai vertici dell’eterogenea gerarchia dell’evento la performance fisica e connettere ad essa tutto il resto; e potremo sempre, per comodità, parlare di “performance attoriale” poiché un evento di spettacolo essa comunque governa e promuove, o nei casi più estremi una tensione, un’istanza rivolta ad un evento spettacolo più alto rispetto a quel che si attendono le consuetudini dell’osservatore e/o analizzatore. In sostanza, la performance fisicaiconologia che non sia d’ambito sportivo di necessità dobbiamo ora e sempre analizzarla nella sua finalità, ovvero in termini di “spettacolo”.
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Se così stanno le cose, parlare di pratiche ed eventi “parateatrali”, o peggio “extra-teatrali”, e che pure hanno a che fare con lo spettacolo sarà del tutto infondato e pretestuoso se ciò vuol significare una gerarchia di valori di interesse, di distinzione tra “pratica alta” e “pratica bassa” tra le diverse pratiche performanti; sarà invece del tutto plausibile se si vuole con i termini di “parateatrale” ed “extrateatrale” riformulare l’ottica dell’evento-spettacolo in funzione della ricerca di una maggiore o diversa complessità della gerarchia che lo costituisce. In altre parole, il nuovo teatrologo che si occupi di performance non ha motivo, se non quello della valutazione formale complessa, per preferire in linea di principio l’Amleto di Gassman o di Olivier al Lago dei cigni di Nureyev, al Principe Costante di Cieślak, ma anche all’azione performativa di qualsiasi performer parateatrale, o ancora al live pop From Memphis di Elvis Presley. Proprio nessuno, a meno che non sia in cerca di un accreditamento accademico finalizzato al tradizionale cursus honorum che nulla ha a che fare con ciò che definiamo nuova teatrologia.
Direi che, come quel famoso piatto di spaghetti che è sia buono che bello, anche molti eventi sportivi si prestano perfettamente ad un’analisi della performance spettacolare. Quando Cassius Clay dice che la sua boxe “vola come una farfalla e punge come un’ape” pone il principio per cui il suo match di Kinshasa contro George Foreman venga osservato e analizzato come “bello” valutazione qualitativa estetica, oltre che come “buono”, valutazione quantitativa di efficacia. Ergo, per il nuovo teatrologo l’analisi del performer Cassius Clay dovrebbe valere in linea di principio tanto quanto quella di Richard Cieślak, concorsi universitari a parte. Ma allora perché non anche una spogliarellista, ad esempio la grande artaudiana Rita Renoir; perché non anche una star del Burlesque, ad esempio, una magistrale formulatrice della performance sexy quale Immodesty Blaize?
Tuttavia lo spettacolo – sia quello “classico” che si offre come opera nella sua compiutezza formale, sia quello di là da venire della più aperta ipotesi “informale” o “parateatrale” possibile – non è un oggetto che, per quanto complesso, puoi conservare in una galleria o a casa, puoi rivisitare quando vuoi, puoi sottoporre ad una qualsiasi analisi ponendolo materialmente sul banco dell’analista. Lo spettacolo è un dato percettivo – visivo e/o auditivo – del momento, di cui al massimo restano materiali tracce sparse – tutto ciò che nella maniera più ampia definiamo come back-stage e che si offre al lavoro di ricostruzione degli storici – oppure a volte, ma solo da pochi decenni, delle riproduzioni audio-video che non sono lo spettacolo, meno che mai la sua percezione, ma una
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traccia di tutto ciò secondo un determinato punto di vista e anche questa offerta alla ricostruzione degli storici.
Insomma quel dato percettivo complesso che è lo Spettacolo come Opera, se del caso Opera d’Arte, è destinato a cancellarsi subito dopo il suo accadimento. È una questione vecchia e ben nota, il punto cruciale su cui dalla metà del Novecento si interroga la nuova teatrologia che vede, per questo, problematico il suo oggetto e il suo statuto; anche se non per questo impossibile. Infatti è almeno possibile, attraverso l’archeologia del back-stage e attraverso tutte le disponibili tracce della riproduzione audiovisuale, ricostruire una modellizzazione dell’evento, che non è certamente l’evento stesso, ma una sua riduzione ad un analògon più o meno approssimato. Ma perché questo analògon sia tale anche nei confronti del “dato percettivo” cancellato che è stato lo spettacolo, quindi lo spettacolo nella sua “vera” totalità e nella sua valenza complessa, occorre fare appello a due qualità dell’analista che sono squisitamente psichiche: la Memoria e l’Immaginazione.
La prima, la Memoria, prende ad elaborare i suoi materiali fin dal momento dell’atto percettivo e li formula in ciò che opportunamente Aristotele definisce come fantásmata. Già il neoaristotelico Domenichino, maestro coreografo e danzatore presso le corti italiane del Quattrocento, con riguardo alla sua arte coreutica definiva questi fantásmata come immagini fisse, tableaux, affioranti nella memoria e che segmentano l’azione anche la più dinamica. Oggi li chiameremmo fotogrammi! E davvero rispondono ai principi della visione esperiti da Marey e da Muybridge a fondamento della possibilità dell’arte cinematografica. Ma a queste “immagini fisse” occorre aggiungere, nel caso della danza e in molti altri casi, dei fantásmata ritmici, ovvero frasi del dinamismo che tornano alla memoria sia acustica che visiva come moduli standard di base rispetto al dinamismo complessivo. Sia i fantásmata visivi che quelli ritmici affiorano alla nostra mente come contaminati da procedimenti di reminiscenza, dunque arricchiti da dati e qualità percettive attinenti ad altri fantásmata sepolti nella memoria ed attratti da quelli attuali per analogie connotanti, sicchè i fantásmata si presentano come suscitatori di pathos, e prima di tutto del
pathos del ricordo, l’anámnesi. Ciò avviene già all’atto della percezione dell’evento, e poi
naturalmente può estendersi ulteriormente se nel tempo attiviamo la “memoria” dell’evento. La percezione dei fantásmata, e dopo la anámnesi che li riformula arricchiti, attivano la seconda facoltà psichica anche essa modificabile nel tempo, ma anche essa costitutiva dell’atto percettivo
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complesso che chiamiamo “spettacolo”, ovvero la facoltà dell’Immaginazione: lo spettacolo è anche contemporaneamente la anámnesi in cui si inscrive e la sua piena e probabilmente mai realizzata finalità, il suo aristotelico “dover essere” – fonte peraltro dei processi catartici – ovvero la sua ideale utopia avvertibile fin dal suo progetto. Il dato percettivo complesso che è lo spettacolo si compone dunque di tre fattori indispensabili: uno d’ordine materiale dato dall’evento in sé, ma connesso con l’attivazione della facoltà psichica della Memoria e da qui con l’attivazione della facoltà psichica Immaginante. La compresenza di questi tre fattori genera lo spettacolo nella sua piena emozione percettiva.
Ma chi è chiamato ad attivare questi tre fattori? Il performer o il suo pubblico? La risposta è entrambi, ma non è detto che lo facciano allo stesso modo: dati percettivi materiali, anámnesi e immaginazione possono procedere per vie concomitanti, o parzialmente differenti, o totalmente differenti: Lo “spettacolo” è il campo largamente immateriale, e in parte materiale, agito e formulato dai quei tre fattori attivati da soggetti differenti. A monte della sua complessità strutturale o formale come evento v’è questa complessità costitutiva che lo pone come “oggetto da spectare” nella sua mirabile forma.
Ne consegue che il pubblico, sia nelle sue singolarità componenti che nel suo complesso, non sia “uno” ma “duale”, diviso com’è tra la percezione dell’evento materiale e le concomitanti rielaborazioni della memoria e dell’immaginazione; ma questa sua “dualità” in buona parte l’affida e la lascia quanto meno guidare ad un’altra e ben più accentuata schisi: la “dualità” del perfomer. Questi non è “uno” là sulla scena, ma da un lato è la traccia di sé stesso come persona e come abilità pratiche e tecniche e, insieme, il tentativo più o meno conseguito, ma sempre ineliminabile, di iscrizione in un suo doppio scenico ideale, in una riflessione ed uno specchio virtuale in cui sé stesso e la sua arte si formulino nella pienezza utopica di un progetto, a lungo elaborato ed ora lì sulla scena realizzabile, dunque in un suo “dover essere” talmente assoluto da darsi come metafora. Ed è questo suo “doppio” sullo specchio della scena che egli vuole che si valuti, che si accolga come fonte di riflessione e di pathos, infine soprattutto si ammiri e si ami.
In questo deliberato progetto di dualità il performer gioca, dunque, insieme al progetto dell’opera effimera – il cui filo rosso però si può riprendere e sviluppare da spettacolo a spettacolo – gioca anche e per intero il suo vissuto, conscio e inconscio. Certo, la teatrologia della performance deve necessariamente giovarsi di dati filologici e biografici, poi della descrizione tecnica e progettuale
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rilevabile nell’oggettivo rilievo comportamentale della performance. Ma come può fare a meno dell’analisi in senso stretto, freudiana e post-freudiana – quando lì sulla scena c’è un doppio speculare e questo doppio produce linguaggio, ovvero è nodo del Significante?
Farne a meno, sarebbe come dire che nel “principio di formatività” che regge la Fisica aristotelica – dunque anche la Poetica – pure accogliendo la causa formale (per noi il progetto), la causa materiale, la causa tecnica specifica, poi decidiamo che non ci interessa la causa finale, che invece è ovviamente il movente e il fine di tutto il processo di formatività. Ed è questo il limite degli approcci comportamentali che per forza di cose, per il loro statuto, ritengono che “parateatro”, “extrateatro” e “informale” siano effettivamente tali e non postulazioni di altro da sé, come oggi invece sappiamo nell’era in cui perfino John Cage è fruito come un “classico” e genera tutte le riflessioni e le patografie dei classici.
La “patografia d’autore” come metodo critico ha fornito degli snodi fondamentali all’esegesi letteraria – si pensi a Sartre su Flaubert – e così pure la “patografia del personaggio” – si pensi a Freud su Amleto – dalle cui acquisizioni non si può prescindere quali che siano gli sviluppi seguenti. È ovvio che a siffatte metodologie debba oggi necessariamente affiancarsi una “Patologia del performer” nell’epoca in cui tutti i media tendono a sostituire le tradizionali forme di testualità con la testualità performativa, dal pop al Nuovo Teatro.
Ma torniamo ai fantásmata connotati da reminiscenza e arricchiti da Immaginazione. Siano essi dei pattern visuali, acustici o ritmo-dinamici – e di solito nella performance si offrono in sinestesia secondo tutte e tre queste modalità – è ovvio che essi si avvalgono per presentarsi alla nostra mente di un repertorio codificato, in sostanza di una tassonomia che regola e rende significanti tutte le tre dimensioni suddette. La critica d’arte figurativa afferma che le tassonomie costituiscono i repertori iconografici che consentono il primo livello di decodificazione dell’opera rispondendo alla domanda: a quale serie iconografica essa appartiene? E di conseguenza che cosa mi vuole comunicare? Anche nell’analisi o nella semplice percezione della performance c’è un primo livello d’intendimento simile a quello che nelle arti si riferisce al repertorio iconografico. Salvo che in questo caso si tratta di livello iconografico, fonografico e dinamografico insieme. Non potremo che definire questo primo livello che come quello delle teatrografie, e per lo studioso la teatrografia sarà il metodo di approccio che ne consegue. Ma sicuramente non basta.
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opera d’Arte occorre procedere dall’individuazione del repertorio iconografico alla iconologia, anche per quel che ci riguarda dovremmo procedere dalla teatrografia alla teatrologia. E come? Panofsky ha esemplificato l’approccio iconologico asserendo che esso in prima istanza colloca l’opera secondo le sue tassonomie iconografiche, in seconda istanza la considera come dotata di una didascalia virtuale la quale in primo luogo rinvia alle connotazioni letterarie – nella accezione più larga possibile della letteratura – e da qui alle connotazioni con tutti gli altri campi del sapere implicati, estetici e scientifici. Analoga operazione dovrà compiere il teatrologo nel suo trascorrere dal repertorio della teatrografia alla analisi della teatrologia, e analogamente dovrà considerare l’evento di performance come dotato di una sua didascalia virtuale da decodificare. E così come esplicitamente Warburg e Panofsky riconoscevano che l’iconologia, grazie a quella didascalia virtuale ci porta a sondare nell’Inconscio dell’Opera, anche la teatrologia – se è tale e non puro rilievo comportamentale teatrografico – dovrà portarci a sondare fin nell’inconscio dell’evento di performance.
La chiave per accedere ad un siffatto sondaggio nel suo Mnemosyne – L’Atlante delle Immagini Warburg la individua nelle Pathosformeln di cui l’Opera si compone, ovvero le forme, o addirittura le “formule”, per l’attivazione del pathos. Le Pathosformeln rimandano in prima istanza a stereotipie di modelli esecutivi, ma trasversali rispetto alle serie iconografiche. Un esempio banale: la veste svolazzante o il piede poggiato solo sulle dita sono attributi ricorrenti di ninfe danzanti in serie iconografiche mitologiche, ma possono essere anche attribuiti ricorrenti per gli angeli in serie iconografiche della Natività o delle apoteosi. E così che, per esempio, Warburg ha individuato in una fanciulla di un corteo processionale di un quadro a tematica devozionale del Ghirlandaio, la
Nascita di S. Giovanni Battista, il prototipo della “Ninfa Moderna”. Il potere emozionale delle Pathosformeln dipende dunque dall’attivazione nello spettatore del processo di Anámnesi.
Ma non basta ancora, poiché le pathosformeln subiscono nell’opera d’arte una ricollocazione in un contesto del tutto particolare, e questa ricollocazione ne sposta e ne arricchisce i valori, perfino