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Alternative al cognitivismo: dall’embodiment all’enattivismo radicale

5 2 I tre loci della relatività linguistica

5.3 Modelli non-standard della cognizione: l’embodiment 1 Neowhorfianesimo e cognitivismo

5.3.2 Alternative al cognitivismo: dall’embodiment all’enattivismo radicale

Uno dei modi in cui si può presentare il significato del concetto di embodiment è ‘negativo’, sulla base di quanto esposto finora. Le caratteristiche (descritte dal punto di vista di chi non è d’accordo, beninteso) del cognitivismo novecentesco sono, come abbiamo già visto, l’eccessiva astrattezza delle varie concezioni di che cos’è e cosa fa una mente: per usare un’immagine, il fatto che la scienza cognitiva classica abbia insistito nel paragonare senza porsi troppi scrupoli la mente a una macchina fa intuire in maniera molto chiara che la presupposizione è che si possa studiarne il funzionamento senza fare il minimo riferimento al corpo biologico97.

Altri, invece, con gradazioni diverse di impegno teorico sul punto, ritengono che dal corpo dei pensanti non si possa affatto prescindere. Corpo, parlando generalmente, significa sensazione (o ‘percezione’), ma anche movimento, come pure affettività (ed ‘emozione’) e, a un livello più ampio, intersoggettività. Lasciando entrare, per così dire, la corporeità nelle teorie della mente, non può che modificarsi anche la concezione stessa della mente: uno dei temi più dibattuti è infatti “dove” sia la mente. Il cognitivismo è infatti legato all’“intracranialismo” (Adams e Aizawa 2008), ovvero l’idea che ciò che è mentale abbia luogo nella testa, cioè nel/attraverso il/grazie al cervello.

Le obiezioni a queste e altre assunzioni hanno preso diverse forme nel corso del tempo, che sono state raccolte sotto un nome-

97 “Il cognitivismo provava a comprendere l’intelligenza in termini di produzione, trasformazione e manipolazione di stati interni che rappresentavano proprietà del dominio con cui il pensante stava cercando di avere a che fare” (Ward et al. 2017, pp. 365-366).

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ombrello ormai piuttosto diffuso: 4E Cognition, dove le ‘E’ stanno rispettivamente per embodied, embedded, extended, enactive. Per chiarezza, questi aggettivi non rappresentano separazioni disciplinari nette, anche se è vero che i vari studiosi e le varie studiose appartenenti all’uno o all’altra etichetta in effetti non condividono le stesse opinioni su molte cose (ad esempio, molti enattivisti sono contrari ad alcune posizioni-chiave della mente estesa). Tuttavia, quanto hanno in comune è evidentemente più importante di quanto, a un esame più approfondito, non condividono. La comunanza, appunto, gira intorno all’opposizione alle “visioni internaliste e cerebrocentriche del cognitivismo (Newen et al. 2018, p. 4).

Il tratto comune, come dicevo, è quello di un ‘allargamento’ negli oggetti e nelle metodologie dello studio scientifico degli esseri umani, che punta a scardinare l’isolamento e la concezione fisicamente restrittiva della mente, a partire dalla presa di consapevolezza che una mente è sempre legata a un essere umano98 che è dotato di un corpo,

vive in un ambiente esterno ad esso e, normalmente, è in relazione con altri consimili.

Questo movimento di allargamento ha preso diverse forme e direzioni. Andy Clark (Clark e Chalmers 1998, Clark 2008) ha sostenuto l’idea che – in certe situazioni e sotto determinati criteri – la mente si estenda letteralmente ad oggetti fisici anche inorganici di cui ci serviamo per svolgere alcune funzioni cognitive, come quando utilizziamo carta e penna per aiutare la nostra memoria. Larry Barsalou (2008) è stato uno dei pionieri dell’idea che tutta la cognizione sia in qualche modo basata (grounded) sui processi sensorimotori. Per meglio dire, le facoltà cognitive di alto livello

98 In questa sede, la questione della cognizione degli animali non umani sarà trattante non più che en passant.

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funzionano, almeno in parte, grazie alla riattivazione delle aree motorie del cervello o, in altri termini, grazie ai sistemi percettivo, motorio e somatosensorio di un individuo. Infine, l’enattivismo ha una storia più lunga e complessa, che sarà abbozzata nella prossima sezione.

In definitiva, il “pluralismo”, per così dire, degli approcci 4E non passa inosservato né agli stessi sostenitori né ai critici. Weber e Vosgerau (2018) riassumono efficacemente lo stato dell’arte:

Effettivamente non siamo cervelli in una vasca, e la cognizione non consta soltanto della manipolazione di entità mentali distaccate dal mondo. Anzi, ci sono molti loop e accoppiamenti [couplings] tra cervelli, corpi e ambienti. Questa circostanza, che era stata in qualche maniera trascurata dai filoni “classici” della scienza cognitiva, è stata portata in primo piano nella 4E Cognition. (Weber e Vosgerau, p. 405)

Sfortunatamente, mentre la 4E Cognition è ancora oggetto di dibattito a causa della diversità di teorie e approcci al suo interno, persino il significato preciso di termini fondamentali come ‘embodied

cognition’ o ‘embodiment’ manca di univocità. Ne risulta il fatto che

non abbiamo una prospettiva di ricerca unitaria, per ora. (ibid., p. 412).

Nonostante sia argomento di estremo interesse, non è questa la sede per approfondire i molti significati, storici e contemporanei, dell’embodiment, come pure le varie radici e ascendenze filosofiche nel passato. Ma questa breve premessa era necessaria per introdurre una branca – per quanto larga, come vedremo – della cognizione 4E, l’enattivismo. Prenderò in considerazione in particolare la versione più recente e, nel suo stesso lessico, più “radicale” che prende le mosse, appunto, da una tesi molto forte circa l’assenza di rappresentazioni

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mentali in molte operazioni sensorio-cognitive umane. In coerenza con quanto sottolineato finora, preciso in conclusione che questa posizione non è rappresentativa di tutto lo spettro della psicologia e della filosofia della mente embodied: il rappresentazionalismo è infatti di per sé compatibile con l’affiliazione a questo macro-etichetta.

5.3.2.1

Pars

destruens:

enattivismo

e

anti-

rappresentazionalismo

Ma dunque che cosa si intende per enattivismo? Una prima risposta è sicuramente: non una cosa soltanto. Solitamente, vige una tripartizione che da un lato è cronologica, ma anche di merito. Il testo che diede inizio a tutto fu The Embodied Mind: Cognitive Science and

Human Experience, di Francisco Varela, Evan Thompson e Eleanor

Rosch, pubblicato nel 1991. Ward e colleghi lo definiscono così:

Un’ambiziosa sintesi di idee provenienti dalla fenomenologia, scienza cognitiva, biologia evoluzionistica, filosofia buddista e psicologia che provò ad articolare un nuovo programma di ricerca: una scienza

cognitiva enattiva, che avrebbe colmato la distanza tra lo studio

empirico della mente e la riflessione disciplinata sulla nostra esperienza vissuta che caratterizza le pratiche fenomenologiche e buddiste. (Ward et al. 2017, p. 365).

Da allora, il nuovo progetto enattivista, che comunque raccoglieva spunti da tradizioni precedenti, ha guadagnato forza e seguaci, tanto da cominciare a ramificarsi. Da un lato troviamo il discendente più diretto del libro di Varela e colleghi, il cosiddetto enattivismo autopoietico, più orientato sugli aspetti biologici dell’organizzazione

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degli organismi viventi e del loro rapporto di co-costruzione con l’ambiente circostante. Alcuni dei sostenitori più recenti di questo approccio ne indagano in realtà un’evoluzione: Corris e Chemero (2019, p. 1) notano che “[g]li sviluppi del ventunesimo secolo della teoria enattivista suggeriscono che l’autopoiesi debba essere soppiantata dall’autonomia e dall’adattività, nello specificare la natura delle cose [sic] viventi”. Nella teoria autopoietica, questi tratti non sarebbero stati esplicitati e invece sarebbero utili a “fornire un resoconto più ampio di cosa qualifica un essere vivente” in quanto tale “piuttosto che semplicemente specificare un certo tipo di caratterizzazione operativa dei sistemi”, cioè l’autopoiesi stessa.

Il secondo filone, quello nato tra la fine degli anni Novanta e gli anni Duemila, è il cosiddetto enattivismo sensorimotorio i cui sostenitori più noti sono Alva Nöe e J. Kevin O’Regan (O’Regan e Nöe 2001, Nöe 2004). In sintesi, questi autori studiano la percezione intesa come “una esplorazione attiva dell’ambiente, piuttosto che una costruzione di un modello interiore che recupera informazioni perdute nella trasduzione sensoriale” (Ward et al. 2017, p. 370). A differenza dell’autopoiesi, però, “ignora in gran parte o minimizza gli altri principi teorici associati all’enattivismo, come la co-produzione di organismo e ambiente, l’enfasi sulla biodinamica e un impegno alla continuità vita- corpo” (ibid., p. 371).

Da ultimo si presenta l’enattivismo radicale promosso principalmente da Daniel Hutto ed Erik Myin (Hutto e Myin 2013, 2017). La radicalità di questo filone risiede, da un lato, nel mettere un convinto anti-rappresentazionalismo al centro di ogni tentativo di comprensione della vita cognitiva umana. Dall’altro lato, si fonda anche sulla convinzione che le altre due scuole enattiviste non siano fino in fondo anti-rappresentazionaliste e, di conseguenza, non si

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allontanino a sufficienza dal cognitivismo99. Da un punto di vista

generale, la RET (o REC100) ha un duplice obiettivo: all’interno, quello

di unificare i vari approcci anti-rappresentazionalisti (ivi compresi anche quelli non enattivisti, come la psicologia ecologica gibsoniana e la teoria dei sistemi dinamici) attraverso un’azione di “pulitura, purificazione, rafforzamento” (Hutto 2017). All’esterno, in maniera conseguente, l’obiettivo è quello di abbattere l’edificio cognitivista, dominio per dominio101, concentrandosi in primo luogo sulla pars

destruens102. Il filo rosso che lega la vis polemica della REC è la

resistenza a naturalizzare le rappresentazioni, argomentando invece a favore dell’idea che sia possibile avere una “mente basica” seppur priva di contenuti proposizionali che guidino le operazioni fondamentali della vita cognitiva (contentless mindedness). REC si distingue dalle altre varietà di enattivismo in quanto ritiene che sia un errore parlare delle dinamiche d’interazione come rappresentazionali e dotate di contenuto e “questo scetticismo motiva la distinzione tra capacità cognitive ‘basiche’ fondate [grounded] nell’interazione adattiva sensorimotoria e le più complesse capacità supportate [scaffolded]

99 Di questa opinione è anche Anthony Chemero (2009, 2016), un altro autore importante dell’enattivismo del terzo tipo che pur avvicinandosi alle opinioni di Hutto se ne distanzia anche.

100 Rispettivamente: Radical Embodied Theory e Radical Embodied Cognition. Questi acronimi sono usati in maniera sostanzialmente intercambiabile da Hutto in giù.

101 Hutto (2011, p. 26) elenca: “coscienza, percezione, intenzionalità, attenzione, memoria, cognizione sociale, autocoscienza”.

102 Il “marketing filosofico” di Hutto è infatti fortemente caratterizzato da richiami espliciti e in una certa misura (auto)ironici al fatto che la RET ha i caratteri di una “rivoluzione” nel senso storico-politico del termine, comprendendo la volontà di fare quasi tabula rasa di ciò che c’era prima in maniera sistematica. Queste considerazioni sull’approccio in primis ‘distruttivo’, oltre a essere facilmente inferibili dalla lettura dei numerosi testi di Hutto, mi sono state anche confermate per comunicazione personale. Cf. anche Hutto e Myin (2017, pp. xiv-xv).