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Il Don Giovanni

Nel documento 7marzo 2014 anno XXXI (pagine 69-73)

Il dissoluto punito o sia Il Don Giovanni fu rappresentato per la prima volta a Praga il 29 ottobre 1787, con enorme successo. Com’è noto, le storie rappre-sentate a teatro consistono spesso in una rielaborazione di storie precedenti: Mozart innalzò nel pantheon dei miti della modernità un soggetto teatrale che girava già da un paio di secoli e che aveva due antecedenti di grande rilievo nel teatro di parola: El burlador de Se-villa y convidado de piedra di Tirso de Molina (1630) e Dom Juan ou Le festin de pierre, prima commedia in prosa di Molière (1665). Alquanto meno illustre l’atto unico il Don Giovanni o sia Il con-vitato di pietra di Giovanni Bertati e Giuseppe Gazzaniga (rispettivamente librettista e musicista); esso tuttavia, rappresentato a Venezia solo pochi mesi prima durante il carnevale 1787, fu cer-tamente la fonte diretta di Da Ponte. Il brano più noto del Don Giovanni è il duettino tra Don Giovanni (voce di basso) e Zerlina (soprano) «Là ci darem la mano», nell’atto I. Il duetto d’amore (“duettino”, com’è intuitivo, è un duetto più breve) è un luogo classico del me-lodramma. La situazione è presto detta: Don Giovanni, «giovane cavaliere estre-mamente licenzioso» (così viene pre-sentato nell’elenco dei personaggi), vaga randagio in perenne ricerca di av-venture amorose e s’imbatte in un gruppo di contadini, tra i quali i pro-messi sposi Zerlina e Masetto. Libera-tosi di quest’ultimo a suon di minacce, Don Giovanni si fa avanti con Zerlina promettendole un matrimonio ben più fortunato, e indicandole un luogo dove appartarsi.

Questo il testo di da Ponte (atto I, scena 9); il lettore potrà seguirlo con l’ausilio di una registrazione audio o video, or-mai accessibile a chiunque e in qualun-que momento grazie a youtube:

Don G. Là ci darem la mano, là mi dirai di sì; vedi, non è lontano, partiam, ben mio, da qui.

Zer. Vorrei, e non vorrei, mi trema un poco il cor; felice, è ver, sarei, ma può burlarmi ancor.

Don G. Vieni, mio bel diletto.

Zer. Mi fa pietà Masetto.

Don G. Io cangerò tua sorte.

Zer. Presto, non son più forte.

a 2 Andiam, andiam mio bene a ristorar le pene

d’un innocente amor.

Vanno verso il casino di D. Gio. abbrac-ciati etc.

Da Ponte impiega versi d’una mede-sima lunghezza, i settenari; i due per-sonaggi hanno una quartina ciascuno, poi un verso a testa per un totale di quattro (dunque un’altra quartina), in-fine una terzina a 2, predisposta cioè per il canto simultaneo; una

prescri-zione, questa, tipica del genere “libretto per musica”: evidentemente non avrebbe senso in un testo destinato ad essere recitato piuttosto che cantato. L’assetto metrico è connesso col signi-ficato drammatico: un effetto di “strin-gendo”, si direbbe. Fisicamente separati all’inizio (parole diverse), si avvicinano sempre di più (sticomitia) e finiscono abbracciati (stesse parole). Si noti anche l’insinuante etc. che Da Ponte scrive in coda alla didascalia, una falsa reticenza pudica, che è invero una scaltra sottoli-neatura: lo spettatore può facilmente immaginare cosa stanno per fare i due novelli amanti (invero un istante dopo saranno bruscamente interrotti nei loro propositi).

Se Don Giovanni è deciso e sa quel che vuole sin da subito («Là mi dirai di sì»), Zerlina sembra inizialmente indecisa («vorrei e non vorrei»), non tanto dal pensiero di tradire Masetto, quanto dal rischio di essere ingannata dal bel ca-valiere. Tanto più che non è chiaro a chi Zerlina rivolga la sua prima quartina. Se Don Giovanni è l’unico personaggio lì presente, è anche vero che l’uso della terza persona («può burlarmi») fa

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sumere che ella stia parlando a sé stessa, cioè che le sue parole siano un pensiero ad alta voce; il che succede spesso nel melodramma: ma in questi casi il li-brettista lo specifica all’attore/cantante non meno che al lettore/spettatore, in-dicando la didascalia tra sé oppure scri-vendo i versi relativi tra parentesi. Qui Da Ponte però non lo fa. Ma Don Gio-vanni sa insistere: «io cangerò tua sorte» è evidentemente l’argomento decisivo, che supera la «pietà» provata da Zerlina per Masetto. Dichiarata la sua debo-lezza («non son più forte», con l’ultima parola che rima, non a caso, con «sorte»), Zerlina cede, e si avvolge nelle braccia e nel canto con il cavaliere. E la musica? Mozart amplifica, coi mezzi del compositore, il senso di pro-gressivo avvicinamento della scena. E lo

fa anche assecondando le risorse della metrica italiana: poesia e musica qui contribuiscono a rappresentare in modo sensibile il diverso atteggiamento iniziale di Don Giovanni e Zerlina, con lui che parte in quarta e lei che ondeg-gia, e la comunanza di intenti conclu-siva. Il settenario è un verso flessibile quanto alla posizione degli accenti, tranne quello sulla penultima sillaba metrica, obbligatorio come in tutti i versi italiani. I primi versi di Don Gio-vanni recano l’accento sistematica-mente sulla prima sillaba (Là; vé-di), quelli di Zerlina sulla seconda (vor-ré-i, mi tré-ma, fe-lí-ce). Ciò ha un preciso riscontro nella partitura di Mozart, e quindi all’ascolto (cfr. qui l’esempio 1): accento musicale e accento verbale ven-gono a coincidere.

Don Giovanni attacca sempre “in bat-tere”, cioè sul primo tempo, forte, della battuta musicale; Zerlina, pur ripetendo la stessa melodia, la canta “in levare”, cioè cominciando sul tempo debole; fe-nomeno che può rilevare visivamente anche un non esperto di musica osser-vando nell’esempio che la prima nota di Don Giovanni, sul Là, è posta subito dopo la stanghetta (tempo forte, ap-punto), mentre la prima nota di Zer-lina, su Vor-, è posta subito prima di essa (tempo debole). È da notare che nella teoria musicale il ritmo in battere viene definito “ritmo maschile”, quello in le-vare “ritmo femminile”: e nessun altro esempio può essere più pertinente. Dun-que un elemento della poesia si associa al suo analogo musicale al fine di assicurare un comune effetto drammatico. Ulteriore conferma della partenza in quarta di Don Giovanni è il suo attacco insieme all’orchestra, senza che questa lo preceda con un breve preludio, o con un’anticipazione del tema, come avviene spesso nelle opere. Il tono generale, cui contribuisce sia la melodia vocale, sia l’accompagnamento strumentale, è amabile e suadente, come se fosse una serenata: ed è il tono appunto scelto da Don Giovanni, che Zerlina accoglie e rilancia. È un capolavoro di psicologia teatrale: Don Giovanni sa che, in quanto cavaliere che corteggia una contadina, arriverà in modo più rapido e sicuro al proprio fine adottando un tono cavalle-resco, trattandola come una sua pari. E infatti: si noti all’ascolto come «Pre-sto, non son più forte» venga ripetuto più volte in musica, con un andamento discendente della melodia: Zerlina è sempre più insicura di sé e sta cedendo. E niente è più efficace nel rappresentare la sua definitiva resa quanto l’attacco della terzina a 2 con Don Giovanni: ora sono insieme in tutto e per tutto, e la musica li avvolge in un abbraccio, su un

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Il testo di da Ponte prefigura un’aria di Donna Elvira, cui segue un recitativo di Don Giovanni e del suo servo Lepo-rello (basso buffo). Giova ricordare che il Don Giovanni, come tutte le opere del Settecento, è un’opera a ‘numeri’ o pezzi chiusi: con questi ultimi si inten-dono le arie (pezzi solistici), o i duetti terzetti quartetti ecc., collegati tra loro dal cosiddetto “recitativo”; quest’ultimo è la modalità di elocuzione intonata più

prossima al parlato; nei pezzi chiusi suona l’intera orchestra, nei recitativi solo i pochissimi strumentisti che com-pongono il cosiddetto “basso continuo”. L’aria di Donna Elvira consta di due quartine di settenari (versi lirici), con schema di rime axax byby; indi ab-biamo un settenario e due endecasillabi per Don Giovanni e un endecasillabo per Leporello (versi sciolti, gli ultimi due a rima baciata). Dunque, il lettore del libretto vede prefigurata una chiara segmentazione, metrica e drammatica: dal punto di vista di da Ponte Donna Elvira dovrebbe cantare la sua aria e solo dopo di essa dovrebbero intervenire Don Giovanni e Leporello. Ma non è così nell’intonazione di Mozart. La situazione è questa. Nel recitativo che precede l’aria, Don Giovanni ha sentito arrivare una donna e, non aven-dola riconosciuta, si è nascosto, insieme a Leporello. Donna Elvira, una delle in-numerevoli donne da lui sedotte e ab-bandonate, sfoga a sé stessa, ovvero allo spettatore, la sua ira e la sua frustra-zione. A parole, vuole fare a pezzi l’em-pio seduttore, a sua insaputa lì vicino in osservazione. Ma solo a parole. Mozart, ritmo caratteristico di giga, cioè di una

danza stilizzata spesso associata nella musica del tempo all’idillio arcadico. Non sempre musica e poesia si sposano felicemente, come nel caso appena esa-minato. O meglio, altrove Mozart sem-bra alterare, ovvero rifigurare, tanto la forma metrica quanto il senso del testo poetico predispostogli dal librettista. Sempre dal Don Giovanni, riporto qui il testo dell’aria di Donna Elvira (soprano), n. 3 della partitura, atto I scena 5.

Donna Elv. Ah chi mi dice mai

quel barbaro dov’è, che per mio scorno amai, che mi mancò di fé? Ah se ritrovo l’empio e a me non torna ancor, vo’ farne orrendo scempio, gli vo’ cavar il cor.

Don G. Udisti: qualche bella dal vago abbandonata?

Poverina! Cerchiam di consolare il

suo tormento.

Lep. Così ne consolò mille e ottocento.

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attraverso la musica, sembra suggerire qualcosa di diverso: che se Don Gio-vanni le riaprisse le sue braccia, ella ci tornerebbe di corsa.

Infatti, contrariamente a quanto ab-biamo visto nel duettino tra Don Gio-vanni e Zerlina, nell’aria di Donna El-vira è l’orchestra a partire prima della voce, ed è essa a dare un’impronta e un carattere peculiare a tutto il pezzo. Un carattere da opera comica: Mozart, cioè, attraverso l’orchestra, sembra preventi-vamente non prendere sul serio le

mi-nacce di Donna Elvira. Inoltre, il com-positore sembra voler creare un contra-sto tra il tono scherzoso dell’orchestra e il canto irrequieto, quasi isterico, di Donna Elvira, che scaglia fulmini e sa-ette musicali contro il traditore. Si badi nell’ascolto alle parole «vo’ farne or-rendo scempio» e poi a «gli vo’ cavar il cor», ripetute più volte ed enfatizzate dal canto, che procede per ampi sbalzi dal registro grave all’acuto (e viceversa); e inoltre si faccia caso poco prima della fine, alle ultime due ripetizioni di

«ca-vare il cor», alle tante note scritte da Mozart sulla sillaba -va: in termini tec-nici, un’ampia “coloratura”, che con-tiene la nota più acuta (e quindi più en-fatica) di Donna Elvira, il Si4 bemolle. Una scrittura vocale come questa con-sente all’interprete di rappresentare in musica il sentimento d’ira del perso-naggio, e insieme di dar sfoggio della propria valentìa tecnica: due aspetti che devono convivere nel melodramma, come in qualsiasi arte performativa. Ma un dato ancora più macroscopico si svela all’ascoltatore dell’aria di Donna Elvira: Mozart fa intervenire Don Gio-vanni e Leporello, con i loro commenti ribaldi e irrispettosi, all’interno dell’aria, non dopo di essa, come suggerito dal te-sto di da Ponte. Un effetto comico e nel contempo quasi un insulto per la po-vera donna Elvira, non presa sul serio da nessuno: da Don Giovanni e Lepo-rello, e dal compositore, che regge le fila e tutto governa. Dunque, rispetto al precedente, un esempio per certi versi di segno opposto quanto al rapporto poesia/musica; in comune, la finezza d’esegesi del testo verbale italiano da parte dell’austriaco Mozart.

Saverio Lamacchia Università di Udine

BIBLIOGRAFIA

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