di Giacomo Nencioni
L’idea di un’Alice guerriera destinata a liberare il Paese delle Me-raviglie in una quest puntellata da duelli cruenti non compare però per la prima volta: risale infatti al 2000 l’uscita di un videogame della Electronic Arts, American McGee’s Alice,2 diventato presto un fenome-no di culto, che presenta in forte anticipo una serie di caratteristiche riprese in modo massiccio dal film di Burton.
Quest’ultimo ci presenta Alice in una versione decisamente dark, reduce da un incendio che ha ucciso tutta la sua famiglia e internata in un manicomio, anni dopo la sua prima visita nel paese delle me-raviglie, che sarà riportata indietro dal Bianconiglio per combattere una battaglia contro la Regina di Cuori in un mondo completamente cambiato e dal sapore horror.
Videogioco e film presentano premesse simili declinate in toni di-versi: così come il mondo in decadenza nell’opera di Burton assomi-glia più a Narnia che all’incubo nel quale è ambientato il videogioco, così il Cappellaio Matto, nel film disegnato in modo nettamente più cupo dell’immagine tradizionale, nel videogame diventa una creatura mostruosa ossessionata dal tempo, che Alice deve eliminare.
Allo stesso modo il duello con il Jabberwocky, uno degli scontri finali del videogioco, è anche il fine ultimo della Alice-guerriera del film, dove il combattimento è preceduto da una perfetta cut-scene da videogame ambientata su una scacchiera con schierati gli eserciti del-le due regine, che costruisce la tensione prima della battaglia.3
La vicinanza delle ambientazioni, le premesse simili e l’incedere del plot hanno fatto pensare a molti ad una ripresa voluta dell’im-maginario di American McGee’s Alice, altri ancora hanno gridato al plagio, in particolare i fan più fedeli del videogioco,4 che da anni
at-2 Il gioco, essenzialmente d’azione in terza persona è stato sviluppato da American Mcgee, allora venticinquenne level designer, per la Rogue Entertainment e prodotto da Electronic Arts. Dopo numerosi annunci di una trasposizione cinematografica passata per molti produttori e poi abbandonata, il gioco ha visto la nascita di un suo sequel per pc e console, intitolato Alice: Madness Returns, rilasciato nell’estate del 2011.
3 «Spesso il significato di una cut-scene viene proiettato nel futuro, rafforzando l’importanza diegetica e retorica dell’evento a venire», Rune Klevjer, Per una difesa delle cut-scenes, in Matteo Bittanti (a cura di), Schermi interattivi, Roma, Meltemi, 2008, p. 67
4 Si veda in proposito il dibattito dei fan sul forum blog personale di American McGee, in particolare il topic We can no longer hope for a film adaption... all’indirizzo
tendevano una versione cinematografica spesso annunciata e mai rea-lizzata, resa sostanzialmente inutile dalla versione burtoniana.
Cercata o meno, la vicinanza tra i due testi è l’occasione per esplo-rare nel concreto lo stato dell’arte sui processi di osmosi tra cinema e mondo videoludico, ma soprattutto per osservare con maggiore puntualità ciò che Jullier coglie proprio riguardo all’ Alice di Tim Burton:
Il mondo vittoriano di Lewis Carrol non regge più di fronte al mondo dei videogiochi. E dunque se McLeod e Disney hanno rispettato la len-tezza della caduta voluta da Lewis Carrol, Tim Burton è passato ad una velocità superiore, e noi corriamo nel traveling alla velocità di un X-wing scappato da Star Wars.5
L’idea è che alcuni elementi del film, confrontati con le versione precedenti, segnalino quanto la cultura visuale nell’ultimo mezzo se-colo sia cambiata soprattutto in senso immersivo. Jullier lo fa met-tendo in relazione la rappresentazione della caduta di Alice nell’adat-tamento di Cecil Hepworth del 1903, quella di McLeod del 1933, la versione Disney del 1951 e infine la discesa nella tana del Bianco-niglio del 2010.
In queste quattro versioni si va dalla rappresentazione laterale del-la caduta, simile a queldel-la di un teatro all’italiana, coerente con le convenzioni estetiche del cinema ai suoi inizi, ad un sempre maggiore abbandono da parte dello spettatore della fissità della sua posizione, fino all’ultima, in cui siamo noi a cadere insieme ad Alice, a salire con lei sulla scena.
Un’Alice veloce e invulnerabile come una creatura dei videogiochi che non ha più tempo di fermarsi per bere un tè durante il volo, né viene danneggiata dalla pioggia di oggetti che cadono con lei, ma che ci trascina con sé nella tana.
http://www.americanmcgee.com/forum/index.php?topic=3885.0
5 Laurent Jullier, Alice nel paese dei “traveling”. Immaginario visuale e dispositivi di mediazione ottica, in “Imago. Studi di cinema e media”, Anno II, n. 3, Primo semestre 2011, p. 39.
Proprio come succedeva per la caduta nel videogioco, grande assente nella lettura di Jullier, per quanto evocato: qui la caduta è improvvisa, vertiginosa, velocissima, e il giocatore la vive in prima persona, addirittura lanciato in caduta libera prima ancora di Alice, che lo supera dopo pochi secondi. Anche qui noi precipitiamo con lei in una immersione totale, ben dieci anni prima del film.
Un incontro anche e soprattutto visuale quindi, all’insegna dell’immersività, che non si ferma certo alla rappresentazione della caduta ma che si realizza appieno in un’altra delle peculiarità tecniche del film, e cioè l’integrazione e la combinazione di tecniche di ripresa e animazione diverse: Alice in Wonderland è stato infatti girato inte-ramente in green screen in uno studio virtuale, con gli attori immersi in un contesto interamente ricostruito in CGI (Computer-generated imagery), ma i personaggi stessi sono in realtà degli ibridi a metà tra animazione e live action.
Molti degli attori hanno infatti recitato indossando le tute dotate di sensori del motion capture che, a differenza della tecnologia del-la performance capture, prevede di del-lasciare libero il volto: questo ha consentito di modificare il loro aspetto fisico in post-produzione la-sciando intatta la parte facciale della loro prestazione attoriale, come accade per il Fante di Cuori, la cui statura più alta del normale è stata resa mettendo Crispin Glover su dei trampoli o su una piattaforma sorretta da macchinisti, con una tuta che lascia scoperta solo la te-sta; o per Matt Lucas nella doppia parte dei gemelli Panco Pinco e Pinco Panco, che ha recitato sempre in compagnia di una comparsa, indossando una tuta alla quale è stato sostituito il goffo corpo del personaggio lasciando intatto solo il volto.6
Gli attori diventano così personaggi sospesi tra reale e virtuale, comparabili con i «cloni digitali che popolano la scena del teatro e della danza contemporanei, o, ancor più, con quelli dei videogame di ultima generazione, la cui “vita” è ugualmente frutto di azioni pre-ventivamente acquisite da performer in carne e ossa».7
6 Vedi in proposito l’intervista a Ken Ralston, senior visual effects supervisor di Alice in Hugh Hart, Alice‘s Visual Challenge: Make You Believe “World of Insanity”, in
“Wired”, http://www.wired.com/underwire/2010/03/alice-in-wonderland-visual-effects/, 25 novembre 2012
7 Christian Uva, Impronte digitali, Roma, Bulzoni Editore, 2009, p.15.
Quello di Alice è un set che combina spazi virtuali in green screen, attori in carne ed ossa, personaggi interamente virtuali, pupazzi e oggetti di scena reali da immergere nel mondo animato, il tutto gio-cato fortemente sul tema dell’alterazione delle proporzioni, a partire da quelle della stessa Alice, che cambia di statura scena dopo scena, costringendo i suoi comprimari, così come la regia e la gestione degli effetti speciali, ad un continuo e frenetico cambio di prospettiva.
Una complessità che ha condizionato la produzione anche rispet-to all’uso della stereoscopia: il film infatti non è starispet-to girarispet-to in 3D, ma interamente in 2D e convertito in un secondo momento, facili-tando il lavoro di ripresa e riducendo i problemi legati al cambio di focale lasciando maggiore spazio alle invenzioni di regia.8
Questo ha comportato la necessità di un set più complesso di un tradizionale green screen piatto, che sarebbe risultato insufficiente nella sua versione tridimensionale: lo spazio, per risultare credibile, è stato scomposto in una serie di oggetti, volumi e piani separati che fornissero un appoggio efficace alla successiva costruzione del mondo artificiale.
Il risultato è un prodotto ibrido tra live action, ricostruzioni vir-tuali animate e spazi tridimensionali; un mix di linguaggi diversi che, nelle intenzioni del regista, è funzionale alla resa del ricchissimo mondo descritto da Carrol e che punta ad integrare nella galleria di stranezze del Sottomondo oggetti reali e ambienti digitali, personaggi in carne ed ossa e attori virtuali.
L’utilizzo del 3D, che lo si ritenga riuscito o meno, va nella di-rezione di dare a questi elementi carattere immersivo, nel tentativo di riprodurre la sensazione, propria della protagonista, di trovarsi al centro di un universo sconosciuto e sorprendente, in totale cor-rispondenza con l’estetica videoludica che entra per la prima volta nelle riletture cinematografiche del classico di Carrol, influenzando non solo la gestione degli spazi, ma anche la struttura della trama, che in questo caso punta ad un coinvolgimento maggiore con scene di combattimento e tempi serrati, e l’intensità dell’esperienza dello spettatore.
8 Krystal Clark, Interview: Tim Burton for Alice in Wonderland, in “ScreenCrave”, http://screencrave.com/2010-03-04/interview-tim-burton-for-alice-in-wonderland/, 25 novembre 2012.
Intensità di esperienza che si fonda proprio sulla vicinanza tra il testo filmico e l’universo ludico: l’osservazione di questo specifico caso di studio ci offre infatti un esempio particolarmente lampante di un processo di integrazione tra nuove tecnologie/attrazioni,9 narrazione e ludicizzazione; un’integrazione sintomo di una più generale dinamica di gamification, di osmosi fra racconto e struttura del videogioco che interessa una parte significativa del cinema contemporaneo.
9 Sul rapporto tra nuove tecnologie e sistema delle attrazioni nel cinema contemporaneo si veda in particolare Wanda Strauven, The Cinema of Attractions Reloaded, Amsterdam, Amsterdam University Press, 2006.