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Canabalt, i running game e Space Invaders

di Riccardo Fassone

QWOP è dunque un videogioco sadico, controintuitivo, proget-tato con l’intento evidente di mettere alla prova la pazienza piuttosto che l’abilità del giocatore. Nonostante sia un gioco evidentemente difficile, QWOP non è impossibile. Il videogioco realizzato da Fod-dy può essere finito; anzi, il giocatore non ha alternativa ad un at-traversamento teleologico del videogame, dalla linea di partenza al centesimo metro. In questo senso, sebbene per molti versi QWOP si ponga come esperimento teorico,3 il gioco non è molto diverso da Guitar Hero (Harmonix, 2005): l’unico modo di raggiungere la fine è premere in sequenza una serie di tasti, mantenendo il ritmo imposto dal software. La differenza, se mai, è che QWOP mette a disposizione del giocatore strumenti palesemente inefficaci, sovvertendo di fatto la massima del game designer Richard Rouse III secondo cui:

Your game’s input and output systems are two of the primary factors that determine how steep the learning curve for your game is and whether players will find it intuitive to play. Using the input/output systems you design, players must be able to control and understand the game effort-lessly.4

Insomma, il gioco di Foddy sembra al contempo ricalcare il ca-novaccio di un genere videoludico noto – il rhythm game – e porsi come opera teorica che esplora il complesso rapporto tra il giocatore e l’interfaccia (Fig. 1)

3 Lo stesso Foddy, in un’intervista concessa a Gamasutra, sembra sottolineare ironicamente la natura critica e teorica del proprio lavoro: «I’d like to have an anti-ergonomic game where it’s physically challenging to play the game, and you could say to your friends “I played for three hours, and I had to go to the hospital”».

Brandon Sheffield, The benefits of making your players suffer (and maybe throw up), in “Gamasutra”, http://www.gamasutra.com/view/news/178952/The_benefits_of_

making_your_players_suffer_and_maybe_throw_up.php#.ULgE-KyCDow, 30 novembre 2012.

4 Richard Rouse III, Game Design: Theory and Practice 2nd Edition, Wordware, Plano (TX), Wordware, 2005, p. 131.

Fig. 1

QWOP non è il solo videogioco in cui l’unica azione permessa è la corsa. Canabalt (Adam Saltsman, 2009) è un gioco realizzato nel 2009 da Adam Saltsman. Sviluppato dapprima tramite Flash come browser game, il videogioco è stato successivamente convertito per l’esecuzione su dispositivi portatili dotati di sistemi operativi An-droid e iOS. In Canabalt il giocatore controlla un uomo che fugge da una minaccia sconosciuta, correndo e saltando da una piattaforma all’altra. L’unica azione concessa al giocatore è il salto, eseguito pre-mendo la barra spaziatrice o toccando lo schermo di un dispositivo touch, mentre la corsa del protagonista di Canabalt è ininterrotta e ineluttabile; non è possibile fermare né rallentare il movimento del proprio avatar (Fig. 2).

fig. 2

Da un lato QWOP, la cui interfaccia è volutamente complessa e scarsamente ergonomica, dall’altro Canabalt, la cui proceduralità è, per così dire, di grado zero: un solo tasto corrisponde a una sola azione possibile. Due running game che, al di là del comune tema del correre, non potrebbero essere più distanti. Ma non è solo la tensione tra problematizzazione dell’interfaccia e sua minimizzazione a fare di QWOP e Canabalt due giochi che tematizzano la corsa in modo diametralmente opposto. Se, come detto, QWOP – in modo non dis-simile da Dragon’s Lair (Advanced Microcomputer Systems, 1983) o Double Dragon (Taito, 1987)– prevede un attraversamento orientato e teleologico del testo ergodico, Canabalt non può essere finito.5 O, meglio, ogni sessione di gioco di Canabalt si conclude inevitabilmen-te con la morinevitabilmen-te dell’avatar e la necessità del giocatore di riprendere da capo il gioco. Canabalt, insomma, è un gioco che prevede, in ogni caso, la vittoria della macchina.

5 In questa sede può essere interessante notare come l’italiano utilizzi per lo più il termine “finire” per indicare il raggiungimento del termine di un videogioco, mentre l’inglese preferisca l’espressione “to beat the game”, “sconfiggere il gioco”.

Tale differenza evidenzia in modo eccezionalmente chiaro la tensione tra un’idea testuale del videogioco (che è dunque un oggetto che può essere percorso da cima a fondo e “finito”) e un’idea “agonistica” del medium.

Al contrario di QWOP, Canabalt sembra rappresentare l’atto fon-dativo di un genere6 di running game che potremmo dire minimali, che prevedono un’agency notevolmente limitata e l’impossibilità di finire (o sconfiggere) il gioco. Canabalt e la sua discendenza rappre-sentano una classe di oggetti videoludici peculiari, la cui analisi può mettere in luce alcune caratteristiche del videogiocare contempora-neo e, al contempo, permette di tracciare un percorso diacronico che lega casual e arcade gaming. La nozione di videogioco imbattibile (o in-finibile) non è certo inaudita nella storia del medium. In questo senso, anzi, l’impossibilità di sconfiggere la macchina sembra essere il principale trait d’union tra il flipper e il videogioco nell’avvicenda-mento tra i due oggetti ludici nelle sale giochi nel corso degli anni Settanta. Il progettatore di flipper della Atari Eugene Jarvis, a partire da giochi come Space Invaders (Taito, 1978), nei quali il giocatore non può fare altro che resistere fino all’inevitabile sconfitta, sottolinea questa continuità in un’intervista concessa a Tristan Donovan:

I was a real pinball fanatic, but when Space Invaders came out I knew the future was in video games. […] I was instantly addicted by the possi-bilities of computer intelligence applied to video games. This was a huge advance from the first generation of “dumb” games like Pong, which relied solely on the intelligence of human players.7

La dichiarazione di Jarvis mette in luce una caratteristica fonda-mentale di molti videogiochi imbattibili, da Space Invaders a Cana-balt. Il software non si occupa soltanto di creare un mondo nel quale vigono regole alle quali è impossibile sottrarsi – in QWOP, ad esem-pio, non è possibile camminare al contrario o volare – ma produce anche un movimento di mondo autonomo, ineluttabile e antagonista rispetto al giocatore. I giochi imbattibili che invadono le sale arcade8 sono, dunque, riprendendo le parole di Jarvis, i primi giochi non

6 Giochi come Robot Unicorn Attack (Adult Swim, 2010) o Bit.Trip Runner (Aksys, 2010) sono sostanzialmente cloni del gioco di Saltsman.

7 Tristan Donovan, Replay. The History of Video Games, Yellow Ant, Lewes, 2010, p. 77.

8 Altri esempi noti, oltre a Space Invaders, sono Galaga (Namco, 1981) e Pac-Man (Namco, 1980).

«dumb», i primi esempi videoludici di antagonismo tra giocatore e macchina. In questo senso, l’impossibilità di portare a termine una partita di Canabalt senza causare la morte del proprio avatar costitu-isce un legame evidente tra il videogioco di Saltsman e una categoria di videogiochi arcade scarsamente rappresentata nell’ambito dell’in-trattenimento videoludico casalingo. In questo senso Canabalt, e con esso il genere dei running game “minimali”, sembrano attuare rispetto a una forma videoludica per certi versi dimenticata quello che Mar-shall ed Eric McLuhan definiscono un’operazione di retrieval, per cui

«[an] older, previously obsolesced ground is brought back».9 Tuttavia, Canabalt non si limita a riportare alla luce una forma videoludica obsolescente.

In Laws of Media, a poche pagine di distanza dalla citazione pre-cedente, gli autori precisano che:

Retrieval is not simply a matter of hauling the old thing back onto sta-ge, holus-bolus. Some translation or metamorphosis is necessary to place it into relation to the new ground – as anyone can testify who has expe-rienced “revivals” in our culture, whether in music or fashion or any other form. The old thing is brought up to date, as it were. 10

In questo senso, il rapporto tra Canabalt e i suoi predecessori arca-de sembra esemplificare chiaramente la dinamica arca-del retrieval indicata da Marshall ed Eric McLuhan. Uno dei motivi principali della dif-fusione di videogiochi imbattibili nelle sale giochi sembra legato alle specifiche forme di fruizione del gioco nelle arcade. Il design di Space Invaders, in cui la velocità di spostamento degli alieni aumenta in modo parossistico fino allinevitabile sconfitta del giocatore, soddisfa due requisiti fondamentali della logica economica delle sale giochi.

Da un lato, in virtù della rapida escalation della difficoltà del gioco, una partita è generalmente piuttosto breve; tale dinamica permette di fatto un rapido avvicendamento dei giocatori e di conseguenza

9 Eric & Marshall McLuhan, Laws of Media. The New Science, University of Toronto Press, Toronto, 1988, p. 99.

10 Ivi, p. 101.

un maggiore introito di denaro. Dall’altro, sebbene si tratti di un gioco senza una fine, Space Invaders non è un gioco senza un fine. La competizione tra i giocatori – prerogativa dei giochi “dumb” come Pong – non è annullata, ma solo differita; l’inserimento all’interno del software di una classifica delle migliori prestazioni rappresenta di fatto un adattamento del gioco al proprio contesto di fruizione. Ogni giocatore può visualizzare i risultati di chi lo ha preceduto – di pochi minuti o di giorni – e giocare “contro” il detentore del miglior pun-teggio. I giochi imbattibili, come Space Invaders, insomma, sembrano essere perfettamente adatti al proprio habitat arcade: massimizzano la rendita e forniscono ai giocatori un ottimo motivo per reiterare la propria esperienza di gioco anche, e soprattutto, in virtù dell’assenza di una teleologia definita. Il gioco non finisce mai, e dunque può essere giocato per sempre.

In che modo Canabalt, utilizza le caratteristiche mutuate da Spa-ce Invaders e dai suoi molti epigoni nell’ambito di un mcluhaniano

“new ground”? La riflessione riguardante l’utilizzo di una classifica è, per certi versi, la meno complessa. Le versioni per iOS e Android del gioco prevedono la possibilità di visualizzare sia i risultati degli utenti con i quali si è collegati (ad esempio tramite il Game Center di iOS) che le migliori performance globali. In questo senso, la dinamica di competizione “in differita” non sembra molto distante da quella im-piegata nell’ambito delle sale arcade. Si gioca contro il gioco – sapen-do di perdere – e, al contempo, contro gli altri utenti, nella speranza di batterli. D’altra parte, la metafora implicita in servizi come Game Center sembra essere proprio quella della sala giochi di quartiere: un luogo in cui accedere a diversi giochi e in cui misurarsi con gli amici contattati tramite il servizio. Meno immediato, e forse più comples-so, è il processo di riutilizzo delle dinamiche prettamente ludiche dei giochi arcade all’interno di Canabalt. Anche nel caso del videogioco di Saltsman, la progressione del gioco, il movimento di mondo in atto è parossistico. L’avatar corre sempre più veloce, fino a raggiungere una velocità massima che gli permette di eseguire salti più lunghi, ma che lo sottopone a maggior rischio di cadute. Il risultato è che, nella maggior parte dei casi, una partita a Canabalt dura poche decine di secondi. La morte in Canabalt non è solo un’evenienza inevitabile ma

addirittura frequente. In questo senso, Canabalt – proprio come Spa-ce Invaders – sembra adattarsi perfettamente al contesto entro il quale viene utilizzato. Se il videogioco della Taito era progettato per otti-mizzare l’alternanza dei giocatori (e quindi l’inserimento di monete), Canabalt prevede un’integrazione pressoché perfetta con i dispositivi portatili su cui è giocato. L’antropologa americana Sherry Turkle ha coniato la felice espressione «alchimia del tempo»11 per descrivere le dinamiche di interazione degli utenti con i propri dispositivi portati-li. Secondo Turkle, l’utilizzo di uno smartphone o di un tablet presup-pone la capacità di agire in multitasking, alternando tra interazione sociale de visu e utilizzo del dispositivo tecnologico. In questo senso, i giochi pensati per questo genere di piattaforme devono adattarsi alla natura essenzialmente interstiziale dell’utilizzo dei device portatili. Il parossismo e la brevità di Canabalt rappresentano in questo senso un tentativo di adattamento di una forma videoludica antica al «new ground» dell’intrattenimento mobile e della sua inevitabile natura frammentaria.

I running game, sorta di grado zero dell’interazione videoludica – in fondo non si deve fare altro che correre –, sembrano rappresentare sineddoticamente uno spettro più ampio di forme del videogioco.

A un estremo dello spettro, QWOP propone una teleologia rigida, in cui l’obiettivo è finire il gioco attraverso un addestramento este-nuante che porta il giocatore ad adattarsi alla perversione dell’inter-faccia; all’altro estremo, Canabalt, negando al giocatore la possibilità di sconfiggere la macchina propone un’esperienza interstiziale e so-cialmente connessa. In mezzo, una galassia di running game che è possibile collocare in diversi punti di un asse che, pur descrivendo la traiettoria di un genere tutto sommato marginale, sembra raccogliere in sé una serie di tensioni intrinseche al medium videoludico

11 Sherry Turkle, Insieme ma soli. Perché ci aspettiamo sempre più dalla tecnologia e sempre meno dagli altri, Torino, Codice, Torino, 2012, pp. 207-218.

Aarseth, Espen J., 21, 115, 116, 175

Bittanti Matteo, 61, 90, 94, 114, 120, 154, 156, 177

Caillois, Roger, 71, 157, 175, 185 Cameron, James, 16, 49, 53, 54, 56, Canova, Gianni, 60, 63, 7865

Cappuccio Massimiliano, 67 Capucci Pier Luigi, 79

Carbone, Marco Benoît, 65, 81, 154 Caronia, Antonio, 67, 79 Castells, Manuel, 141, 146, 173, 174