• Non ci sono risultati.

L'ambiguità fondamentale del corpo in Maurice Merleau-Ponty.

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "L'ambiguità fondamentale del corpo in Maurice Merleau-Ponty."

Copied!
150
0
0

Testo completo

(1)

U

NIVERSITÀ DI

P

ISA

D

IPARTIMENTO DI

C

IVILTÀ E

F

ORME DEL

S

APERE

C

ORSO DI

L

AUREA MAGISTRALE IN

FILOSOFIA E FORME DEL SAPERE

Tesi di laurea

L’ambiguità fondamentale del corpo in Maurice

Merleau-Ponty

Relatore

Candidato

Prof. Alfonso Maurizio Iacono

Domenico Monaldi

(2)
(3)

Indice

Introduzione

CAPITOLO I

Disvelamento del corpo oltre le categorie classiche di soggetto ed oggetto proprie del mondo oggettivo. Il corpo come ambiguità originaria

- Il pregiudizio del mondo è il presupposto comune delle teorie razionaliste ed empiriste della percezione, e questo coincide con la riduzione del corpo ad oggetto

- Il soggetto del comportamento non rientra nella distinzione cartesiana tra res cogitans e res extensa. Superamento della falsa alternativa tra empirismo e razionalismo attraverso la nozione di “gestalt”

- La forma non è un elemento reale del mondo oggettivo, ma un oggetto della coscienza percettiva, che in quanto tale si rivela forma di coscienza originale e originaria

- La forma vitale è la proiezione di un ambiente, la forma simbolica è l’ambiente vitale umano

- Husserl: la presenza della sfera dell’irreale e del soggettivo nell’intuizione di ogni realtà cosale e del suo essere oggettivo

- Il corpo quale luogo della dialettica tra soggettivo ed oggettivo, ambiguità fondamentale tra Leib e Körper

CAPITOLO II

Dall’ambiguità del corpo all’uomo come essere-al-mondo preso nel movimento dell’esistenza. Lo strumento quale esplicitazione dell’ambiguità di io e mondo inaugurata nell’esperienza duplice del corpo

- Il superamento del pregiudizio del mondo attraverso la riduzione fenomenologica che permette la riemersione dei fenomeni

- La descrizione fenomenologica permette di ammettere la natura ambigua del corpo e di afferrare il fenomeno paradossale del comportamento 4 10 10 17 26 33 38 46 52 52 58

(4)

- La contemporaneità di io e mondo definisce il soggetto come ambiguo essere-al-mondo

- La coscienza del corpo proprio come coscienza non rappresentativa e pre-oggettiva. Ammessa la natura ambigua e paradossale del corpo proprio, la si comprende attraverso la struttura temporale

- L’unità del corpo non è mai statica identità, ma sempre rotta e ricomposta nella dialettica tra toccante e toccato. Quel movimento incessante in cui la vita esce da se stessa per ritrovarsi e conoscersi è l’esistenza

- L’ambiguità del corpo, il suo trascendersi oltre il mondo per riafferrarsi in esso, lo definisce come una potenza simbolica. Il corpo si fa mondo e diviene gesto

- Il gesto come uso strumentale del corpo e l’utilizzo di strumenti come uso gestuale del corpo

- Origine gestuale del linguaggio: la parola come gesto fonico. Il movimento dell’esistenza nella dialettica tra parola parlante e parola parlata

- Dall’unità di espresso ed espressione riconosciuta nel gesto corporeo, alla teleologia dell’Essere quale movimento di automanifestazione in un processo di inesauribile espressione

Capitolo III

Avvicinamento del pensiero di Georges Bataille a quello di Merleau-Ponty, partendo dalla concezione condivisa dell’ambiguità come cifra caratteristica dell’esistenza umana. Parallelismo tra le nozioni di sacro e profano, e quelle di

corpo vivo e corpo oggetto

- Breve introduzione al pensiero di Georges Bataille attraverso la nozione chiave di dépense

- Il corpo e la dépense: due vie per giungere al di là della realtà oggettiva - La comparsa del mondo del lavoro come estromissione della dépense,

che assume la forma della “violenza” da cui la comunità si separa tramite l’istituzione di divieti

64 70 81 85 96 100 104 113 113 119 126

(5)

- La prassi lavorativa correlata alla coscienza di oggetti, ed intuizione di sé come uno di essi, ovvero l’apparizione dell’autocoscienza. Il sacro come esperienza del suo superamento

Conclusione

Bibliografia

131

139

(6)

Introduzione

Il tentativo che anima questo lavoro è quello di mostrare la posizione centrale che nel pensiero di Maurice Merleau-Ponty riveste la riflessione attorno alla tematica del

corpo. Non soltanto in relazione alla mole di pagine ad essa direttamente dedicate, ma

soprattutto in quanto in essa si possono rintracciare le assunzioni principali che fungeranno da base di partenza da cui poi si diramerà tutto il Suo successivo percorso di pensiero. Infatti, nonostante questo lavoro tratti in maniera diretta principalmente la produzione del primo periodo di attività del filosofo, ovvero quello culminante nella pubblicazione della Fenomenologia della percezione [1945], la messa a fuoco del tema del corpo ci permette di fare riferimenti e trovare corrispondenze anche con quelli che saranno gli esiti finali del Suo pensiero. Nello specifico questo sarà particolarmente evidente alla fine del secondo capitolo, quando l’unità inscindibile di espresso ed

espressione e la loro irriducibile differenza, sarà compresa attraverso la compresenza

impensabile del corpo vivo e del corpo oggetto, vissuta nell’unità pre-categoriale del

gesto. Unità non ideale ed esplicitamente pensata, ma pratica ed implicitamente

presente alla coscienza percettiva. Questa unità percepita e non ancora pensata permette di riconoscere un’unità di fondo senza eliminare la differenza, permette di scorgere dietro una coincidenza sempre da rifare ed una identità impensabile, un’insopprimibile comunione originaria, un rimando e una appartenenza reciproca che non permette nessuna distinzione netta. In questo modo l’unità dialettica di Leib e

Körper, in cui è stato riscoperto il fenomeno del corpo, illumina quell’Essere indiviso

che appare a sé in un atto di segregazione interna, articolato in una dialettica di auto-manifestazione, che è l’ultimo guadagno teorico del percorso intellettuale del filosofo francese, giunto a noi nell’incompiuto Il visibile e l’invisibile1.

Nel primo capitolo mostreremo come dietro le teorie razionaliste ed empiriste della percezione, il cui tentativo di superamento definitivo avverrà nella Fenomenologia

della percezione, si celi la credenza dell’esistenza del mondo in sé. Tale credenza si

rivela costituirsi nell’esperienza percettiva, ed in quanto tale nessuna analisi che la presupponga può pretendere di risalire oltre la percezione per spiegarla. In questo

(7)

modo la coscienza percettiva emerge come già sempre presupposta da quella riflessa, e quest’ultima si profila come una sua successiva esplicitazione. Così il percepire si rivela essere un modo di intenzionare l’oggetto più originario del pensare, ed il mondo

percepito si pone inderivabile dal mondo pensato. La necessità del superamento delle

posizioni empiriste e razionaliste, attraverso la messa a tema della credenza nell’esistenza del mondo in sé che entrambe occultamente presupponevano, è ciò che motiva l’adozione della descrizione fenomenologica al posto dell’analisi riflessiva e dell’osservazione sperimentale. L’effettivo superamento della falsa alternativa tra empirismo e razionalismo attraverso la riduzione fenomenologica sarà poi oggetto di esposizione nel secondo capitolo. Nel primo ci interessa mettere a fuoco la riflessione preliminare in cui tale presa di posizione teorica matura. Lo faremo seguendo la riflessione attorno al corpo, mostrando come essa ponga dei problemi la cui risoluzione conduce il Merleau-Ponty a rimettere in discussione i quadri ontologici in cui si muovono tutti i tentativi di spiegazione e comprensione del corpo e della realtà nel suo complesso. Essi infatti, partendo dal presupposto della realtà oggettiva non possono ammettere un essere diverso da quello dell’oggetto (inerte e chiuso in sé, per cui l’insieme è dato dal rapporto esteriore delle parti), e da quello complementare della coscienza (completamente trasparente e del tutto presente a se stesso, in cui è ammesso soltanto il rapporto esplicito di significazione). Nelle analisi contenute ne La

struttura del comportamento [1942], le interazioni tra organismo ed ambiente si

rivelano irriducibili alle relazioni di causa-effetto oggettive, rilevabili attraverso l’osservazione empirica, ed allo stesso tempo esse non si mostrano assimilabili ad una progettualità esplicita e cosciente. In questo modo la realtà organico-vitale viene scoperta appartenente ad una dimensione alternativa a quella dell’in sé e del per sé, dimensione in cui viene riscoperto il fenomeno del comportamento. Una via d’accesso a tale fenomeno, già individuata nella ricerca psicologica ma non in essa percorsa fino in fondo, è trovata nella nozione di forma (Gestalt) introdotta dalla Gestaltpsychologie. Essa, se assunta in tutte le sue conseguenze, comporta l’abbandono della distinzione tra forma e contenuto, tra il materiale organizzato e un principio di organizzazione esterno, scindibile dal materiale in cui si realizza. Essa è in psicologia quello che la dialettica hegeliana è in filosofia, ovvero il riconoscimento della primarietà della relazione sugli elementi implicati in essa. Tale nozione rende quindi l’insieme

(8)

irriducibile alla mera somma delle parti, ma senza che in esso sia rintracciabile una legge di costruzione esplicita, oggetto chiaro e distinto della coscienza riflessa. La

struttura si rivela invece non distinguibile dal materiale che organizza, l’insieme strutturato non appare come l’esteriorizzazione di un principio ad esso preesistente,

ma come la genesi della forma stessa nel contenuto, e l’apparizione del contenuto come già sempre organizzato in una forma. Queste caratteristiche fanno della Gestalt qualcosa di alternativo sia ad un elemento reale, sia ad un significato definito della coscienza riflessa, ed è riconosciuto come un oggetto della coscienza percettiva. In questo modo la percezione non è più compresa come una ricezione passiva dell’ambiente oggettivo circostante, spiegabile interamente attraverso l’azione fisico-chimica di uno stimolo determinato oggettivamente su un corpo anatomico inteso come un'altra realtà oggettiva; ma come la strutturazione di tali stimoli in un insieme significativo per l’organismo, senza che questo avvenga attraverso un atto esplicito di significazione. Così ogni organismo non è più compreso come ricezione di un ambiente oggettivo, e non è ad esso che si credono rivolte le sue reazioni. L’organismo emerge invece come una certa potenza proiettiva di un “mondo”, nel quale avvengono e a cui sono rivolte tutte le sue reazioni; esso è dunque pensato come una certa capacità di costituzione del proprio ambiente comportamentale. Seguiremo poi Merleau-Ponty nell’individuazione della strutturazione peculiare del mondo comportamentale umano, individuata in quella che, ne La struttura del comportamento, Egli chiama forma

simbolica. Mettendola bene a fuoco la ricondurremo all’ambiguità fondamentale in cui

ci è dato il nostro corpo, coincidenza paradossale tra potenza attiva che si volge verso il mondo, e parte del mondo stesso a cui tale attività può volgersi come ad un aggetto fra gli altri. Questo ci condurrà ad un breve excursus nell’Opera di Edmund Husserl, per rintracciare in essa le origini della presa di coscienza teoretica dell’ambiguità fondamentale in cui abbiamo esperienza del nostro corpo. Questo ci permetterà di mettere bene in luce quanto scorto nell’analisi della forma simbolica, introducendo le nozioni di Leib (corpo vivo) e Körper (corpo oggetto), attraverso le quali potremo illuminare più chiaramente cosa intendiamo parlando di ambiguità del corpo.

Nel secondo capitolo tratteremo soprattutto la Fenomenologia della percezione, ponendola come un tentativo di risposta ai problemi emersi nell’opera che la precede, e come uno sforzo teorico di formulazione di un pensiero che sia in grado di accogliere

(9)

ciò che attraverso di essi viene posto all’attenzione. In questo sforzo si mostra tutto il credito che quest’opera deve alla fenomenologia husserliana, in particolare agli inediti consultati prima della sua stesura nell’archivio di Lovanio2. Infatti negli inediti husserliani, in particolare in quelli che andranno poi a comporre l’opera postuma postuma La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Egli trova la nozione di intenzionalità fungente e di mondo della vita alle quali accorda un primato rispetto all’intenzionalità tetica e al mondo oggettivo. Questo tipo di intenzionalità implicita, diretta ad un oggetto ancora aperto e parzialmente indeterminato, apre alla possibilità di pensare la coscienza percettiva il di là della dicotomia tra razionalismo ed empirismo. Essa infatti porta alla possibilità di riconoscere il corpo come detentore di un “sapere” non presente a se stesso, e che, proprio rimanendo occulto, permette l’apparizione dell’oggetto esterno ed indipendente come puro in sé. Gli oggetti posti in sé dell’intenzionalità tetica, che generano la dicotomia tra essi e la soggettività per cui sono, si rivelano poggiare su un’intenzionalità opaca, ancora implicita, che non dispiega chiaramente i suoi oggetti di fronte a sé. Dunque nel mondo della vita, che è il suo correlato, qualunque distinzione tra un soggetto autocosciente e un mondo del tutto dispiegato di fronte a lui è fittizia ed astrattiva. Perciò, superato il pregiudizio del mondo oggettivo, risulta anche superata la distinzione tra soggetto ed oggetto che ne deriva, ed emerge il rimando reciproco e la co-appartenenza originaria tra soggetto e oggetto, organismo e mondo. Così la soggettività più originaria, non ulteriormente semplificabile, viene identificata nella struttura ambigua dell’essere-al-mondo. Seguiremo poi le analisi che Merleau-Ponty fa dei casi di arto fantasma e anosognosia, per mostrare come la loro spiegazione divenga possibile solamente ammettendo una coscienza pre-oggettiva del corpo proprio, che dunque non può essere pensato come una rappresentazione. Questo permette di riconoscere la sua natura ambigua e paradossale come originaria, la cui comprensione si conclude attraverso l’esplicitazione della struttura temporale. L’introduzione della dimensione temporale ci apre alla possibilità di intendere il corpo come l’unità del divenire dialettico di Leib e

Körper, unità che si costituisce nel movimento nel quale la vita si proietta oltre il

mondo dato, oltre il Körper, e sempre si riafferra nel mondo, sempre si ri-conosce

2

(10)

come Körper. Questo movimento a spirale di ripresa e superamento è quello che Merleau-Ponty intende con il termine esistenza.

Nella restante parte del capitolo siamo ritornati poi a mettere in correlazione i comportamenti specificatamente umani con l’esperienza del proprio corpo come irriducibile ambiguità. In particolare abbiamo messo in luce come la possibilità di rivolgere le proprie intenzioni motorie non solo verso il mondo in cui col nostro corpo ci muoviamo, ma verso questo corpo come parte di esso, ovvero l’apparizione del Leib a se stesso come Körper, permettendo l’emersione di quest’ultimo dalla sfondo indistinto ne motiva un certo distacco dalla situazione data. Grazie a questo sganciamento parziale dalla situazione esso può inaugurare un senso oltre di essa, può essere evocativo di un contesto altro da quello direttamente dato; diviene luogo

espressivo, veicolo di un nuovo significato. Così riconosceremo il corpo come una

naturale potenza simbolica. Portata alla luce la natura intrinsecamente espressiva del corpo la riscopriremo poi alla base della capacità umana di utilizzare strumenti, e da qui ci concentreremo su quel particolare strumento che è il linguaggio. Attraverso l’individuazione dell’origine gestuale del linguaggio seguiremo poi Merleau-Ponty nella affermazione dell’identità di espresso ed espressione, che ancora una volta sarà compresa attraverso l’unità dialettica di Leib e Körper. Tale identità ci darà l’occasione di ricollegarci con alcuni di quelli che saranno i risvolti conclusivi del Suo pensiero, in particolare con alcuni temi de L’occhio e lo spirito e il postumo Il visibile e l’invisibile. Nel terzo capitolo tenteremo infine di far dialogare il pensiero di Merleau-Ponty con l’Opera di Georges Bataille. Lo faremo avvicinando il ruolo che nel primo gioca il corpo, con quello che nel secondo gioca la nozione di dépense. Essi sono infatti accomunati dall’essere entrambi elementi che sfuggono al pensiero riflesso e non compaiono nella realtà oggettiva; sono quindi utilizzati dai due autori come rivelatori di una dimensione diversa da tale realtà, per denunciarne così la mancata esaustività ed autosufficienza. Data poi la diversità di orizzonti in cui si muovono i due autori questo sforzo comune prende corpo e si snoda attraverso ambiti e tematiche differenti, e conduce a diverse conclusioni. Ma proprio il riconoscimento della loro diversità ci permetterà di far dialogare in maniera fruttuosa i due autori, illuminando il pensiero dell’uno attraverso quello dell’altro e viceversa. In particolare comprenderemo la dialettica che Bataille individua tra sacro e profano, come una modulazione in chiave socio-antropologica di

(11)

quella emersa in un orizzonte epistemologico tra Leib e Körper. Ed allo stesso tempo amplieremo la prospettiva in cui assumere l’ambiguità fondamentale del corpo, riscoprendola dietro i comportamenti sociali e culturali tipici delle comunità umane, riconoscendoli come pratiche socio-culturali in cui si incarna l’esperienza originaria di un’ambiguità fondamentale.

(12)

CAPITOLO I

Disvelamento del corpo oltre le categorie classiche di soggetto ed

oggetto proprie del mondo oggettivo. Il corpo come ambiguità

originaria

- Il pregiudizio del mondo è il presupposto comune delle teorie razionaliste ed empiriste della percezione, e questo coincide con la riduzione del corpo ad oggetto

Il senso generale delle analisi di Merleau-Ponty che confluiranno ne La struttura del

comportamento3, è quello di una definitiva presa di coscienza dell’incapacità, da parte delle teorie psicologiche classiche, empiriste e razionaliste, di afferrare e render ragione del comportamento umano. Questa comune insufficienza dei vari indirizzi di ricerca psicologica contemporanei alla stesura dell’opera, porta il filosofo francese ad accomunare i due impianti teorici a cui essi si rifanno, quello razionalista e quello empirista, ed a denunciarne i limiti condivisi. Questa presa di coscienza si accompagna alla messa in luce della necessità di individuare una “terza via” attraverso la quale comprendere il fenomeno vitale umano nella sua interezza, partendo dalla comprensione della sua esperienza originaria e fondante: l’esperienza percettiva. Essa si è infatti mostrata inafferrabile all’interno del quadro teorico classico, basato sull’assunzione di una netta dicotomia ontologica tra in sé e per sé, e deve essere fatta oggetto di uno sguardo che sia capace di restituirla senza superarla e distorcerla, uno sguardo che possa dimorare in essa e portare alla luce la sua struttura propria. In questa opera tale via che condurrebbe alla percezione è solamente auspicata senza essere individuata in maniera chiara.

3

(13)

La sua individuazione avverrà nell’opera successiva, Fenomenologia della percezione4, pubblicata tre anni dopo. In essa, sulla scia degli inediti husserliani che ha avuto occasione di consultare durante la guerra, Merleau-Ponty trova nella descrizione fenomenologica quella via attraverso la quale accedere al fenomeno percettivo senza annullarne il carattere peculiare. La possibilità della via fenomenologica è aperta dalla messa a fuoco del presupposto implicito nell’atteggiamento gnoseologico condiviso dall’empirismo e dal razionalismo, e dalla sua conseguente sospensione5. Tale presupposto è quello dell’esistenza del “mondo in sé”, mondo che, predeterminato rispetto a qualsiasi atto percettivo in cui ci è dato, ne sarebbe la causa. Questa assunzione preliminare non è riconducibile ad una determinata presa di posizione esplicitamente condivisa, ma agisce quale credenza operante sullo sfondo di tutte le analisi condotte. In questo momento a noi interessa mostrare come essa emerga alla base delle due tradizioni attraverso la nozione di sensazione, punto di partenza da cui si diramano le due spiegazioni contrapposte. Da qui porremo l’attenzione sul fatto che un punto necessariamente implicito in questa credenza preliminare è la comprensione del corpo in quanto parte di questo mondo in sé, e che, dunque, la dimostrazione dell’impossibilità di questa riduzione, se realmente assunta in tutte le sue conseguenze, comporta immediatamente il suo superamento.

Ponendoci in una prospettiva empirista e rivolgendoci all’esperienza percettiva troviamo la nozione di sensazione come l’elemento più semplice di cui essa sia composta, ma quando si cerca di afferrarla in maniera chiara essa sembra sfuggente e piuttosto confusa.

Per prima cosa con essa si potrebbe indicare l’effetto che uno stimolo ha su di me, la sua maniera di manifestarsi in me. Essa sarebbe quindi “l’esperienza di uno stato di me stesso”6, e il sentire si ridurrebbe ad una coincidenza assoluta con il sentito. Così intesa la sensazione non può consistere in nulla di qualificabile, poiché qualsiasi contenuto, per essere anche genericamente determinato, deve costituirsi di fronte a me, e quindi

4

Phénoménologie de la perception, Librairie Gallimard, Paris 1945.

5 È evidente che qui stiamo accennando alla riduzione fenomenologica, sulla quale torneremo all’inizio

del secondo capitolo. Ora ci interessa soltanto far emergere come l’oggettivazione del corpo sia conseguenza necessaria di qualunque analisi condotta in un contesto non adeguatamente ridotto.

6

Maurice Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, [1945]. Tr. it. Andrea Bonomi,

(14)

cessare di esser me stesso. Questa sensazione pura come shock puntuale e inafferrabile non corrisponde a nulla di cui abbiamo attualmente esperienza. Infatti, come è ampiamente dimostrato in La struttura del comportamento7, anche le percezioni più semplici non riguardano mai elementi singoli ma sempre relazioni. Ogni parte dello spettacolo percepito non può essere assunta in maniera isolata, poiché rimanda oltre sé stessa allo spettacolo nella sua interezza, ovvero, appare già sempre investita di un senso. Eppure, nonostante questa impossibilità di fatto, nell’analisi ci si sente legittimati di diritto a distinguere uno strato di “impressioni”. Queste introduzione di impressioni “impercepibili” è resa possibile da un’analisi che invece di aderire all’atto percettivo attraverso cui il mondo in sé mi è dato, lo scavalca verso questo mondo in sé, e a partire da esso pretende di spiegarlo.

“La pura impressione è non soltanto introvabile, ma anche impercettibile, e quindi impensabile come momento della percezione. Se la si introduce, è perché, invece di rimanere attenti all’esperienza percettiva, la si dimentica in favore dell’oggetto percepito. Un campo visivo non è fatto di visioni locali. Ma l’oggetto visto è fatto di frammenti di materia e i punti dello spazio sono l’uno esteriore all’altro. Un dato percettivo isolato è inconcepibile *…+. Ma nel mondo vi sono oggetti isolati.”8

La nozione di sensazione sembra così ovvia ed evidente solo perché poggia sull’ovvietà e l’evidenza dell’oggetto percepito, e quindi può figurare all’interno di un’analisi a condizione che in essa si presupponga, senza accorgersene, ciò che si crede di spiegare. Questo emerge chiaramente quando si tenta di chiarire la nozione di sensazione attraverso quella di qualità, ovvero quando si crede che vedere sia avere dei colori o delle luci, che udire sia avere dei suoni. Infatti, se ricollocata nell’esperienza percettiva, la qualità non appare mai come contenuto di coscienza isolato, ma come proprietà di un certo oggetto; essa non precede il mondo in sé, ma lo presuppone, poiché vi è individuata come un suo aspetto. La qualità non è quindi elemento della coscienza, ma oggetto per essa. Inoltre è solo definendo il mondo percepito come il correlato isomorfico dei processi di ordine causale che avvengono

7

Cfr. La struttura del comportamento, Mimesis, Milano-Udine, 2010, pp. 120-121.

(15)

nel mondo in sé, che la qualità è concepita come pienamente determinata. Infatti nel mondo in sé nulla è indeterminato, qualunque possibilità di equivoco non risiede nell’oggetto, ma in noi, il fenomeno dell’indeterminatezza ha solo una dimensione negativa e di per sé è nulla. Prendiamo l’esempio del campo visivo. Attraverso l’ottica e la geometria si costruisce l’immagine del mondo dataci nella percezione visiva, identificandola con quel frammento di esso che si riflette sulla nostra retina. Perciò il mondo percepito è pensato come un campo saturo di qualità e sotteso da rapporti di grandezza univocamente determinati come quelli che possono essere costatati sulla superfice oculare. Volgendosi poi all’esperienza percettiva ci si accorge che nulla di simile è dato in essa9, e che pretendendo di derivare da questa immagine retinica lo spettacolo percepito si introducono illegittimamente in esso elementi che non gli appartengono, fallendo completamente il tentativo di comprenderlo.

Dunque se con “sensazione” si intende la qualità determinata non solo essa cessa di essere un elemento della coscienza per divenire un suo oggetto, ma, più precisamente, essa emerge come “l’oggetto tardivo di una coscienza scientifica”10. L’apparente ovvietà ed evidenza della sensazione come elemento della percezione viene dall’apparente ovvietà ed evidenza del mondo oggettivo da cui la teoria empiristica della percezione prende le mosse.

“Vi sono due modi di ingannarsi sulla qualità: il primo consiste nel farne un elemento della coscienza, mentre essa è oggetto per la coscienza *…+, il secondo consiste nel credere che al livello della qualità questo senso e questo oggetto siano pieni e determinati. E, come il primo, il secondo errore deriva dal pregiudizio del mondo.”11

Questo pregiudizio non guida soltanto le analisi empiriste, ma lo si ritrova inalterato dietro le analisi che conducono ad affermare la sua antitesi. L’intellettualismo, infatti, parte dal modello empirista della percezione per portarlo alle estreme conseguenze,

9

“Nella illusione di Müller-Lyer (fig.1) i due segmenti di retta non sono né uguali né diseguali: questa alternativa si impone solo nel mondo oggettivo. Il campo visivo è quel particolare ambito in cui le nozioni contraddittorie si incrociano perché, in esso, gli oggetti – le rette di Müller-Lyer – non sono posti sul terreno dell’essere, ove sarebbe possibile un confronto, ma colto ciascuno nel suo contesto privato, come se non appartenessero al medesimo universo.” Ivi, p. 38.

10

Ivi, p. 39.

11

(16)

mostrarne l’insostenibilità, ed affermarne per assurdo l’antitesi. Così esso risulta condizionato dalle assunzioni empiriste, e può affermarsi come sua negazione solo nella misura in cui si pone sul suo stesso terreno. Ciò risulta evidente quando si vuole comprendere la funzione che il concetto di giudizio svolge nella teoria intellettualistica della percezione. Esso, infatti, emerge nell’analisi come ipotesi necessaria affinché ciò

che è oggettivamente dato ai nostri sensi possa costituirsi come lo spettacolo percettivo di cui abbiamo realmente esperienza nella percezione. È quindi a partire

dalla nozione empirista di sensazione che il giudizio viene pensato come elemento dell’esperienza percettiva, anche se come tutto ciò che sensazione non è, anzi, a ben vedere proprio per questo.

“Il giudizio è spesso introdotto come ciò che manca alla sensazione per rendere possibile

una percezione. La sensazione non è più presupposta come elemento reale della

coscienza. Ma quando si vuole delineare la struttura della percezione lo si fa seguendo la traccia delle sensazioni. L’analisi si trova dominata da questa nozione empiristica, quantunque non sia ricevuta se non come il limite della coscienza e serva solo a manifestare un potere di collegamento di cui è l’opposto.”12

Nell’analisi intellettualistica, vedere, toccare, e in generale ciò che concerne il nostro apparato sensorio, sono assunti nella medesima maniera che nella prospettiva empirista, vedere è avere delle impressioni retiniche e toccare è l’effetto di una stimolazione meccanica su una superfice determinata. Detto altrimenti: il nostro corpo ed i suoi organi di senso sono relegati nella dimensione del puro in sé e condannati alla assoluta esteriorità delle parti. Ed è partendo da questo corpo ridotto all’oggetto della scienza anatomica che, per spiegare il fenomeno percettivo direttamente esperito, si è costretti ad introdurre un’attività logica di collegamento sul modello del giudizio predicativo, con il risultato di mancare l’analisi della percezione, superandola nel pensiero di percepire; “vedere”, “toccare”, “udire” perdono il loro significato peculiare e sono ricompresi nel “giudicare”.

12

(17)

“Una volta definita la visione alla maniera degli empiristi, cioè come il possesso di una qualità inscritta dallo stimolo sul corpo, anche l’illusione più insignificante è sufficiente a stabilire che la percezione è un giudizio, poiché dà all’oggetto proprietà che esso non ha sulla mia retina. *…+ La percezione diviene una “interpretazione” dei segni che la sensibilità fornisce conformemente agli stimoli corporei, una “ipotesi” che lo spirito fa per “spiegarsi le sue impressioni. Ma anche il giudizio *…+ anziché essere l’atto stesso del percepire colto dall’interno in virtù di una riflessione autentica, ridiviene un semplice “fattore” della percezione incaricato di fornire ciò che non fornisce il corpo-, anziché essere un’attività trascendentale, ridiviene una semplice attività logica di conclusione.”13

A questo punto emerge chiaramente un presupposto teorico che fa tutt’uno con quel “pregiudizio del mondo” che abbiamo riscoperto alla base delle teorie classiche della percezione, ovvero la riducibilità del corpo ad oggetto. È infatti ponendo il nostro corpo come interamente determinato da rapporti di causalità che la teoria empirista è portata ad ammettere “l’ipotesi di costanza”14 come un assioma irrinunciabile da cui comprendere il fenomeno percettivo, nonostante contrasti chiaramente con le evidenze sperimentali15. Ed è sempre partendo da questo corpo-cosa, completamente chiuso in un mondo inerte, che la deduzione di un puro per sé come suo correlato diviene non soltanto possibile, ma appare anzi necessaria. Una volta definito il mondo come un insieme di oggetti assolutamente determinati, ed avendo ricondotto il corpo ad uno di essi, si è già anche definita la coscienza come universale ed eterno spirito costituente.

“È un fatto che, innanzitutto, io mi credo circondato dal mio corpo, preso nel mondo, situato qui e ora. Ma, quando vi rifletto, ciascuna di queste parole è priva di senso e non pone quindi nessun problema: mi riconoscerei <<circondato dal mio corpo>> se non fossi in esso altrettanto che in me, se non pensassi io stesso questo rapporto spaziale e non sfuggissi così all’inerenza nel momento stesso in cui me la rappresento? Saprei che sono preso nel mondo e che vi sono situato se vi fossi veramente preso e situato? Al pari

13

Ivi, p. 70.

14 “Una volta dato il mondo oggettivo, si ammette che esso affida agli organi di senso messaggi che

devono quindi essere portati, poi decifrati, in modo da riprodurre in noi il testo originale. Ne deriva, in via di principio, una corrispondenza puntuale e una connessione costante fra lo stimolo e la percezione elementare.” Ivi, p. 40.

15

(18)

di una cosa, mi limiterei allora a essere dove sono: se però so dove sono e vedo me stesso in mezzo alle cose, è perché sono una coscienza, un essere singolo che non risiede in nessun luogo e può rendersi presente ovunque in intenzione. Tutto ciò che esiste o come cosa o come coscienza, e non c’è via di mezzo. La cosa è in un luogo, ma la percezione non è in nessun luogo: infatti, se fosse situata, essa non potrebbe far esistere

per se stessa le altre cose. La percezione è quindi pensiero di percepire.”16

Dunque analizzando l’approccio empirista e razionalista alla percezione, dietro il loro comune riferimento alla nozione di sensazione, abbiamo scoperto la condivisa credenza nell’esistenza del mondo in sé quale origine ultima delle due opposte concezioni. In particolare abbiamo voluto mettere a fuoco l’inclusione senza residui del corpo nell’in sé, come momento necessario e cruciale implicito in ogni tappa delle analisi delle due teorie.

“Quel passaggio dalla tesi all’antitesi, quel capovolgimento dal pro al contro che è il procedimento costante dell’intellettualismo lascia immutato il punto di partenza dell’analisi; si partiva da un mondo in sé che agiva sui nostri occhi per farsi vedere da noi, si ha ora una coscienza o un pensiero del mondo, ma la natura stessa di questo mondo non è cambiata: esso è sempre definito dall’esteriorità delle parti. Semplicemente, in tutta la sua estensione è sdoppiato in un pensiero su cui si fonda.”17

Nel seguito del capitolo vorremmo ripercorrere il tratto fondamentale dell’itinerario di pensiero del filosofo francese che va dalla stesura de La struttura del comportamento alla pubblicazione de La fenomenologia della percezione, ricostruendo, retroattivamente, le tappe di tale percorso alla luce della elaborazione della tematica del corpo che appare nell’opera del ’45. Visto il ruolo essenziale che la nozione del corpo-cosa riveste nell’elaborazione delle teorie classiche della percezione, una sua revisione comporta il superamento di quest’ultime, e non un loro superamento parziale, corrispondente ad un aggiustamento da apportare all’interno del medesimo quadro teorico con l’istaurazione di una “nuova” teoria. Ma un superamento completo e definitivo, perché riguarderebbe il quadro ontologico implicito da cui prende avvio

16

Ivi, p. 75.

(19)

ed in cui si sviluppano entrambe. Come abbiamo fatto emergere, questo quadro ontologico è riconducibile, in fondo, alla rigorosa ontologia dicotomica cartesiana, alla necessità che l’essere sia declinato solo nei sensi univoci ed esclusivi di estensione e

pensiero, condannando il corpo a riposare in sé e, allo stesso tempo, la coscienza a

sorvolare il mondo ed i suoi oggetti, tutti accumunati dalla medesima indifferente estraneità. Tenendo quindi ben presente cosa sia costantemente in gioco nella trattazione della tematica del corpo, essa non può essere pensata come una componente parziale ed isolabile del pensiero di Merleau-Ponty, ma deve essere compresa come centro nodale del suo pensiero, nel quale sono rintracciabili i suoi diversi esiti. Per questo crediamo che attraverso il tema del corpo si possa dare una lettura del pensiero del filosofo senza il pericolo che essa risulti parziale o arbitraria, e che, anzi, il corpo rappresenti una chiave interessante per tentare una lettura unitaria ed organica del suo percorso filosofico.

- Il soggetto del comportamento non rientra nella distinzione cartesiana tra res cogitans e res extensa. Superamento della falsa alternativa tra empirismo e razionalismo attraverso la nozione di “gestalt”

L’analisi approfondita della nozione di comportamento, che culmina nella pubblicazione della prima fondamentale opera del filosofo, è intrapresa con il chiaro scopo di trovare una nuova formulazione al problema attorno al quale si struttura tutto il pensiero filosofico moderno: “i rapporti di coscienza e natura – organica, psicologica o anche sociale. Per natura intendiamo qui una molteplicità di eventi esterni gli uni agli altri e connessi da rapporti di causalità”18. Per arrivare a gettare una luce nuova sulla tematica, al di là delle prospettive classiche, Merleau-Ponty parte da un’analisi critica dei vari principali indirizzi di ricerca psicologica che in quegli anni tentano di render ragione del fenomeno organico-vitale. Essi, guidati dall’ideale di un pensiero oggettivante universale e partendo dall’assunzione dell’universo della fisica in quanto realtà in sé, non possono riconoscere la specificità dei fenomeni di coscienza se

18

(20)

non facendone un secondo ordine di realtà, una “cosa” avente caratteri peculiari, legato al primo da rapporti esteriori di causalità. E, di contro, non possono negare la coscienza come “realtà interiore”, totalmente altra rispetto a qualsiasi esteriorità, senza relegarla ad una somma di unità atomiche, la coordinazione delle quali è oggetto di studio della sola fisiologia. Merleau-Ponty tenta di uscire dal pantano di questa alternativa mostrando come il fenomeno del comportamento avvenga in una dimensione inaccessibile ai metodi di indagine tradizionali, poiché se il soggetto di tale comportamento non è identificabile con la base organica in cui si realizza, non lo è nemmeno con un pensiero indipendente ed esteriore che agirebbe su di essa come una causa.

Un tentativo di superamento di questa alternativa è dato, secondo il Nostro, dalla nozione di comportamento introdotta dal behaviorismo americano, in particolare per come viene teorizzata dal suo fondatore J. Watson19. Attraverso di essa, infatti, si voleva individuare l’essenza del fenomeno vitale nella mutua interazione tra l’organismo ed il suo ambiente, nel loro farsi reciproco e dialettico; e non porlo nell’intima oscurità dell’interiorità psicologica o in un preordinato meccanismo nervoso. Ma questa intuizione, non debitamente supportata teoricamente, ed ancorata ad una prospettiva ancora limitata alle sole relazioni causali, non può che travisarsi riconducendo le interazioni tra organismo e ambiente (costituenti il comportamento) a relazioni tra oggetti esteriori l’uno all’altro, che in quanto tali, non ammettono altre connessioni rispetto a quelle di causa ed effetto20. In questo modo il fenomeno vitale è circoscritto a ciò che di esso possiamo afferrare in una analisi di tipo fisico o fisiologico, ed è quindi ricondotto ad una somma di riflessi occasionati da stimoli determinati, i quali agiscono attraverso circuiti preesistenti. La critica della “teoria del riflesso”21, che occupa buona parte dell’opera, non mira tanto a mettere in luce l’insufficienza della sua formulazione classica22, quanto a far emergere come le ultime acquisizioni in ambito fisiologico portino alla luce fenomeni, la cui

19

Thomas John Watson (Campbell 1874 – New York 1956).

20

“Watson, parlando di comportamento, voleva riferirsi a ciò che altri hanno chiamato esistenza, e la nuova nozione non poteva ottenere il proprio statuto filosofico se non abbandonando il pensiero causale o meccanico per quello dialettico” Merleau-Ponty, La struttura del comportamento, p. 11.

21

Merleau-Ponty, La struttura del comportamento, p. 15.

22

(21)

comprensione necessita la creazione di nuove categorie, che permettano di pensarli in maniera adeguata. In particolare ci interessa qui porre in risalto come questo mutamento di paradigma si accompagni, o meglio si compia attraverso, ad una rielaborazione della nozione di corporeità.

Inglobando senza residui l’organismo in un sistema regolato da nessi causali, le interazioni tra esso e l’ambiente sono comprese in uno schema rigidamente bipartito: da una parte un universo oggettivamente determinato che agisce da stimolo su dei recettori, dall’altra delle vie predeterminate che conducono dalla parte ricettiva a quella motrice, determinando così la risposta motoria. La componente ricettiva e quella motoria del sistema nervoso sono prese come indipendenti, e all’interno di questa causalità lineare la reazione dell’organismo non può essere detta orientata se non per equivoco. Essa infatti risulta da un meccanismo preesistente alla situazione in cui si trova ad essere attuata23. Così dotati di schemi esplicativi che pretendono di far risultare il comportamento da una composizione di parti, e che bandiscono ogni riferimento ad un lessico finalistico, ci si trova privi di strumenti concettuali idonei a render ragione di moltissimi fenomeni messi in evidenza dalla letteratura sull’argomento. Tra questi, particolarmente illuminanti sono i casi in cui si osservano processi di riorganizzazione e sostituzione, ovvero quei casi in cui la messa in atto di un dato comportamento è impedita nella sua forma abituale e si assiste all’adozione di forme alternative. Analizzando come ciò si verifica sia nell’uomo che in altri animali, si è portati ad escludere la possibilità che tale processo coincida con l’attivazione di un dispositivo anatomico prestabilito. Alla varietà dei sostrati anatomici in cui si realizzano i diversi comportamenti sostitutivi, si contrappone una relativa costanza del senso vitale da questi espresso24. Dunque la relazione che lega il “vecchio” comportamento al “nuovo” è rilevabile soltanto da uno sguardo che colga le sue singole componenti

23

“Le azioni non sono determinate, a nessun livello, dalla natura intrinseca della situazione, ma esclusivamente dalle connessioni preesistenti. La situazione non interviene che come un fattore che gira la chiave, preme il bottone e mette in moto la macchina. Ma, proprio come una macchina, l’animale non può agire che secondo il sistema delle connessioni prestabilite, che l’azione sia o non sia adeguata alle circostanze. Il rapporto tra situazione e risposta è dunque solo contingente. La fisiologia classica del riflesso vuole che la funzione non sia che un prodotto o un risultato delle strutture esistenti; ne nega insomma la realtà propria e obiettiva: la funzione è solo un modo umano di designare gli effetti del meccanismo.” Ivi, p.42.

24

(22)

attraverso il senso che le investe di una direzione comune, senso che non può apparire attraverso le sue parti prese singolarmente.

“Ma è in un altro senso che il riflesso sarebbe relativamente indipendente dai substrati nei quali si realizza. *…+ l’attività riflessa sarebbe capace di improvvisare sostituzioni approssimative che, senza costituire mai l’esatto equivalente della reazione divenuta impossibile, conserverebbe all’organismo la funzione minacciata. Un risultato funzionale pressappoco costante verrebbe quindi ottenuto con <<mezzi>> variabili, e sarebbe giusto dire che è la funzione che permette di comprendere l’organismo.”25

Dunque Il processo riorganizzativo che porta alla sostituzione rimane incomprensibile se si pensa il fenomeno come un insieme di eventi esteriori verificantesi in una regione definita dello spazio oggettivo corrispondente al “corpo”. Al contrario esso rimanda in maniera essenziale alla situazione26, non intesa come mondo oggettivo, determinato in sé, ma come habitat inerente all’organismo ed investito di un senso.

“Ma il migliore esempio di una attività nervosa orientata verso l’equilibrio funzionale è dato dalla funzione visiva negli emianopsici. Se si determinano, misurando il perimetro della visione, i settori retinici che rimangono in grado di procurare sensazioni luminose nell’emianopsico, si constata che questi non dispone più che di due semiretine, e ci si attenderebbe perciò che il suo campo visivo corrispondesse alla metà, destra o sinistra secondo il caso, di un campo visivo normale, con una zona di visione chiara periferica. Ma non è affatto così: il soggetto ha la sensazione di vederci male, ma non di disporre di solo metà campo visivo. Il fatto è che l’organismo si è adattato alla situazione creata

25

Ivi, pp. 44-45.

26

“È noto da tempo che lo scarabeo stercorario, dopo l’estirpazione di una o più falangi, è in grado di continuare immediatamente il proprio cammino. Ma i movimenti del moncherino che rimane e quelli del corpo nel suo insieme non sono una semplice continuazione di quelli del cammino normale; rappresentano un modo nuovo di locomozione, una soluzione del problema che si pone soltanto ora, con la estirpazione. Questa riorganizzazione del funzionamento di un organo (Umstellung) si produce soltanto quando sia resa necessaria dalla natura del suolo: su un terreno di livello diseguale dove il membro, benché accorciato, può trovare dei punti di appoggio, il processo normale di avanzamento viene conservato; è abbandonato invece quando l’animale raggiunge un terreno liscio. La riorganizzazione del funzionamento non è dunque messa in atto automaticamente con la ablazione di una o più falangi, come sarebbe se si trattasse di un dispositivo prestabilito di soccorso; questa riorganizzazione non si verifica che sotto la pressione delle condizioni esteriori, e siamo indotti a pensare che si tratti di un’organizzazione improvvisata, come già per il processo di fissazione, da forze

(23)

dalla malattia, riorganizzando il funzionamento dell’occhio. I globi oculari, oscillando, riescono a presentare una parte intatta della retina alle eccitazioni luminose, che vengano da destra o da sinistra; in altre parole, il settore retinico inalterato, anziché rimanere interessato, come prima della malattia, alla recezione dei raggi luminosi che provengono da una metà del campo, si è installato nell’orbita in una posizione centrale. Ma la riorganizzazione del funzionamento muscolare – paragonabile a quanto abbiamo osservato per il riflesso di fissazione – non darebbe alcun risultato se non si accompagnasse a una redistribuzione delle funzioni negli elementi retinici e negli elementi della calcarina che paiono corrispondere puntualmente a quest’ultimi.”27

Da questo caso si evince in maniera incontrovertibile che la funzione svolta da una porzione del corpo oggettivo non è mai completamente definita dalla sua struttura anatomica; essa rivela, invece, una certa elasticità nell’assolvimento di diversi ruoli funzionali. Tale elasticità, non essendo casuale, ma dando vita a sostituzioni funzionali, apre alla necessità di una “regolamentazione” che leghi in maniera intrinseca tutte le varie componenti in cui è scomponibile il processo, rendendole aspetti di un unico movimento orientato. Come nell’esempio non sono isolabili la riorganizzazione dell’ambito motorio e di quello percettivo, se non per astrazione da una totalità sinergica, il cui equilibrio non è definito dalla relazione delle sue parti interne, ma da relazioni biologicamente significative28 con l’ambiente circostante.

“La funzione che ogni parte della retina assolve nel processo complessivo, varia a seconda del compito di fronte al quale l’organismo è posto, secondo il genere di soluzione che viene resa necessaria da ogni situazione particolare.”29

Dunque attraverso i casi di riorganizzazione funzionale abbiamo individuato un’attività di organizzazione della materia organica non derivabile dalla materia organizzata, anzi, tale riorganizzazione ci costringe ad ammettere un orizzonte di senso unitario di cui essa è espressione, ed all’interno del quale soltanto, il divenire dei diversi elementi anatomici che compongono la materia organica diviene comprensibile. D’altro conto,

27 Ivi, p. 48. 28

Al riguardo è significativo che se una sostituzione biologicamente adeguata è impossibile il fenomeno di riorganizzazione non si verifica. “Fintanto che il riconoscimento degli oggetti non sia reso impossibile, per esempio nel caso di emiambliopia, non si verifica alcuna riorganizzazione funzionale”. Ivi, p. 51.

29

(24)

però, tale processo non coinvolge la coscienza riflessa, la sua direzionalità non è una intenzionalità cosciente e non è data quale correlato di un significato definito. Ci troviamo, quindi, di fronte a fenomeni che non possono rientrare nell’alternativa di “cosa” ed “idea”.

“Questi fatti sono dunque essenziali, dal nostro punto di vista, in quanto mettono in evidenza, tra il cieco meccanismo e il comportamento intelligente, un’attività orientata di cui il meccanismo e l’intellettualismo classici non sanno render conto”30

Se si volesse rimanere legati alla visione di un organismo la cui unità dovrebbe scaturire come un risultato dalla composizione delle sue parti, si sarebbe costretti ad introdurre il principio di organizzazione attraverso un “fattore” di controllo esterno che determinerebbe, per mezzo di un’azione causale, la coordinazione degli elementi del sistema che viene constatata. Ma con ciò il problema si riproporrebbe identico riguardo a tale fattore di controllo esterno: “resta ancora da comprendere come – tra tutti i possibili sistemi di connessioni, si realizzano normalmente soltanto quelli che hanno un valore biologico; e come questo circuito di cause e di effetti conduca, per riprendere le parole di Lapique31, ad <<un movimento>>, e non a <<spasmi convulsi privi di efficacia.>>32

Se al contrario si volesse render conto di tutto ciò mettendo capo ad una “coscienza” assoluta e trascendente i materiali in cui si realizza, i quali dunque si presenterebbero come il materiale indifferenziato di un’unità ideale, si andrebbe incontro ad altre contraddizioni rispetto ai fenomeni osservati. Infatti se è vero che nell’esempio degli emianopsici la funzione visiva si attua con una certa libertà rispetto alle strutture anatomiche in cui si realizza, è anche vero che tale libertà non è assoluta, la riorganizzazione non restaura una “funzione visiva” già definita, il soggetto ci vede “male”. Non v’è nessuna funzione visiva già fatta e precedente i materiali in cui si realizza, essa non è indifferente al sostrato organico, ma ne è il principio di organizzazione immanente33.

30

Ivi, p. 47.

31 Louis Édouard Lapicque (1866-1952) la cui teoria delle cronassie viene qui fatta oggetto di critica, v.d.

nota 33 p. 12.

32 Ivi, p. 58. 33

(25)

Merleau-Ponty comprende dunque la necessità di introdurre un concetto con il quale afferrare un’attività orientata e non meccanica (non rintracciabile nella categoria del puro in sé), ma che non sia un’attività riflessa e cosciente (spiegabile attraverso la distinzione tra un significato indipendente ed il processo in cui esso si esprime, secondo la classica separazione dell’espresso dall’espressione, dell’in sé dal per sé). Egli trova nella nozione di forma o struttura, alla base della Gestaltpsycologie34, l’introduzione di una categoria descrittiva nuova, capace di rispondere a questa esigenza. Con essa, nel suo senso più generale, si designa la natura relazionale di un sistema, ovvero si riconosce l’esistenza di una struttura di relazioni tra i termini, la cui costanza spiega il divenire dei termini stessi.

“Si dirà che v’è sempre una forma laddove le proprietà di un sistema si modificano per ogni mutamento concernente una sola delle sue parti, e laddove al contrario rimangono costanti quando le parti si mutano tutte conservando lo stesso rapporto tra di loro.”35

In questo modo si può riconoscere l’unità del sistema nervoso non concependola come il risultato della composizione delle sue parti, né adducendola all’intervento di un principio esterno ad esse. Questa possibilità è aperta dal fatto che la forma non è un oggetto dato in sé, indipendente, isolabile dal suo “contenuto”, discernibile dai suoi effetti; ed in quanto tale essa ci permette di superare il paradigma causale nelle sue due versioni complementari.

“L’immagine del sistema nervoso che ci offre l’analisi cronassica36 non può dunque essere posta in sé, né separata dal processo mediante il quale le cronassie si determinano reciprocamente. È questa autodistribuzione che si esprime nella nozione di forma. Non si tratta di una seconda causalità che sopraggiunga a correggere il meccanismo: questa obiezione può essere fatta se mai alla teoria dei centri motori. La

funzionali, si giunge alla conclusione che, se da un lato la lesione non coincide mai con la mancanza di contenuti determinati ma è sempre in riferimento alla loro organizzazione, dall’altra essa non intacca mai una funzione generica, ma lo fa sempre “in un punto” peculiare. Dunque l’apporto delle varie sezioni della materia organica coinvolte nell’espletazione di una funzione è, da un lato, non determinabile univocamente, ma, dall’altro, tale sostrato non è indifferenziato e le varie componenti contribuiscono alla funzione in maniera diversa.

34

Ivi, p. 47.

35

Ivi, p. 56.

36

Merleau-Ponty si riferisce al tentativo fatto da Lapique, di dar conto dell’interdipendenza delle parti del sistema nervoso tra di loro, attraverso la determinazione reciproca di dispositivi anatomici detti “cronassie”. Cfr. La struttura del comportamento p. 56-60.

(26)

nozione di forma non fa che esprimere le proprietà descrittive di determinati complessi naturali. È vero che rende possibile l’uso di un vocabolario finalista. Ma questa stessa possibilità è fondata nella natura dei fenomeni nervosi, ed esprime il tipo di unità che essi realizzano. I comportamenti <<privilegiati>> definiscono l’organismo altrettanto obiettivamente quanto lo può fare l’analisi cronassica se, come è necessario, si rinuncia al realismo meccanicista nello stesso tempo che al realismo finalista, cioè a tutte le forme del pensiero causale.”37

Questo passaggio non è però così immediato, e presuppone una riflessione sullo statuto proprio della forma al di là della funzione puramente descrittiva che ricopre in sede sperimentale; come è testimoniato dal fatto che la Gestaltpsychologie non riesce a porsi come vera alternativa rispetto all’antitesi classica, finendo col ricadere nel materialismo. Affronteremo questo nodo di fondamentale importanza nel prossimo paragrafo. Ora ci preme sottolineare come, analizzando la prima parte di La struttura

del comportamento, siano già emersi due aspetti centrali attorno a cui si organizzerà

l’opera successiva, La fenomenologia della percezione, e come essi affiorino in relazione diretta con la tematica del corpo.

Il primo emerge con la constatazione del fatto che il corpo appare attraversato da una tensione orientata che non è il risultato del suo stato attuale, ma che al contrario lo motiva. Detto altrimenti, esso ci appare già sempre investito di un senso e mai nello stato di puro oggetto anatomico, che dunque si rivela solo un’utile astrazione e non una realtà ultima. Questo senso che sembra farsi strada “nel” corpo e non se ne distingue mai completamente, che non accede alla trasparenza della coscienza tetica, resta quindi occulto ad una coscienza che si identifichi con la pura presenza a sé, e si ripieghi sull’essere in una immediata e universale coincidenza. Il suo riconoscimento è dunque il riconoscimento di un terreno a “metà strada” tra le categorie di soggetto e oggetto, di una dimensione in cui nulla riposa semplicemente in sé eppure tutto vi permane. Questa opacità originaria, che non è mai la densità infinita di una coincidenza assoluta, in cui appare il corpo, e a cui attraverso il corpo siamo introdotti, è l’eterno punto cieco di ogni prospettiva che si radichi nell’ovvietà dell’esistenza del

37

(27)

mondo in sé38. Il corpo ci apre dunque ad una vita ancora impersonale ed ineludibile, che, sostrato di ogni comportamento, è implicata anche in quelli cosiddetti “superiori”. È ora chiaro quale sarà la diretta conseguenza di una reale assunzione di quanto messo in luce già nelle prime pagine di quest’opera: l’impossibile assolutezza del cogito cartesiano. L’atto riflessivo nel quale si attinge la certezza del cogito poggia infatti su un insieme di acquisizioni irriflesse sedimentate nel corpo. La vita della coscienza personale rimane segretamente tributaria della sua esistenza a questo sfondo impersonale da cui emerge39. Questo porterà ad uno dei temi costanti di tutta l’opera del filosofo francese, ovvero l’ampliamento del concetto di coscienza oltre quella tetica che si tradurrà nelle opere mature nel corrispettivo ampliamento del concetto di logos, con l’introduzione del concetto di logos selvaggio40.

Il secondo aspetto, collegato al primo, che emerge dalla confutazione della “teoria del riflesso”, è la rivelazione di un corpo che non è mai dato come un’entità chiusa e autoreferenziale. Esso non è comprensibile come sostanza separata dal mondo circostante, ma risulta già da sempre coinvolto e avvolto in un mondo. Questo coinvolgimento non è però il suo inserimento in un mondo geografico oggettivo, ma l’inerenza del corpo ad un mondo la cui misura è data da esso stesso, che esso stesso investe di senso. Questo non va pensato nel senso di una priorità di un corpo completamente attivo su un mondo completamente passivo, prodotto della sua attività. Quello che si vuole intendere è la contemporaneità ambigua in cui l’ambiente è già sempre ambiente di un corpo, e il corpo è già sempre il corpo nel suo ambiente. Quell’unità inscindibile tra parte afferente e parte motoria riscontrata nel sistema nervoso sarà, una volta assunta l’originarietà dell’esperienza percettiva, il riscontro fisiologico dell’ambiguità non ulteriormente riducibile del corpo e del mondo, in quanto legati da un rapporto di dialettica reciprocità. Il corpo è da un lato ciò

38

Questo tema non è sviluppato fino in fondo ne La struttura del comportamento, esso sarà esplicitato in maniera chiara ne La fenomenologia dello spirito. In quest’ultima la nozione di “intenzionalità fungente”, ereditata da Husserl, grazie alla consultazione dei suoi inediti, permetterà a Merleau-Ponty di dare uno statuto definito a quel terreno d’indagine a cui era stato condotto dall’analisi del comportamento. Su questo torneremo più avanti a proposito della riduzione fenomenologica come via di accesso alla percezione.

39

Qui possiamo solo accennare alla tematica che è sviluppata ampiamente nel primo capitolo della terza parte de La fenomenologia della percezione, pp.477-525.

40

Cfr. Maurice Merleau-Ponty, Le visible et l’invisible, [1964]. Tr. it. A. Bonomi, Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano, 1969.

(28)

attraverso cui ho un mondo, ed allo stesso tempo ciò che per far sì che io lo abbia agisce in esso come sua parte, che anzi può farlo solo perché ne è parte.

“Riassumendo, la critica della teoria del riflesso e l’analisi di alcuni esempi dimostrano che si dovrebbe considerare il settore afferente del sistema nervoso come un sistema di forze che esprimono insieme lo stato intraorganico e l’influsso degli agenti esterni. Queste forze tendono ad equilibrarsi secondo modi privilegiati di distribuzione, e ottengono, dalle parti mobili del corpo, i movimenti adeguati a questo fine. Via via che si vanno effettuando, i movimenti provocano modificazioni nello stato del sistema afferente, le quali a loro volta provocano nuovi movimenti. Un processo così dinamico e circolare garantirebbe quella regolazione elastica che è necessaria per render conto del comportamento effettivo.”41

Questa simultaneità non ulteriormente scomponibile sarà alla base di quella struttura ultima che Merleau-Ponty nominerà, ne La fenomenologia della percezione,

l’essere-al-mondo.

Toneremo più avanti su questi due temi chiave del testo pubblicato nel ’45, quello che volevamo mostrare con questo breve accenno era come le loro premesse siano già chiare nell’opera precedente e, ancor più, mettere in evidenza il loro legame con il tema del corpo.

- La forma non è un elemento reale del mondo oggettivo, ma un oggetto della coscienza percettiva, che in quanto tale si rivela forma di coscienza originale e originaria

Il carattere non sostanziale della nozione di forma permette la sua applicazione all’interno dei diversi ordini di realtà in cui può venir scomposto il fenomeno unitario del comportamento. Infatti, come abbiamo visto, l’impossibilità di ridurre il comportamento a ciò che può figurare nel campo fisico ci ha portato a riconoscere l’esistenza di un campo fisiologico, ovvero “di un secondo sistema di <<tensioni e di

(29)

correnti>>”42, nel quale poter rinvenire il fenomeno vitale. Si è poi costretti dall’evidente originalità di altri fenomeni a riconoscere un “campo mentale” o psichico a fianco ai primi due nel quale farli rientrare. Fino ad ora di fronte a tali evidenze, disponendo di sole categorie sostanziali, si era costretti o a disconoscere l’originalità dei diversi campi e ricondurli tutti al primo, oppure a ricondurre l’irriducibile originalità di ognuno di essi ad altrettante realtà sostanziali legate tra loro da rapporti causali. L’applicabilità del concetto di forma a tutti questi campi permette di riconoscere loro una certa unità, pur mantenendo i loro caratteri peculiari, riferendoli non a diverse realtà, ma alle differenti strutture in cui essa si trova organizzata.

“La forma, che può essere riferita in modo uguale ai tre campi or ora definiti, potrebbe integrarli come tre tipi di strutture che superano le antinomie di materialismo e di spiritualismo, di materialismo e vitalismo. La quantità, l’ordine, il valore o il significato, che si sono considerate rispettivamente come proprietà essenziali della materia, della vita, dello spirito, diventerebbero così soltanto il carattere predominante nel settore considerato, e si trasformerebbero in categorie capaci di applicazione universale.”43

Se pensata fino in fondo, la nozione di forma rivela la mancata autosufficienza dei vari ordini di realtà messi prima in luce. Essi sono, infatti, ridotti ad una peculiarità di ordine strutturale e non sostanziale, non corrisponderebbero a diverse sostanze, bensì a diversi “livelli di integrazione” delle parti nell’insieme. In quanto tali queste forme non potrebbero essere derivabili l’una dall’altra o essere legate da rapporti causali, nessuna di esse avrebbe preminenza sulle altre e tutte sarebbero ugualmente legittime. Una volta riconosciuta la struttura alla base delle distinzioni classiche tra materia e vita, non si può né farle corrispondere a due sostanze separate, né porne separatamente una con l’intenzione di esaurire in essa le altre. Questo secondo errore è quello commesso dagli stessi scopritori del concetto di forma, dal quale sono stati incapaci di trarre tutte le implicite conclusioni.

“Il corpo umano viene collocato in mezzo ad un mondo fisico che sarebbe la <<causa>> delle sue reazioni – senza che ci si chieda quale significato assuma qui la parola causa, e

42

Ivi, p. 145.

43

(30)

nonostante tutto ciò che la Gestalttheorie ha fatto per dimostrare che nessuna forma ha fuori di sé la propria ragion sufficiente. In questo modo il comportamento può apparire a questi psicologi solo come una provincia dell’universo fisico; quest’ultimo si sostituisce alle forme nella funzione di ambiente universale che esse dovrebbero esercitare. Con l’introdurre le considerazioni di struttura, la psicologia della forma non ritiene di aver superato la nozione del mondo fisico come amnitudo relationis, per il fatto che già in esso si trovano delle strutture.”44

In questo modo l’integrazione tra materia, vita e spirito è riconosciuta a spese della loro originalità, le forme irriducibili che esse rappresentano sono state appiattite su una di esse. In definitiva è sempre la forma fisica che “spiega” l’emersione delle altre. Ad esempio saranno i caratteri oggettivi che un oggetto ha nella forma fisica che faranno sì che io adotti un determinato comportamento nei suoi confronti piuttosto che un altro. Sarebbe a dire che è nella sola forma fisica che è inscritto come esso sarà oggetto del mio comportamento.

“La presa di coscienza non aggiunge nulla alle strutture fisiche, ma è soltanto l’indice di strutture fisiche particolarmente complesse. Queste strutture, e non la coscienza, sono indispensabili a questa teoria per definire l’uomo.”45

A ben guardare ciò che è alla base di entrambe le contrapposte soluzioni è la comprensione della forma come elemento reale. “Realizzazione” della forma che a sua volta è motivata dalla posizione del mondo fisico come orizzonte onnicomprensivo di tutte le cose, cosicché non resta che porre la forma in esso e farvela figurare come sua regione (materialismo), o mantenerne la sua specificità e differenziarla contrapponendo alla “cosa” fisica un’altra “cosa” da essa separata (spiritualismo). Dunque ciò che ha impedito alla Gestaltpsycologie di superare entrambe queste posizioni è stata una mancata interrogazione riguardo all’essere proprio della forma per come effettivamente era emersa in sede sperimentale. Mancata interrogazione che si è poi tradotta nella sua assimilazione all’essere reale. Dunque la comprensione dello statuto specifico della forma corrisponderebbe all’individuazione di quella “terza

44

Ivi, p. 148.

(31)

via” attraverso la quale potremmo avere accesso al fenomeno del comportamento, che non ci è stato possibile raggiungere percorrendo le vie tradizionali.

La riduzione della forma ad elemento reale parte dalla costatazione della sua presenza già nell’universo fisico. Viene infatti messo in risalto come ogni legge fisica non sia enunciabile isolatamente, ma presupponga una struttura all’interno della quale appaiano relazioni stabili, che possano poi essere formalizzate in leggi46. In questo modo le leggi non descrivono più proprietà assolute degli elementi, ma della struttura che essi rivelano, e dunque la struttura diviene l’unico vero oggetto della conoscenza fisica.

“Ogni forma costituisce un campo di forze caratterizzato da una legge che ha senso soltanto entro i limiti della struttura dinamica considerata, e che al contrario attribuisce ad ogni punto interno le sue proprietà, sicché queste non saranno mai proprietà assolute, proprietà di questo punto.”47

Continuando poi a definire l’oggetto della fisica con il mondo in sé, la Gestaltpsycologie traduce il fatto che il contenuto della scienza fisica mostra postulare insiemi integrati, ponendo questi insiemi come parti di quel mondo in sé48. Scoperta la natura relativa delle leggi rispetto ad un campo in cui esse valgono, si vorrebbe fare di questo campo un dato di fatto ultimo fondante le leggi che ad esso si riferiscono. Ma tale campo si rivela a sua volta intessuto di relazioni, non emerge come un contenuto determinato, ma si disfa nelle relazioni che lo costituiscono.

“Ma ciò che rende chimerica l’idea di una analisi fisica pura – il dato di fatto cosmologico, la discontinuità della storia – non rappresenta uno strato più profondo dell’essere, una infrastruttura del mondo fisico sulla quale si fonderebbe la legge. La legge e la struttura, nella scienza, non possono essere distinte, come risulterebbe da una

46 “La legge della caduta dei corpi, è vera e sarà ritenuta tale solo se la velocità di rotazione della terra

non aumenta col tempo; nell’ipotesi contraria, la forza centrifuga finirebbe col compensare e quindi col superare quella di gravità. La legge della caduta dei corpi esprime dunque la costituzione, che si effettua nelle vicinanze della terra, di un campo di forze relativamente stabile; questa legge resterà valida soltanto finché durerà la struttura cosmologica su cui è fondata.” Ivi, p .152.

47

Ivi, p. 151.

48

“Ma quando la Gestaltpsycologie ci parla delle forme fisiche, essa intende dire che è possibile reperire delle strutture in una natura presa in sé.” Ivi, p. 154.

Riferimenti

Documenti correlati

Per alcuni studiosi, gli adolescenti “...non sempre conoscono cosa siano le sostanze che consumano per sballarsi, per evadere o per trovare un modo alternativo di

Inoltre nello studio condotto in Brasile da Camossi et al., sono risultati positivi alla PCR campioni di latte di pecore che presentavano un profilo sierologico

La scarsità di osservazioni potrebbe essere una delle motivazioni per cui i modelli di regressione non sono ampiamente rappresentativi: tale limitazione potrebbe

The metrological analysis performed on the Late Roman forts of Qasr al-Gib, Qasr al- Sumayra and Qasr al-Lebekha cannot match the one performed on the Fort of Umm al-Dabadib in terms

ma ng ol ib s App App App&lt;0&gt; Data Subscriber Load application GN&lt;0&gt;(Master) MEM NI FANs Thermal Balancing Power Management Resources allocation Statistics

The utility of pleuroscopy in Pleurodesis by talc numerous conditions has poudrage is effective been described in earlier in preventing re-acsections: near 100% diagcumulation

• The Tenor material is modal; the manner of subdividing the portion of chant to be used as Tenor in the majority of cases does not destroy (on the contrary, normally maintains)

Hay otros delitos que se han denominado delitos intemacionales menos graves, infracciones delictivas del orden juridico intemacional o delitos de canicter