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2.1 Il problema dei costituent

2.1.2 Pensiero e cognizione

Se le dispute sull’esistenza o sull’ammissibilità scientifica delle lingue avevano (almeno in parte) in qualche modo il sapore del dibattito filosofico nell’accezione della parola con cui i non-filosofi la usano – ovvero di una domanda sì interessante ma non veramente pericolosa per la pratica scientifica esaminata – non è probabilmente questo il caso quando si passa ad esaminare la nozione di pensiero.

A livello storico, quando si è dibattuto sulla relatività linguistica, la diversità linguistica non è mai stata veramente messa in discussione in quanto tale (con l’eccezione chomskiana) e perciò il grande peso della domanda metateorica giaceva sulle spalle dell’altro costituente di base, ovvero il pensiero. Una nozione così vasta e alla base di intere differenti e incompatibili concezioni filosofiche (nel senso più ampio del termine stavolta) da restituire idee della relatività linguistica reciprocamente divergenti sotto aspetti importanti.

Già Lucy (1992, p. 268 e ss.) identificava tre assi sui quali lo studio della relatività si è diviso a seconda degli orientamenti teorici per quanto riguarda specificamente la seconda variabile. Il primo tema è quello della concezione individuale o collettiva della diversità

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cognitiva da prendere in considerazione. Con ‘collettiva’ più specificamente si intende la dimensione propriamente culturale a cui pertengono “credenze condivise e istituzioni”. Riporta Lucy (ibid.) che “queste due posizioni si sviluppano piuttosto chiaramente a partire da differenti tradizioni disciplinari [antropologia e psicologia], ma riflettono differenti aspetti di un problema che è unico”.

Il secondo tema, sempre declinato nella dialettica tra le due tradizioni (quelle che Lucy aspirava a conciliare con il suo libro), è quello sull’importanza cruciale dei metodi di controllo per validare i dati sperimentali nella ricerca psicolinguistica sugli individui e, successivamente, la valutazione concettuale (o culturale) da parte degli antropologi di detti dati. La natura fortemente correlativa dei dati raccolti nel corso di analisi cross-culturali deve necessariamente indurre alla prudenza nella loro estrapolazione e valutazione. Le preoccupazioni metodologiche di Lucy, che sono quelle che hanno valso la fama della sua opera, sono qui riassunte:

In questo caso [quello della relatività linguistica], l’antropologa può facilmente dimostrare che un dato pattern linguistico è associato a un pattern culturale generale, ma è un altro paio di maniche dimostrare che tali pattern siano generati dal linguaggio. […] In breve, un approccio etnografico basato sullo studio di casi deve essere integrato da un’evidenza controllata che sia in grado di rendere distinguibili spiegazioni rivali di un dato pattern di pensiero culturale e comportamento. La psicologa introduce controlli sperimentali precisamente per contribuire a distinguere tra le varie possibili

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influenze sul comportamento e di conseguenza fare chiarezza sulla rete di relazioni funzionali. (Lucy 1992a, p. 270).32

Pur difendendo la bontà di questo approccio sincretico Lucy riconosce anche che, d’altro canto, ci sono dei costi teorici da sostenere:

Non è sempre chiaro se il comportamento esibito sotto le condizioni sperimentalmente controllate rappresenti adeguatamente il comportamento potenziale dei parlanti o il loro comportamento abituale, ovvero, [non è chiaro] se c’è un collegamento valido tra il compito sperimentale e il comportamento quotidiano. (ibid., p. 271).

Allo stesso tempo, Lucy crede che esistano delle maniere per minimizzare questo (serio) rischio di invalidare la ricerca (o, per lo meno, di dover ridimensionare la portata dei risultati). Questa opinione, in seguito, non è stata condivisa da tutti (tra i vari, Björk 2008, Enfield 2015, si veda infra).

Il terzo tema è quello della differenziazione tra pensiero abituale e pensiero specializzato. La distinzione è da far risalire a Whorf, che aveva prediletto il primo di questi. Queste due modalità di pensiero non sono neppure sempre facili da distinguere: se il pensiero abituale consiste in “certe modalità quotidiane di apprendere e avere a che fare col mondo dell’esperienza caratteristico della maggior parte dei membri adulti di una cultura” (Lucy 1992a, p. 272), l’altro si configura come specializzato in rapporto all’esecuzione di compiti altamente

32 Nota di traduzione: le espressioni prive di genere in inglese ‘antropologist’, ‘psychologist’, ecc. sono state rese in italiano al femminile.

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specifici di una cultura e/o da parte di una sottoclasse definita di individui. Lucy risolve questa tensione così:

La ricerca in futuro dovrebbe cominciare a ricercare effetti linguistici nel pensiero abituale piuttosto che nel pensiero specializzato. La valutazione del pensiero non dovrebbe centrarsi su soggetti altamente addestrati o su campi di conoscenze specialistici, ma piuttosto dovrebbe enfatizzare capacità semplici e la conoscenza di tutti i giorni. Questo è vantaggioso dal punto di vista del confronto di culture poiché le varie modalità di pensiero specializzati non sono rappresentate in ogni cultura e non possono, pertanto, essere facilmente comparate. (Lucy 1992a, p. 273).

Detto en passant, questo vale anche come posizione in contrasto alle operazioni di respiro troppo ampio che discusso e criticato nella sezione precedente (si veda sez. 1.2).

Senza scendere per ora nel dettaglio della posizione di Lucy in quanto singolo studioso (che pure è da considerarsi l’iniziatore di una lunga branca di letteratura, quella cosiddetta neowhorfiana), la questione che risalta è quella, fondamentale, della necessità di dare una declinazione più precisa al pensiero, e delle conseguenze a livello generale che questa scelta genera. Il neowhorfianesimo si basa su una minimizzazione dei parametri linguisticamente e culturalmente connotati, rendendo le situazioni sperimentali in cui i soggetti (parlanti di lingue diverse e spesso provenienti da luoghi e culture molto diversi) devono poter rispondere agli stimoli nel setting più neutro possibile. L’idea di fondo è quella di controllare le possibili variabili che interferirebbero con una valutazione in termini causali del ruolo della lingua sul ‘brandello’ di comportamento esaminato.

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In particolare, il design sperimentale delle ricerche neowhorfiane è stato pensato in maniera tale da elicitare alcune operazioni tipiche del pensiero umano: la misurazione dei tempi di risposta (RT), i test di memoria, la scelta tra tre elementi (triadic

discrimination), la libera associazione, ecc. Come nota Everett (2013,

p. 66), “i generi di compiti [da assegnare ai soggetti studiati] che potrebbero essere utilizzati sono potenzialmente infiniti, ma, nella pratica, si tende a ricadere nella categorie basilari di compiti che sono familiari agli scienziati cognitivi”.

Tuttavia, come già anticipava Lucy (seppur, in un certo senso, venendoci a patti) c’è un prezzo per tutto questo. Detto ermeticamente, non tutto il pensiero è cognizione; dove con ‘cognizione’ si intendono in maniera cumulativa tutte le operazioni mentali che coinvolgono la computazione di rappresentazioni mentali interne dotate di contenuto33. In sostanza la considerazione che se ne trae è che il tipo

di pensiero preso in considerazione da questo tipo di approccio si fonda – certamente per ragioni da molti punti di vista condivisibili – su una nozione ristretta di che cos’è il pensiero. Una necessità, è bene ribadirlo, debitamente motivata da Lucy, come pure da alcuni dei suoi predecessori (Brown e Lenneberg, 1954, si veda Lucy 1992a, p. 128 e ss.). Per far comprendere meglio nel concreto quale sia la posta in gioco, elencherò brevemente alcuni casi classici di ricerche neowhorfiane, rimandando critiche e problematiche alla sezione 4.2.

Tra i vari effetti whorfiani supportati dall’evidenza sperimentale si possono includere i seguenti casi. La percezione e

33 Questa definizione è lungi dall’essere pacifica (e neppure, avendo accettato il criterio, è chiaro quali operazioni mentali si devono far rientrare sotto questa definizione), ma per quanto concerne la presente discussione, rappresenta la posizione standard della scienza cognitiva classica – che verrà messo radicalmente in discussione nella sezione 5.

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categorizzazione delle distinzioni tra colori (Roberson et al. 2005, Winawer et al. 2007, Roberson & Hanley 2010); l’opposizione di genere grammaticale (femminile e maschile) può indirizzare la valutazione delle caratteristiche degli oggetti inanimati verso stereotipi legati al genere (Boroditsky et al. 2003); il modo in cui pensiamo le relazioni spaziali può essere influenzato dal sistema di riferimento predominante in una lingua (in termini di direzioni cardinali assolute o egoriferite come sinistra/destra, ecc.) (Pederson et al. 1998, Levinson 2003, Majid et al. 2004, e molti altri); l’attenzione che primariamente prestiamo alla forma o al materiale di un oggetto (Lucy e Gaskins 2003); le metafore per parlare del tempo che fanno uso di concetti spaziali possono influenzare il modo in cui concettualizziamo il tempo anche quando non parliamo (Boroditsky 2001, Boroditsky et al. 2010); le parole numeriche per le quantità maggiore di 3 sembrano essere decisive per lo sviluppo di abilità aritmetiche e matematiche (questa evenienza è di particolare interesse quando si pensa di avere a che fare con lingue anumeriche: Gordon 2004, Pica et al. 2004, Frank et al. 2008, C. Everett e Madora 2012).

Questo elenco non è del tutto esaustivo, ma si può ritenere più che sufficiente per avere un’idea generale del tipo di letteratura presa in considerazione. Pregi e limitazioni di questa definizione operativa di pensiero verranno discussi in dettaglio più avanti (sezz. 4.1 e .4.2).

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