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alla solidarietà educativa

Nel documento 7marzo 2014 anno XXXI (pagine 40-43)

Per approfondire il significato della di-mensione dialogica e verbale-comuni-cativa in educazione è utile dedicare ora l’attenzione alle feconde intuizioni sul si-gnificato della parola e del dialogo nei processi educativi e di apprendimento che sono state sviluppate in tempi più recenti, soprattutto all’interno del co-siddetto pensiero dialogico

novecente-1. H.G. Gadamer, Verità e metodo (1960), tr. it. di G. Vat-timo, Bompiani, Milano 1997.

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sco. Se già nelle opere di Ferdinand Eb-ner è possibile trovare una significativa sottolineatura dell’importanza pedago-gica della relazione Io-Tu, nonché della parola come possibilità di guarigione dalla malattia/chiusura dell’Io e di aper-tura a un’autentica esperienza di inte-razione personale2, è in particolare negli scritti di Martin Buber che si sviluppa una più ampia ed esplicita riflessione sulla relazione educativa e sul ruolo che in essa gioca la dimensione della libertà. Con Buber si realizza un’effettiva risco-perta dell’interazione dialogica in pe-dagogia, si rende in certo modo visibile la reazione finale e più radicale all’ampia traiettoria filosofico-culturale e al tempo stesso politico-sociale che, a partire da Cartesio e nel corso dell’intero pensiero moderno, ha reso l’individualità della coscienza (paradigma monologico) il criterio ultimo di ogni possibile cono-scenza e sapere. A tale concezione an-tropologica il filosofo ebreo contrap-pone un paradigma dialogico e comunicativo capace di rendere conto della realtà sociale dell’uomo (senza ri-durla al collettivismo marxista) e al tempo stesso del carattere intersogget-tivo del logos.

Profondamente segnato dalle inquietu-dini esistenziali e culturali del primo No-vecento, Buber si sofferma a descrivere la condizione di crisi dell’uomo mo-derno, una condizione generata da un’accresciuta consapevolezza della propria problematicità e al contempo da una coscienza sempre maggiore della propria incerta posizione all’in-terno del cosmo3.

Nell’epoca contemporanea l’uomo è ar-rivato a percepirsi, rispetto alla grande moltitudine degli altri viventi, come l’unico essere heimatlos, senza patria, senza casa, l’unico che comprende se stesso come spaesato e sradicato. E tale situazione non ha soltanto ragioni di tipo

naturale, legate alla sua “carente” dota-zione organico-biologica – come am-piamente sostenuto, in quegli stessi anni, da diversi autori riconducibili all’antro-pologia filosofica tedesca –, ma è al tempo stesso l’esito estremo di una pa-rabola culturale che ha portato l’uomo a perdere definitivamente se stesso. Egli si è perso nell’individualismo moderno, come anche nella sua reazione estrema, il collettivismo; divenuto vittima delle sue stesse produzioni, smarrito nel suo stesso tecnicismo, si trova esposto a un mondo ormai estraneo. In ideale conti-nuità con alcune delle pagine più signi-ficative di Günther Anders (Stern), Bu-ber rinviene nell’uomo moderno una condizione di estraneità rispetto al mondo (Weltfremdheit), un distacco e un allontanamento che arrivano parados-salmente a renderlo «antiquato» rispetto a quanto egli stesso ha creato e prodotto con la tecnica4.

Se l’uomo si trova dunque in questa con-dizione di sradicamento e di solitudine, di assenza di contatto e di “familiarità” con se stesso, con gli altri e con il mondo in quanto tale, com’è possibile uscire da tale situazione di crisi, qual è il centro di un’azione educativa che possa insegnare a vivere nel presente? È qui che Buber sembra individuare il potenziale peda-gogico del suo tempo, sostenendo che proprio tale condizione di maggiore consapevolezza e problematicità può di-ventare l’occasione per una nuova co-noscenza dell’uomo stesso. Dato che la possibilità di conoscere l’uomo presup-pone un preliminare spazio di raccogli-mento e di conoscenza di sé, quale ne-cessità stessa per aprirsi all’altro, «dal momento che la profondità del pro-blema si rivela soltanto a colui che è di-ventato “solitario”, il cammino verso la ri-sposta è segnato nell’uomo che riesce a superare la sua solitudine senza per-derne la virtù problematizzante»5.

Soltanto l’uomo che è davvero solitario, può superare la propria solitudine senza dimenticare le domande, le inquietu-dini che da essa sono sorte. La condi-zione di spaesamento dell’uomo mo-derno può dunque rovesciarsi in possibilità di nuovo radicamento, la con-dizione di incertezza rispetto a se stesso può diventare occasione di nuova co-noscenza di sé. Tutto ciò, all’interno del-l’antropologia pedagogica di Buber,

si-William Blake, Socrates, a Visionary Head (ca 1820), New Haven (Connecticut), Yale Center for British Art.

2. F. Ebner, La parola e le realtà spirituali. Frammenti

pneu-matologici (1921), tr. it. di P. Renner, San Paolo, Cinisello

Balsamo 1998.

3. M. Buber, Il problema dell’uomo (1943), tr. it. di F. Sante Pignagnoli, Marietti, Milano 2004.

4. Cfr. G. Anders, La natura dell’esistenza.

Un’interpreta-zione dell’aposteriori (1934-1935) e Patologia della li-bertà. Saggio sulla non-identificazione (1936-1937), in Id., Patologia della libertà. Saggio sulla non-identificazione,

tr. it. di F. Fistetti e A. Scricchiola, Palomar, Bari 1993, pp. 29-51, 53-96, due interventi in certo modo programma-tici rispetto al più noto volume L’uomo è antiquato (1956-1980), tr. it. di M.A. Mori e L. Dallapiccola, Bollati Boringhieri, Torino 2003, 2 voll.

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gnifica che l’epoca contemporanea di-venta il tempo in cui l’uomo può dav-vero riconoscere la centralità, da un punto di vista ontologico-esistenziale, della relazione con l’altro, dello scam-bio Io-Tu: egli, infatti, si costituisce, cre-sce, si forma come persona soltanto nel «tra» (zwischen) della relazione e del dia-logo. La condizione di solitudine del-l’uomo moderno non viene annullata, ma piuttosto attraversata e superata nello spazio della relazione interperso-nale (il «Noi»), del riconoscimento, in cui il singolo diventa un io per un tu o un tu per un io.

Da questa prospettiva Buber critica le teorie dell’educazione del passato, fon-date sulla dimensione oggettiva e sul-l’autorità del sapere, sulla costrizione e sulla conformazione degli allievi, in quanto esse avrebbero portato a una situazione di isolamento educativo, dove il discente verrebbe schiacciato da un metodo d’insegnamento mera-mente trasmissivo e vedrebbe soffocare il proprio bisogno di libertà. In questa prospettiva il maestro non incontra dav-vero l’allievo, e nemmeno viceversa. Ep-pure, dal punto di vista di Buber, altret-tanto problematici sono gli esiti rinvenibili nella pedagogia moderna, nelle nuove teorie dell’educazione e nella loro forte istanza di recupero della libertà di chi apprende. Per contrappo-sizione alle precedenti posizioni ora vengono valorizzate la dimensione sog-gettiva e la libertà incondizionata nel-l’apprendimento, vengono portate in primo piano la liberazione degli istinti, la spontaneità e l’immediatezza delle forze creative degli allievi6. Anche in questo caso, però, secondo Buber, il maestro non stabilisce un vero contatto educa-tivo con il discente. La volontà di lasciare libero spazio alle istanze creative è in-fatti sufficiente per stabilire un legame davvero educante? Così scrive Buber:

Un’educazione fondata solo sulla forma-zione dell’istinto della creatività prepare-rebbe una nuova, dolorosissima solitudine dell’uomo. Nel produrre delle cose il bambino impara molte cose che altrimenti non potrebbe imparare. Fa-cendo una cosa ne impara la possibilità, la struttura e la coesione in un modo che non potrebbe mai capire se si limitasse ad osservarla. Ma così non si impara qual-cos’altro, e questo qualcos’altro è il via-tico della vita. S’impara dall’interno l’essere oggetto del mondo, ma non il suo essere soggetto, non il suo dire io, e quindi nemmeno il suo dire tu. Ciò che ci conduce all’esperienza del dire tu non è più l’istinto della creatività, ma quello della solidarietà7.

Implementare la libertà del singolo è un passaggio pedagogicamente fonda-mentale, ma non basta a costituire nella sua piena complessità l’esperienza edu-cativa, se il discente non viene accom-pagnato nel suo percorso di crescita at-traverso esperienze di solidarietà con l’altro.

Solo quando qualcuno lo prenderà per mano, non come un “creatore”, ma come una delle creature sperdute nel mondo, per essergli compagno, amico, amante, al di là dell’arte, diverrà consapevole e par-tecipe della reciprocità […]. L’istinto della creatività, abbandonato a se stesso, non conduce, non può condurre a due for-mazioni indispensabili per la costruzione di una vera vita umana: a partecipare a una causa e ad accedere alla reciprocità8.

La libertà nell’insegnamento e nell’ap-prendimento deve pertanto procedere di pari passo con la continua imple-mentazione di una dialettica dialogica tra chi insegna e chi apprende: «il rap-porto educativo è un raprap-porto pura-mente dialogico»9. Per Buber la libertà non è sufficiente, occorre affermare an-che il principio della solidarietà

educa-tiva. Il che vuol dire che l’insegnamento,

quale primaria esperienza liberante, deve al tempo stesso andare a colmare

la condizione di solitudine dell’allievo e deve far sì che possa compiersi un mo-vimento di comunicazione dialogica con l’intera persona (mentre la maieu-tica socramaieu-tica andava a interpellare sol-tanto l’intelligenza). L’insegnante di-venta davvero educatore quando crea

reciprocità con chi gli sta di fronte; ne

permette la crescita solo nell’incontro, quando si senta egli stesso aperto, unito, solidalmente coinvolto10.

Il passaggio dal principio della libertà a quello della solidarietà educativa im-plica il ripensamento dell’insegnamento in termini di sintonia educatore-edu-cando, mettendo in primo piano l’effet-tivo “essere in dialogo” dell’insegnante, chiamato a fuoriuscire da una condi-zione di distaccata neutralità, a parteci-pare alla vita degli allievi e, soprattutto, ad accettare la responsabilità che de-riva dalla relazione educativa. Ripren-dendo una suggestiva indicazione dello stesso Buber, l’educatore dialogico può essere ben descritto attraverso l’imma-gine di «un dito che accenna», di «uno sguardo interrogativo»11: senza intro-missioni né invadenze, non dà ordini né abbandona, ma crea e favorisce spazi di relazione interpersonale in cui possa ar-rivare egli stesso a manifestarsi nella pienezza del proprio essere e al con-tempo restare in un’attesa piena di sol-lecitudine di fronte al possibile sviluppo dell’allievo.

Edoardo Simonotti Università di Genova

6. Cfr. M. Buber, Sull’educativo (1926), in Id., Il principio

dialogico e altri saggi, tr. it. di A.M. Pastore, San Paolo,

Ci-nisello Balsamo 1993, pp. 161-172. 7. Ibi, p. 166.

8. Ibi, pp. 165-166. 9. Ibi, p. 177.

10. In merito a queste dense pagine buberiane si veda in particolare G. Chiosso, Novecento pedagogico. Profilo

delle teorie educative contemporanee, La Scuola, Brescia

1997, pp. 334-338.

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