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La relatività in fisica

3.1 – La relatività linguistica è un tipo di relativismo?

3.1.2 La relatività in fisica

Passando quindi un esame più ravvicinato delle caratteristiche del principio di relatività, il primo fatto storico forse non noto a tutti è che Albert Einstein – l’ovvio riferimento immediato di Sapir e Whorf

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per il termine “relatività” – costruì la sua rivoluzionaria teoria della relatività a partire da una arcinota nozione nella fisica moderna, per prima associata a Galileo Galilei.

La relatività galileiana è da riferirsi a un esperimento mentale contenuto nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632) attraverso cui Galilei intende dimostrare che gli eventi di movimento all’interno della cabina di una nave sono, in condizioni ideali (ovvero immaginando un moto rettilineo uniforme), indipendenti da quelli della nave stessa, in modo tale che un osservatore all’interno della cabina non sarebbe capace di determinare se la nave sia in movimento o meno. In termini più generali, Galilei sosteneva che in un caso simile due sistemi di riferimento non possono essere distinti l’uno dall’altro per via sperimentale, a causa del comportamento identico delle invarianti a dispetto dei differenti punti di vista. Questo è un fenomeno che pertiene alla meccanica, allo stesso modo delle nozioni newtoniane di spazio relativo e assoluto.

Il caso di Einstein è però leggermente diverso, in quanto la sua relatività speciale è un’estensione del principio di realtà ad altre parti del mondo fisico, nella fattispecie l’elettromagnetismo, e considerando fenomeni come quelli relativi alla luce. In pochi e semplici termini, la relatività speciale postula che la luce viaggi costantemente alla stessa velocità a differenza, ad esempio, del suono, che è soggetto al medium attraverso cui si trova a passare. Il risultato è che la luce viaggia a 299.792 chilometri al secondo relativamente al sistema inerziale (ovvero gli strumenti di misurazione) utilizzati da ciascun osservatore. In altre parole, ogni osservatore troverà che la velocità della luce è la stessa. Pertanto, l’osservatore non sarà in grado di determinare in quale sistema di riferimento quella misurazione sia stata ottenuta.

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Prendiamo in considerazione la frase: “in questo momento, mentre scrivo a bordo di un aeroplano che sorvola il Mar Egeo, un coniglio corre lungo la riva del Tago a Lisbona”. La caratteristica più d’impatto per il profano di fisica risiede nell’abolizione del senso fondamentale dell’espressione “in questo momento” in una frase come la precedente, dal momento che un corollario della teoria einsteiniana è che, grosso modo, qualsiasi dato istante o porzione di tempo cessa di poter essere pensata come assoluta, cioè come “la stessa per chiunque” indipendentemente dalla posizione di osservazione di un fenomeno; pertanto la domanda da porsi diventa qualcosa come “dove è localizzata la porzione di tempo a cui voglio riferirmi?”, il che, in altre parole, significa che il tempo è relativo a ciascun osservatore.

Che grado di conoscenza avevano di tutto questo Sapir e Whorf? Perché decisero – prima l’uno e successivamente l’altro – di prendere in prestito questo termine al fine di parlare dei vincoli che le lingue impongono al pensiero di chi le parla?

Com’è ragionevole immaginare, la risposta alla prima domanda è affermativa, in particolare per quanto riguarda Whorf, dacché non soltanto era un avido lettore di fisica, ma addirittura firmò una manciata di saggi accademici in quel campo (Rollins 1980, cit. in Alford 1981, p. 21). Inoltre, il celebre passo in cui Whorf introduce “un nuovo principio di relatività” in linguistica era contenuto in un articolo del 1940 destinato ai “lettori di formazione tecnica e scientifica della

Technology Review del M.I.T.” (Lee 1996, p. 87) che, nelle aspettative

di Whorf, avevano con tutta probabilità buona familiarità con le teorie di Einstein, in modo tale da poter comprendere adeguatamente l’analogia tra la fisica e la linguistica.

Tuttavia, non bisogna dimenticare che il primo a usare questo termine in un simile contesto fu Sapir nel 1924, in un saggio destinato

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a un pubblico generico. D’altro canto, però, per quanto concerne l’uso della parola “relatività” il contesto generale dell’utilizzo sapiriano non è altrettanto esplicito rispetto al parallelismo con Einstein, se confrontato col caso successivo (Koerner 2000 p. 12, Lee 1996, xviii).48

Venendo alla seconda domanda, Alford (1981, p. 25) sostiene che Whorf “meramente riformulò [restated] per la linguistica […] la Teoria Generale della Relatività di Einstein”, incastonandosi così in un “lignaggio ininterrotto [in cui] la relatività aveva lo stesso significato fondamentale” composto da un gran numero di studiosi formatisi in un milieu filosofico tedesco come Einstein, Sapir, Boas, Kohler e von Neumann (ibid., p. 19). Ancora più radicalmente, Alford ribalta l’equivalenza del “comune denominatore concettuale” (ibid. p. 20), sostenendo che non solo Sapir e Whorf furono indotti a questo tipo di formulazione della relatività linguistica dall’influenza di Humboldt e Einstein, ma anche che Einstein stesso riconosceva che la sua teoria generale della relatività era un “caso specifico dello storico problema del rapporto tra linguaggio e pensiero” (ibid., p. 21).

Fondamentalmente, l’analogia suggerita da Whorf concerneva l’idea che, a dispetto di un mondo esterno ai soggetti che apparentemente poteva e doveva fungere da punto di riferimento assoluto per tutti quanti – ovvero un mondo che doveva farsi oggetto dell’atto di “osservazione” – le diverse lingue fornivano altrettante

48 Come nota a margine, Leavitt (2011, pp. 149-150), riporta la possibilità che, in realtà, fosse Einstein quello ad aver preso in prestito la parola “relatività” per la sua teoria non certo da Sapir per ovvi motivi cronologici bensì da una serie di letture di linguistica tedesca, poiché “[la parola ‘relatività’] era già in uso in riferimento al linguaggio nella filosofia tedesca sin dall’inizio del diciannovesimo secolo”. Per quanto suggestiva, quest’ipotesi è poco più che congetturale e concordo con Leavitt nello scetticismo a riguardo. Si veda anche Heynick 1983, p. 53-57.

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diverse indicazioni al soggetto nel processo di esprimere giudizi (o di agire sulla base di ciò che si vede) sul mondo esterno. Secondo quest’idea, la relatività linguistica si genera da un fatto di per sé neutrale, ovvero che il mondo è lo stesso per tutti ma questo stato di cose è soggetto all’evenienza pressoché inevitabile di essere parlanti di una qualsiasi lingua49, determinando così effetti relativistici nei

soggetti-parlanti. Essendo l’effetto di una scelta quasi ineluttabile (parlare una lingua), la relatività linguistica costituisce qualcosa di molto vicino a un punto di partenza obbligato per ogni essere umano. Un passo di Lee sottolinea un aspetto dell’analogia con la fisica di Whorf che di solito si finisce per dimenticare:

l’idea che nonostante tutti gli osservatori possano trovarsi davanti la stessa evidenza fisica nella forma dei dati d’esperienza e che nonostante siano capaci di ‘atti di osservazione esternamente simili’ (cioè, nonostante i processi percettivi possano essere di fatto invarianti da persona a persona, fatti salvi i casi patologici) la ‘immagine dell’universo’ o la ‘visione del mondo’ di una persona varia in funzione della lingua o delle lingue che quella persona conosce. (Lee 1996, p. 87).

Il punto importante per capire i termini di questa analogia sta nell’espressione “atti di osservazione esternamente simili” (externally

similar acts of observation). Consideriamo l’esperimento mentale di

Einstein (1961 [1920]) su un treno in movimento e due lampi che,

49 Anche ammesso che sia lecito chiedersi se si possa dire che gli esseri viventi non-linguistici (ovvero animali non-umani e bambini e bambine allo stadio prelinguistico) vedano il mondo in maniera oggettiva, cioè da un punto di vista privilegiato, qualsiasi cosa si voglia far significare a queste espressioni, questo tipo di relatività è solitamente denominata “relatività semiotica”.

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nonostante siano simultanei, sono percepiti come spaziotemporalmente distinti da parte di due osservatori, rispettivamente a bordo del treno e sul binario – a causa di effetti relativistici. A questo scenario si aggiunga una terza persona che sarebbe di fatto l’osservatore in grado di esprimere il giudizio per cui i due altri atti di osservazione sono “esternamente simili”, nonostante (checché sappia la terza persona) la percezione “interna” risulta differente, a causa della relatività. 50