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2. SCOMPENSO CARDIACO ACUTO

2.7 ALTRI REGIMI TERAPEUTICI

Varie terapie (ACE-i o ARB, β-bloccanti, antialdosteronici e l’associazione idralazina- isosorbide dinitrato) si sono dimostrate efficaci nel ridurre la mortalità e i ricoveri ricorrenti nei pazienti con SC cronico a bassa FEVS. Sebbene l’efficacia di questa terapia non sia stata valutata nei pazienti ricoverati per SC, queste vengono però spesso continuate se il paziente le assumeva prima del ricovero o istituite ex novo durante la degenza o subito dopo la dimissione.

Le linee guida ACC/AHA ed ESC supportano la continuazione della terapia domiciliare con ACE- inibitori o ARB, β-bloccanti e antialdosteronici durante

71 ricovero per SC acuto, salvo instabilità emodinamica o altre controindicazioni. Nei pazienti con SC acuto a bassa FEVS che non assumono una terapia cronica basata sulle evidenze, gli ACE- inibitori o gli ARB e i β-bloccanti vanno iniziati prima della dimissione, quando il paziente è stabilizzato. Prima di iniziare la terapia β-bloccante, il paziente deve essere emodinamicamente stabile e in stato euvolemico. I pazienti, inoltre, devono essere stati "svezzati" dai vasodilatatori e inotrop i ev. Data l'elevata morbilità postdimissione in questa popolazione, si può aggiungere un antialdosteronico prima della dimissione. Questi farmaci vanno però impiegati con cautela nei pazienti diabetici, con insufficienza renale o trattati con ACE- inibitori o ARB, per il possibile rischio di iperkaliemia. Gli antialdosteronici sono controindicati in caso di iperkaliemia >5 mEq/L o ipercreatininemia >2,2 mg/m1. Lo studio DIG ha dimostrato che l'aggiunta di digossina agli ACE-inibitori e ai diuretici riduce il rischio di ricoveri ricorrenti e, in un'analisi retrospettiva, anche la mortalità se la digossinemia è <1 ng/mL. Inoltre, gli studi che hanno dimostrato l'efficacia clinica di ACE- inibitori, β-bloccanti e antialdosteronici hanno riguardato pazienti che spesso assumevano digossina. I benefici si sono osservati soprattutto nei pazienti con FEVS molto bassa, aumentato rapporto cardiotoracico o segni e sintomi gravi. In base a queste evidenze, è ragionevole aggiungere digossina a basse dosi alla terapia standard, specie nei pazienti con persistenti segni e sintomi di SC nonostante la terapia con ACE-inibitori, ARB, β-bloccanti o antialelosteronici. La digossina, inoltre, può rivelarsi particolarmente utile nel controllo della risposta ventricolare in caso di fibrillazione atriale.

La terapia con digossina può iniziare con una dose di mantenimento, variandola in modo che la digossinemia non superi 1,0 ng/mL; il farmaco è controindicato in caso di grave scompenso renale o blocco atrioventricolare. Dall'analisi retrospettiva dei dati dello studio DIG, la morbilità femminile risulta più elevata. Di conseguenza, nelle donne il dosaggio deve essere ridotto rispetto agli uomini e la digossinemia non deve superare 1 ng/mL.

L'associazione idralazina- nitrati in aggiunta alla terapia standard è risultata efficace negli Afroamericani con SC a bassa FEVS. La terapia va iniziata prima della

72 dimissione o subito dopo, specie in presenza di segni e sintomi residui di SC. L'associazione sembra meno efficace in altri gruppi etnici.

L'utilità dell'impianto di dispositivi ICD al momento del ricovero nei pazienti con SC acuto non è stata valutata. Inoltre, dopo 3-6 mesi di terapie mediche per lo SC basate sulle evidenze, i pazienti potrebbero non avere più necessità di ICD. Le analisi retrospettive indicano che l'ICD non riduce la morbilità dopo la dimissione. Analogamente, dato che circa il 40% dei pazienti con SC acuto a bassa FEVS ha un QRS ampio, dopo la dimissione va presa in considerazione la risincronizzazione cardiaca nei casi che restano sintomatici nonostante la terapia basata sulle evidenze.

3,52

Lo studio DIG ha dimostrato che l'aggiunta di digossina agli ACE- inibitori e ai diuretici riduce il rischio di ricoveri ricorrenti e, in un'analisi retrospettiva, anche la mortalità se la digossinemia è <1 ng/mL. Inoltre, gli studi che hanno dimostrato l'efficacia clinica di ACE- inibitori, β-bloccanti e antialdosteronici hanno riguardato pazienti che spesso assumevano digossina. I benefici si sono osservati soprattutto nei pazienti con FEVS molto bassa, aumentato rapporto cardiotoracico o segni e sintomi gravi. In base a queste evidenze, è ragionevole aggiungere digossina a basse dosi alla terapia standard, specie nei pazienti con persistenti segni e sintomi di SC nonostante la terapia con ACE-inibitori, ARB, β-bloccanti o antialelosteronici. La digossina, inoltre, può rivelarsi particolarmente utile nel controllo della risposta ventricolare in caso di fibrillazione atriale.

La terapia con digossina può iniziare con una dose di mantenimento, variandola in modo che la digossinemia non superi 1,0 ng/mL; il farmaco è controindicato in caso di grave scompenso renale o blocco atrioventricolare. Dall'analisi retrospettiva dei dati dello studio DIG, la morbilità femminile risulta più elevata. Di conseguenza, nelle donne il dosaggio deve essere ridotto rispetto agli uomini e la digossinemia non deve superare 1 ng/mL.

L'associazione idralazina- nitrati in aggiunta alla terapia standard è risultata efficace negli Afroamericani con SC a bassa FEVS. La terapia va iniziata prima della dimissione o subito dopo, specie in presenza di segni e sintomi residui di SC. L'associazione sembra meno efficace in altri gruppi etnici.

73 L'utilità dell'impianto di dispositivi ICD al momento del ricovero nei pazienti co n SC acuto non è stata valutata. Inoltre, dopo 3-6 mesi di terapie mediche per lo SC basate sulle evidenze, i pazienti potrebbero non avere più necessità di ICD. Le analisi retrospettive indicano che l'ICD non riduce la morbilità dopo la dimissione. Analogamente, dato che circa il 40% dei pazienti con SC acuto a bassa FEVS ha un QRS ampio, dopo la dimissione va presa in considerazione la risincronizzazione cardiaca nei casi che restano sintomatici nonostante la terapia basata sulle evidenze.3,52

I farmaci inotropi sono indicati nei pazienti con sindrome da bassa portata, in presenza di segni di ipoperfusione o congestione nonostante trattamento con vasodilatatori e/o diuretici finalizzato al miglioramento della sintomatologia. I farmaci inotropi devono essere somministrati unicamente in pazienti con bassi valori di PAS e basso indice cardiaco che presentano segni di ipoperfusione o congestione3,52

I vasopressori (noradrenalina) non sono raccomandati come farmaci di prima scelta o sono unicamente indicati in caso di shock cardiogeno quando un carico di liquidi associato alla somministrazione di agenti inotropi non sia sufficiente a ripristinare una PAS >90 mmHg e un’adeguata perfusione d’organo, nonostante un miglioramento della portata cardiaca. Nei pazienti con SC acuto e sepsi può essere indicata la somministrazione di vasopressori. Dato che lo shock cardiogeno è generalmente associato ad un aumento delle resistenze vascolari sistemiche, i farmaci vasopressori devono essere utilizzati con cautela e devono essere sospesi quanto prima possibile. In presenza di shock cardiogeno, può essere somministrata la noradrenalina in combinazione con uno qualsiasi degli inotropi sopramenzionati, preferibilmente in infusione mediante accesso venoso centrale. Si consiglia particolare cautela nel caso di associazione con dopamina, in quanto quest’ultima esercita già di per sé effetti vasopressori. L’adrenalina non è raccomandata come farmaco inotropo o vasopressore nei pazienti con shock cardiogeno e deve essere utilizzata soltanto come terapia di salvataggio in caso di arresto cardiaco.3,128

74 La profilassi tromboembolica con anticoagulanti è indicata se non esistono controindicazioni o se non è necessaria (paziente già in trattamento anticoagulante)3

Ultrafiltrazione. Alcune modalità di terapia sostitutiva della funzione renale sono

state di recente utilizzate nello SC con indicazioni differenti da quelle nefrologiche più tradizionali, quali l’insufficienza renale cronica in fase terminale o l’insufficienza renale acuta. L’ultrafiltrazione isolata (UFI), attuata con macchine ad hoc o per dialisi/emofiltrazione, è stata infatti proposta in ambito cardiologico anche in assenza di esigenze di tipo depurativo, come strategia alternativa al trattamento diuretico, al fine di ottenere una più rapida riduzione del sovraccarico di volume nei pazienti che presentino congestione polmonare e sistemica. Allo stesso modo, anche

l’ultrafiltrazione peritoneale è stata proposta e utilizzata con gli stessi obiettivi, anche se su scala minore.127 La principale caratteristica dell’UFI è costituita dalla rimozione di liquidi e dalla riduzione/controllo della congestione del circolo polmonare e

sistemico. Nello studio RAPID-CHF127 la terapia convenzionale è stata confrontata con una singola sessione di UFI di 8 ore eseguita entro le prime 24 ore dal ricovero; trattamenti successivi erano consentiti dopo una rivalutazione clinica a 24 ore. Dato che il trattamento con UFI aveva consentito un calo ponderale maggiore e un bilancio idrosalino più negativo, così come un minor numero di riospedalizzazioni, gli Autori127 concludevano indicando l’ultrafiltrazione come modalità terapeutica alternativa al trattamento diuretico. Lo studio appare tuttavia gravato da importanti limitazione, il dato indubbiamente positivo è la riduzione del tasso di

riospedalizzazione nel gruppo sottoposto a UFI, non si può escludere che l’entità della differenza avrebbe potuto essere più contenuta se fosse stato attuato un trattamento diuretico ottimale. Oltre a possibili problemi di tipo emodinamico o renale, l’utilizzazione dell’UFI nei pazienti con SC può comportare anche alcune complicanze comuni a tutte le modalità di terapia di sostituzione renale

extracorporea; le più frequenti sono quelle legate all’accesso vascolare in caso d i UFI attuata attraverso catetere venoso centrale e alla coagula zione del circuito

extracorporeo. Non sempre infatti è possibile eseguire l’UFI attraverso un accesso periferico come suggerito in alcuni studi, utilizzando macchine e circuiti ad hoc che richiedono bassi flussi ematici (20-50 mL/min).127

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