dell’ambiguità di io e mondo inaugurata nell’esperienza duplice del
corpo
- Il superamento del pregiudizio del mondo attraverso la riduzione fenomenologica che permette la riemersione dei fenomeni
L’evoluzione del pensiero di Merleau-Ponty che avviene tra la pubblicazione de “La
struttura del comportamento” e la successiva “Fenomenologia della percezione” è
determinata principalmente dallo studio sistematico di Husserl1 e, in particolare, dalla consultazione degli inediti custoditi a Lovanio da Van Breda2. Attraverso lo studio dei testi del filosofo moravo, Merleau-Ponty trova il modo di riguadagnare al pensiero quella dimensione nella quale era stato ri-scoperto il fenomeno del comportamento, e che si era rivelata inaccessibile al razionalismo come all’empirismo, entrambi viziati dal “pregiudizio del mondo”. Il movimento di pensiero nel quale riemerge e viene posto a tema quel terreno presupposto dal mondo oggettivo e occultato sotto la sua ovvietà, è, per Merleau-Ponty, ciò che costituisce la fenomenologia.
Infatti nella premessa al testo pubblicato nel 1945, completamente dedicata alla fenomenologia, quest’ultima è definita già in primissima battuta come lo sforzo del pensiero di comprendere il fatto riconducendolo alla sua essenza, ed allo stesso
1
“Se l’opera del ’45 non rappresenta un mero arricchimento quantitativo di La structure du
comportement, ma realizza un salto di qualità, è proprio perché tra le due si situa l’incontro con il
pensiero husserliano.” Mancini Sandro, Sempre di nuovo, Associazione Culturale Mimesis, Milano, 2001, p. 191.
2 Merleau-Ponty è individuato dallo stesso H.L. Van Breda come il primo studioso esterno a Lovanio a
consultare l’Archivio Husserl, nel 1939. Egli ci indica anche l’elenco dei testi da lui consultati in quell’occasione: la trascrizione di Ideen II compiuta da Landgrebe nel 1924/25; il manoscritto D 17 del 1934 sulla “costituzione primordiale”; i paragrafi 28-73 della Krisis trascritti da Fink. (Cfr. Van Breda
tempo, come il movimento contrario col quale l’essenza viene sempre ricondotta al fatto nel quale è colta. La fenomenologia è quindi individuata come la via attraverso la quale superare l’alternativa tra empirismo e razionalismo, in quanto tematizzazione dell’orizzonte occulto comune ad entrambi, e riscoperta dell’originaria apertura al mondo da cui le due posizioni teoriche divengono possibili quali sue successive determinazioni.
“La fenomenologia è lo studio delle essenze, e per essa tutti i problemi consistono nel definire delle essenze: per esempio, l’essenza della percezione e quella della coscienza. Ma la fenomenologia è anche una filosofia che ricolloca le essenze nell’esistenza e pensa che non si possa comprendere l’uomo e il mondo se non sulla base della loro <<fatticità>>. È una filosofia trascendentale che pone tra parentesi, per comprenderle, le affermazioni dell’atteggiamento naturale, ma è anche una filosofia per la quale il mondo è sempre già là prima della riflessione, come una presenza inalienabile, una filosofia tutta tesa a ritrovare quel contatto ingenuo con il mondo per dargli infine uno statuto filosofico.”3
Il primo risultato dell’attuazione dell’imperativo husserliano che ordina il ritorno alle “cose stesse” è la rivelazione della mancata originarietà e autosufficienza del mondo scientifico-oggettivo, che si mostra fondato nei vissuti di coscienza (Erlebnisse) componenti il vero terreno originario, quel mondo vissuto da cui il mondo oggettivo è prelevato per astrazione. La ricerca dell’originario ci porta a scorgere dietro il mondo determinato da rapporti causali descrivibili in terza persona, l’esperienza diretta e soggettiva da cui esso trae il suo essere, poiché è solo in quanto sua esplicitazione che tale mondo è comprensibile e sensato.
“Tutto ciò che so del mondo, anche tramite la scienza, io lo so a partire da una veduta mia o da una esperienza del mondo senza la quale i simboli della scienza non significherebbero nulla. Tutto l’universo della scienza è costruito sul mondo vissuto e se vogliamo pensare la scienza stessa con rigore, valutarne esattamente il senso e la portata, dobbiamo innanzitutto risvegliare questa esperienza del mondo di cui essa è l’espressione seconda. *…+ Ritornare alle cose stesse significa ritornare a questo mondo
3
anteriore alla conoscenza di cui la conoscenza parla sempre, e nei confronti del quale ogni determinazione scientifica è astratta, segnitiva e dipendente, come la geografia nei confronti del paesaggio in cui originariamente abbiamo imparato che cos’è una foresta, un prato o un fiume.”4
Questa riscoperta del “mondo per me” al fondo del “mondo in sé” prende le mosse dall’impossibilità di ridurre l’io corporeo all’oggetto di studio delle varie scienze oggettive. Questa impossibilità, che abbiamo visto costatata ne La struttura del
comportamento, viene ora posta come punto determinante il definitivo superamento
di entrambe le contrapposte posizioni classiche: empirista e razionalista. Infatti in quest’opera la riduzione del corpo ad elemento del mondo oggettivo si delinea come il presupposto condiviso da entrambe le opposte posizioni teoriche, come abbiamo mostrato nel primo paragrafo del Capitolo I5. Dunque la via fenomenologica è assunta da Merleau-Ponty tanto come alternativa all’oggettivismo quanto al coscienzialismo, infatti la sua critica all’oggettivismo non comporta un ritorno idealistico alla coscienza. La differenza tra la critica idealistica all’oggettivismo e quella fenomenologica è ravvisabile nei due diversi procedimenti attraverso la quale è condotta e, se inizialmente la distinzione può sembrare sottile, essa è invece fondamentale. La critica idealistica prende forma attraverso l’analisi riflessiva, essa si rivolge alla nostra esperienza e così facendo la “scopre” come una composizione di elementi distinti, a questo punto deduce un’attività di collegamento che renda ragione dell’unità in cui tali elementi ci sono dati come componenti un’esperienza unitaria. Tale attività di collegamento è poi identificata con la soggettività, che diviene così condizione di possibilità dell’esperienza e da essa separata. Dunque questa analisi è un procedimento che partendo dall’esperienza pretende di oltrepassarla verso ciò che non ne dipende, ma al contrario la rende possibile.
“L’analisi riflessiva risale dalla nostra esperienza del mondo al soggetto come condizione di possibilità distinta da quella esperienza, e mostra la sintesi universale come ciò senza
4
Ivi, pp. 16-17.
di cui non ci sarebbe mondo. In questa misura essa cessa di aderire alla nostra esperienza, e a un resoconto sostituisce una ricostruzione.”6
Questa operazione è possibile soltanto nella misura in cui i risultati dell’analisi non sono assunti come suoi prodotti, ma al contrario vengono realizzati e posti come da essa indipendenti7. E questo a sua volta può avvenire soltanto a condizione che l’analisi rimuova se stessa, che si ignori come evento nella vita di coscienza. In quanto tale essa, infatti, necessiterebbe di un cominciamento, e dunque presupporrebbe un tempo ed un essere in cui avvenire. Perciò è solo in questo oblio di se stessa che la riflessione può ricollocarsi “in una soggettività invulnerabile, al di qua dell’essere e del tempo”8, e non deve invece ri-conoscersi come riflessione su un irriflesso. Irriflesso che quindi è il contesto preliminare in cui essa sorge, e in quanto tale non può mai venire riassorbito completamente dalla riflessione ed in essa ricostituito. Al contrario tale irriflesso è dato a me prima delle operazioni riflessive e non deriva da esse, ma ne costituisce il campo in cui quest’ultime hanno luogo. Una volta presa così coscienza della riflessione, essa viene compresa come un “mutamento di struttura della coscienza”9, “come un’autentica creazione”, che si innesta su una vita di coscienza più ampia, occultata nell’analisi idealistica, e che deve essere fatta riemergere e posta a tema. Per far questo all’analisi la fenomenologia sostituisce la descrizione, procedimento che permette di conoscere l’esperienza senza scavalcarla nel pensiero di essa, che permette di esplicitarla senza cessare di abitarla. Ecco che qui la scoperta della fenomenologia emerge come l’acquisizione teorica fondamentale che avviene tra la stesura di La struttura del comportamento e quella de La fenomenologia della
percezione. Infatti essa è la risposta agli interrogativi con cui si chiudeva l’opera
conclusa nel ’38 e pubblicata nel ’42. Interrogativi riguardanti la possibilità di un pensiero capace di rivolgersi alla struttura peculiare della coscienza pre-riflessiva senza
6 Ivi, p. 18.
7
Ci siamo già confrontati con una delle conseguenze paradossali dovute a questo modo di assumere i risultati dell’analisi riflessiva trattando la nozione di sensazione nel capitolo primo. “Il mondo è là prima di ogni analisi che io possa farne, e sarebbe artificioso derivarlo da una serie di sintesi che collegassero le sensazioni, e successivamente gli aspetti prospettici dell’oggetto, mentre le une e gli altri sono appunto prodotti dall’analisi e non debbono essere realizzati prima di essa.” Ibid.
8
Ibid.
9
eliminarne la specificità assimilandola a sé10. Un tratto distintivo della fenomenologia di Merleau-Ponty risiede nella sua esplicita individuazione di questa modalità di coscienza originaria, di cui le altre costituiscono una conseguente specificazione, nella
coscienza percettiva. Identificazione nata sulla scia delle conclusioni cui era giunto
interrogandosi sullo statuto proprio della gestalt, che abbiamo esposto nel capitolo precedente.
“Il reale è da descrivere, e non da costruire o costituire. Ciò significa che non posso assimilare la percezione alle sintesi che appartengono all’ordine del giudizio, degli atti o della predicazione.”11
Nella coscienza percettiva il reale ci è dato senza l’intervento dei nostri giudizi, esso non scaturisce da una nostra presa di posizione esplicita, ma è l’ambito preliminare in riferimento al quale i nostri atti deliberati sono sempre situati.
“La percezione non è una scienza del mondo, non è nemmeno un atto, una presa di posizione deliberata, ma è lo sfondo sul quale si staccano tutti gli atti ed è da questi presupposta.”12
Dunque al fondo della coscienza riflessa emerge la coscienza percettiva13. La critica dell’oggettivismo e la riscoperta della coscienza non avviene a favore di una coscienza
10
“È possibile pensare la coscienza percettiva senza sopprimerla come modo originale, è possibile conservarne la specificità senza rendere impensabile il suo rapporto con la coscienza intellettuale? Se l’elemento essenziale della soluzione criticista consisté nel respingere la esistenza ai limiti della conoscenza e nel ritrovare il significato intellettuale nella struttura concreta, e se, come è stato detto, la sorte del criticismo è legata a questa teoria intellettualistica della percezione, nel caso in cui questa non fosse accettabile, bisognerebbe ridefinire la filosofia trascendentale in modo da integrarvi anche il fenomeno del reale. La <<cosa>> naturale, l’organismo, il comportamento altrui e il mio esistono soltanto in base al loro senso, ma il senso che scaturisce in essi non è ancora un oggetto kantiano, la vita intenzionale che li costituisce non è ancora una rappresentazione, la comprensione che vi dà accesso non è ancora una intellezione.” Maurice Merleau-Ponty, Struttura del comportamento, op. cit., p. 242.
11
Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, op. cit., p. 19.
12 Ibid. 13
“Io mi protendo verso un mondo e percepisco un mondo. Se con il sensismo dicessi che vi sono qui solo degli <<stati di coscienza>> e se cercassi di distinguere le mie percezioni dai miei sogni con <<criteri>>, io mancherei il fenomeno del mondo. Infatti posso parlare di <<sogni>> e di <<realtà>>, interrogarmi sulla distinzione dell’immaginario e del reale e mettere in dubbio il <<reale>>, proprio perché questa distinzione è già fatta da me prima dell’analisi, perché ho un’esperienza del reale come dell’immaginario, e il problema non consiste allora nel ricercare come il pensiero critico possa darsi degli
definita dalla modalità riflessiva, ma della coscienza che emerge nell’atto percettivo. Questo punto è quello che ci permette di comprendere meglio come la relativizzazione del mondo oggettivo non elimini la possibilità di qualsiasi trascendenza, ma al contrario riconosca la relazione all’altro da sé come il tratto originario della coscienza, ed il paradosso “che a me si dà un in sé” come situazione fondamentale, non da spiegare o risolvere, ma soltanto da descrivere. Infatti la percezione non è mai rivolta a se stessa, ma è apertura sull’altro, contatto ed allo stesso tempo esperienza di una distanza infinita. Anzi, proprio esperienza di quella distanza che apre alla possibilità della relazione, luogo di genesi di quella mancanza di coincidenza che è l’apparire della coscienza. In questo modo il soggetto che viene riscoperto nella critica fenomenologica all’oggettivismo non è un soggetto chiuso ed identico a se stesso, ma un soggetto costitutivamente aperto all’altro da sé, sempre pervaso da un essenziale rimando all’ulteriore, inestricabilmente intrecciato col mondo.
“La verità non <<abita>> soltanto l’<<uomo interiore>> o meglio non v’è uomo interiore: l’uomo è nel mondo, e nel mondo egli si conosce. Quando ritorno in me a partire dal dogmatismo del senso comune o dal dogmatismo della scienza, io trovo non un nucleo di verità intrinseca, ma un soggetto votato al mondo.”14
È in quest’ottica che va compresa la riduzione fenomenologica15, essa non rompe i legami col mondo per accedere ad una soggettività da esso indipendente, ma sospende quel movimento incessante nel quale tali legami vengono continuamente ripresi e tessuti, per far sì che essi emergano. Poiché “proprio per il fatto che siamo da parte a parte rapporto al mondo, per noi la sola maniera di rendercene conto è di sospendere questo movimento, di negargli la nostra complicità.”16 La riduzione fenomenologica interrompe il dialogo tra soggetto e mondo non per mostrare una verità più autentica ed originaria, ma perché tale dialogo possa essere posto a tema in quanto originario luogo di scaturigine di ogni verità. In questo modo la soggettività cui
<<reale>>, nel descrivere la percezione del mondo come ciò che fonda per sempre la nostra idea di
verità.” Ivi, p. 25 (corsivi miei).
14
Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p. 19.
15
Su la ricezione e la rilettura della riduzione fenomenologica husserliana in Fenomenologia della
percezione cfr. Mancini Sandro, Sempre di nuovo, cit., pp. 189-205.
16
si giunge rompendo la nostra familiarità col mondo è scoperta quale vita-esperiente-il- mondo, il suo legame con la trascendenza è riconosciuto quale dato ultimo e originario, non ulteriormente risolvibile. Così nella riduzione il mondo permane, ma privato di quella familiarità in cui il nostro legame con esso rimaneva avvolto ed occultato nella sua ovvietà, e che, posto a tema, ce lo restituisce sotto una luce paradossale, rivelandolo come ciò che per me è in sé.
“La riflessione non si ritira dal mondo verso l’unità della coscienza come fondamento del mondo, ma prende distanza per veder scaturire le trascendenze, distende i fili intenzionali che ci collegano al mondo per farli apparire, essa sola è coscienza del mondo perché lo rivela strano e paradossale.”17
- La descrizione fenomenologica permette di ammettere la natura ambigua del corpo e di afferrare il fenomeno paradossale del comportamento
Dunque se l’esplicitazione del mondo oggettivo porta alla messa a nudo del mondo vissuto. Questa esplicitazione però non può procedere oltre tale mondo vissuto con la messa a nudo di una dimensione che lo precederebbe quale sua condizione, verso regole di costituzione dalla cui applicazione tale mondo risulterebbe. Poiché il mondo vissuto è sempre già costituito, ed in quanto tale, quando attraverso la riflessione lo troviamo riconducibile ad una legge, attraversato da una ragione, non si deve pensare a come esso scaturisca da questa, ma al contrario, come tale ragione scaturisca da quello. Il riconoscimento della razionalità come emergente nell’evento della riflessione su un irriflesso, porta a ricomprenderla in una prospettiva storica, a concepirne la nascita, e dunque all’esigenza di “una filosofia che ci faccia comprendere lo scaturire della ragione in un mondo che essa non ha fatto e preparare l’infrastruttura vitale senza la quale ragione e libertà si svuotano e si decompongono.”18 Essendo la fenomenologia il tentativo del pensiero di rispondere a questa esigenza, essa si rivela capace di assumere la nozione di Gestalt rimanendo ad essa fedele, senza travisarla in
17
Ibid.
un restaurato materialismo o psicologismo, dei quali decreta definitivamente l’insostenibilità.
“Lo psicologismo è certo superato, *…+ la razionalità non è una fortunata combinazione che farebbe concordare sensazioni disperse, e la Gestalt è riconosciuta come originaria. Ma se la Gestalt può essere riconosciuta come una legge interna, questa legge non deve venir considerata come una modello secondo il quale si realizzerebbero i fenomeni di struttura. La loro apparizione non è il dispiegarsi all’esterno di una ragione preesistente. Se nella nostra percezione la <<forma>> è privilegiata, non è perché realizzi un certo stato di equilibrio, perché risolva un certo problema di pregnanza e, nel senso kantiano, renda possibile un mondo: essa è l’apparizione stessa del mondo e non la sua condizione di possibilità, è la nascita di una norma e non si realizza secondo una norma, è l’identità dell’esteriore e dell’interiore, e non la proiezione dell’interiore nell’esteriore.”19
Perciò la fenomenologia costituisce quel superamento della netta distinzione tra interiore ed esteriore, passivo ed attivo, necessità e libertà, che permette l’accesso a quella dimensione ambigua dove abbiamo riscoperto il fenomeno del comportamento. Fenomeno che risultava inaccessibile al pensiero oggettivante nel quale l’oggetto era definito come pura esteriorità ed il soggetto, per opposizione, come pura interiorità. In questo contesto teorico l’esperienza di un corpo non differisce in nulla da quella di una qualsiasi altra realtà oggettiva, essa è completamente determinata dai suoi caratteri oggettivi, che di per sé non sono portatori di un senso proprio. Infatti, come abbiamo già mostrato, ciò che accomuna il pensiero scientifico-oggettivo e la reazione idealistica è quello di “collegare a condizioni centripete il fenomeno centrifugo di espressione, ridurre a processi in terza persona quella maniera particolare di trattare il mondo che è un comportamento, livellare l’esperienza all’altezza della natura fisica e convertire il corpo vivente in una cosa senza interiorità.”20
Assimilando in questo modo il corpo all’in sé, esso non può essere espressione concreta di un Ego, esteriorità immediatamente esperita come manifestante un’interiorità, ma viene ridotto ad un oggetto fra gli altri. Così la percezione di un altro Ego non è che un’illusione, un equivoco terminologico, essa è soltanto la percezione di
19
Ivi, p. 105.
20
un oggetto inerte e passivo, a cui si associa una proiezione, una frammentazione simulata di quell’unico Ego che non dimora nel corpo e nei suoi gesti, ma al contrario gli si contrappone come l’unità al molteplice, l’esteso all’inesteso21.
L’oggettivazione del corpo e la postulazione di un soggetto costituente universale unico e identico, sono dunque due risvolti del medesimo oblio, l’oblio da parte della riflessione del proprio cominciamento, di quella coscienza a cui il muoversi di un corpo è dato già da sempre come gesto, e solo successivamente, per astrazione, come spostamento oggettivo. Segno di questo oblio è il disconoscimento dell’esperienza dell’altro quale percezione di un senso peculiare.
“Così, mentre il corpo vivente diveniva una esteriorità senza interiorità, la soggettività diveniva una interiorità senza esteriorità, uno spettatore imparziale. Il naturalismo della scienza e lo spiritualismo del soggetto costituente universale, cui metteva capo la riflessione sulla scienza, avevano in comune il livellamento dell’esperienza: di fronte all’Io costituente gli Io empirici sono degli oggetti.”22
Segno, invece, di quel risveglio della coscienza a se stessa che vuole essere la fenomenologia, è il riconoscimento della natura specifica della percezione dell’altro, quale esperienza del paradosso dell’alter ego. Infatti la percezione dell’altro non è più pensata come la percezione di un oggetto tra gli altri nel quale una soggettività sempre attiva e trasparente a se stessa proietterebbe il significato chiaro e distinto di ”alter ego”, non trovando poi in esso nulla che non vi abbia messo essa stessa, e riassorbendo l’atto “ricettivo” della percezione in un’operazione attiva di significazione. Al contrario la percezione dell’altro viene riscoperta come presenza