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ANALISI DEL CANTO

Nel documento DIVINA COMMEDIA DIVINA COMMEDIA 1 (pagine 38-63)

CANTO VII Più si scende più l’abbruttimento aumenta

ANALISI DEL CANTO

Verso 11→ secondo la Bibbia, la valle di Giosafàt è la valle in cui si raduneranno le anime nel giorno del giudizio per essere giudicate.

Farinata non bestemmia, è tutto composto e Virgilio dice a Dante di parlargli con rispetto.

Verso 81 → qui Dante sta sbagliando, la regina della città di Dite è Persefone, Proserpina, dea della primavera. Secondo la mitologia, venne rapita a Demetra (dea del raccolto), che cerca disperatamente sua figlia. Il rapimento di Proserpina spiegava il susseguirsi delle stagioni perché accetterà di stare 6 mesi con lo sposo (inverno e autunno) e 6 mesi con la madre (estate e primavera). Se fossero passate 50 volte le primavere, ci sarebbero voluti 50 anni. Qui Dante si sta basando sugli studiosi medioevali e si sta confondendo con la dea Diana, della luna→ qui quelli che passano sono 50 pleniluni (50 mesi).

CANTO XI

Sul margine interno del sesto cerchio, al riparo della tomba infuocata di un seguace dell’eresia monofisita (Anastasio II), i due viandanti sono costretti, a causa dell’orribile odore che si sprigiona dal baratro aperto al loro piedi, ad una sosta forzata. Virgilio ne approfitta per spiegare al suo discepolo l’ordinamento dei tre cerchi infernali che deve ancora visitare ( i due pellegrini si fermano e Virgilio spiega a Dante quali anime incontreranno nei prossimi cerchi ). Nel settimo cerchio (diviso in tre gironi) sono puniti i peccatori per violenza contro il prossimo, contro se stessi e contro Dio.

Nell’ottavo e nel nono quelli che si sono serviti della frode propriamente detta (contro chi non si fida) e del tradimento (frode contro chi si fida) per raggiungere i loro fini. Poiché Dante desidera sapere il motivo per cui i dannati dei primi cinque cerchi sono fuori delle mura di Dite, Virgilio gli ricorda la partizione aristotelica del male in tre categorie (incontinenza, malizia e matta bestialità):

nell’ Alto Inferno si trovano appunto gli Incontinenti, coloro cioè che non seppero serbare la misura in azioni, di per sé non riprovevoli, mentre all’interno della città di Dite si trovano coloro il cui peccato ha avuto per fine la deliberata violazione di una legge. Dante si dichiara soddisfatto della spiegazione del maestro, ma lo prega di chiarirgli perché il peccato d’usura offende, ancor prima che il prossimo, Dio e l’ordine da Dio imposto alle cose del mondo. Virgilio gli richiama alla memoria il passo della Fisica di Aristotele, ove il lavoro umano è definito una imitazione della natura e quello

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della Genesi, in cui Dio impone all’uomo di lavorare. Poi lo esorta a riprendere il cammino verso il dirupo per il quale si scende dal sesto al settimo cerchio.

CANTO XII

I due poeti scendono per un dirupo dal sesto al settimo cerchio. Qui trovano, a sbarrare il cammino, il frutto dell’innaturale connubio di Pasifae con un toro, il Minotauro. Nel vederli, accecato dall’ira, il mostro morde sé stesso, poi, quando ode rievocati da Virgilio la propria uccisione ad opera di Teseo e il tradimento della sorella Arianna, saltella qua e là come toro colpito a morte. I due ne approfittano per scendere ai piedi della frana. Virgilio spiega a Dante come essa sia la conseguenza del terremoto che precedette la discesa di Cristo nel limbo, allorché l’intero universo sembrò per un attimo volersi nuovamente convertire nel caos originario. Il settimo cerchio è tutto occupato da un fiume di sangue bollente (Flegetonte), in cui sono immersi i violenti contro il prossimo. A guardia dei dannati sono posti i Centauri. Armati di arco e di frecce, come quando, in terra, solevano andare a caccia, hanno il compito di impedire alle ombre di emergere dal sangue più di quanto la loro pena comporti. Il centauro Nesso scambia i viandanti per due anime e chiede loro a quale pena siano destinati. Ma Virgilio vuole parlare soltanto con Chirone, il leggendario maestro di Achille; giunto in sua presenza, gli fornisce esaurienti spiegazioni sul loro viaggio nel regno delle ombre: “Sì, Dante è vivo e devo mostrargli l’Inferno; l’itinerario che percorre è necessario alla salvezza della sua anima;

dall’alto dei cieli un’anima beata scese per affidarmi l’incarico di guidarlo nel cammino; non siamo anime di peccatori “. Poi chiede a Chirone una guida che mostri loro il punto dove si può guadare il fossato e il saggio centauro designa a questo incarico Nesso. A mano a mano che i tre avanzano lungo la riva, Nesso elenca i dannati che sono immersi nel sangue: dei tiranni sono visibili soltanto i capelli, degli omicidi l’intera testa, dei predoni la testa e il petto. Giunti al guado, i tre passano sulla riva opposta; poi Nesso, adempiuto il suo compito, torna indietro.

CANTO XIII RIASSUNTO

I due poeti si addentrano nel secondo girone del settimo cerchio, in un bosco di piante secche, contorte e spinose, abitato dalle mostruose Arpie, uccelli dal volto umano. Non si vedono anime di peccatori, ma se ne odono i lamenti. Esortato dal maestro, Dante stacca un ramoscello da un grande pruno e questo, attraverso la ferita, incomincia a sanguinare e a parlare. Virgilio scusa il suo discepolo ed invita l’anima imprigionata nell’albero a rivelare il suo nome. E il tronco parla: fu Pier delle Vigne, ministro dell’imperatore Federico II; si uccise perché, ingiustamente accusato dai cortigiani invidiosi del suo ascendente sul sovrano, era caduto in disgrazia. Davanti a Dante, che in terra potrà riabilitarne la memoria, giura che mai tradì la fiducia in lui riposta dal suo sovrano. Poi narra come le anime dei suicidi, dopo essere cadute nella selva, trasformatesi in piante, vengano crudelmente dilaniate dalle Arpie. Dopo il Giudizio Universale i corpi di questi peccatori saranno appesi ciascuno all’albero nel quale è incarcerata la loro anima. Il discorso di Pier delle Vigne è interrotto dall’apparizione delle ombre di due scialacquatori e, dietro loro, di una muta di nere cagne

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fameliche. Mentre uno di questi due dannati. riesce a sottrarsi alla caccia, l’altro, esausto, cerca riparo in un cespuglio, ma le cagne, non tardano a scoprirlo e lo sbranano ferocemente. La loro violenza non risparmia neppure il cespuglio, dal quale una voce si leva a protestarle contro tanto scempio. Quella che adesso parla è l’anima di un suicida fiorentino: prega i due pellegrini di raccogliere ai piedi del suo corpo vegetale le fronde di cui è stato mutilato e lamenta le sventure abbattutesi sulla sua città.

PARAFRASI

Nesso non era ancora arrivato sull'altra sponda (del Flegetonte), quando noi ci incamminammo attraverso un bosco in cui non c'era nessun sentiero.

Le foglie non erano verdi, ma di colore scuro; i rami non erano lisci, ma nodosi e contorti; non c'erano frutti, ma spine velenose.

Quelle belve selvagge che in Maremma, tra Cecina e Corneto, evitano i luoghi abitati, non hanno sterpi così aspri né così intricati.

Qui nidificano le sudicie Arpie, che cacciarono dalle isole Strofadi i Troiani preannunciando loro delle tristi disgrazie.

Esse hanno grandi ali, colli e volti umani, zampe artigliate e un gran ventre piumato; emettono lamenti sugli strani alberi.

E il buon maestro cominciò a dirmi: «Prima che tu ti addentri nella selva, sappi che sei nel secondo girone e vi resterai finché entreremo nel sabbione infuocato. Perciò guarda bene, perché vedrai cose che non sarebbero credute se mi limitassi a dirtele».

Io sentivo levarsi lamenti da ogni parte, ma non vedevo nessuno che li emettesse; allora mi fermai, confuso.

Io credo che Virgilio credette che io credessi che tra quei cespugli uscissero tante voci, emesse da anime che si nascondevano da noi.

Perciò il maestro disse: «Se tu spezzi qualche ramoscello da una di queste piante, i tuoi pensieri non avranno più ragion d'essere».

Allora stesi un poco la mano e strappai un ramoscello da un gran pruno; e il suo tronco gridò: «Perché mi spezzi?»

Dopo aver perso sangue nero, ricominciò a dire: «Perché mi laceri? non hai alcuno spirito di pietà?

Fummo uomini, e adesso siamo diventati cespugli: la tua mano sarebbe certamente più pietosa, se anche fossimo state anime di serpenti».

Come quando si brucia un ramoscello verde da una delle estremità, e dall'altra cola la linfa e si sente un cigolio in quanto esce dell'aria, così dal ramo rotto uscivano insieme parole e sangue; allora io lasciai cadere il ramo spezzato e restai lì pieno di timore.

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Il mio maestro rispose: «Se egli avesse potuto credere ciò che ha letto solo nei miei versi, anima offesa, (Dante) non avrebbe certo levato la mano contro di te; ma la cosa incredibile mi costrinse a indurlo a un'azione che pesa anche a me.

Ma digli chi fosti in vita, così che per rimediare lui possa restaurare la tua fama nel mondo terreno, dove può tornare».

E il tronco: «Con le tue dolci parole mi alletti in tal modo che non posso stare zitto; e a voi non sia fastidioso se io mi attardo un po' a parlare di me.

Io sono colui che tenni entrambe le chiavi del cuore di Federico II, e che le usai così bene nel chiudere e nell'aprire che esclusi dai suoi segreti quasi tutti (divenni il suo più fidato consigliere): fui fedele al mio alto incarico, al punto che persi per questo la pace e la vita.

La prostituta (invidia) che non distolse mai gli occhi disonesti dalla reggia dell'imperatore, e che è morte di tutti e vizio delle corti, infiammò tutti gli animi (dei cortigiani) contro di me; ed essi infiammarono a loro volta l'imperatore, al punto che i miei onori si trasformarono in lutti (caddi in disgrazia).

Il mio animo, spinto da un amaro piacere, credendo di sfuggire il disonore con la morte, mi rese ingiusto contro me stesso, che pure non avevo colpe.

Per le nuove radici di questo albero, vi giuro che non fui mai infedele al mio signore, che fu tanto degno di onore.

E se qualcuno di voi tornerà nel mondo terreno, riabiliti la mia memoria, che ancora soffre del colpo subìto a causa dell'invidia».

Virgilio rimase un poco in silenzio, poi mi disse: «Dal momento che tace, non perdere tempo; parla e chiedigli quello che vuoi».

E io a lui: «Domandagli tu ancora di quegli argomenti che credi possano interessarmi; io non potrei, tanto è il turbamento che provo».

Allora Virgilio riprese: «Possa realizzarsi ciò che le tue parole hanno richiesto grazie all'azione spontanea (di Dante), o spirito imprigionato: ti prego ancora di dirci come l'anima si lega a questi tronchi, e dicci, se puoi, se mai accade che qualcuna si liberi da queste piante».

Allora il tronco soffiò forte e poi quell'aria si tramutò in queste parole: «Vi risponderò in breve.

Quando l'anima feroce (del suicida) si separa dal corpo dal quale ella stessa si è staccata, Minosse la manda al settimo Cerchio.

Cade nella selva e non finisce in un punto prestabilito; ma dove il caso la scaglia, lì germoglia come un seme di farro.

Cresce come un arbusto e una pianta selvatica: le Arpie, poi, nutrendosi delle sue foglie provocano dolore, e aprono una via attraverso la quale il dolore fuoriesce.

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Come le altre anime, anche noi andremo a riprendere i nostri corpi (il giorno del Giudizio), ma non per rivestircene: infatti non è giusto riavere ciò che ci si è tolti.

Li trascineremo qui e i nostri corpi saranno appesi per la triste selva, ciascuno all'albero della propria ombra nemica».

Noi eravamo ancora in attesa accanto all'albero, credendo che volesse aggiungere altro, quando fummo sorpresi da un rumore, in modo simile a colui che sente arrivare il cinghiale e la muta dei cani sulle sue tracce, e che ascolta le bestie e il fogliame che stormisce.

Ed ecco arrivare da sinistra due dannati, nudi e graffiati, che fuggivano così veloci che rompevano ogni ramo della foresta.

Quello davanti urlava: «Presto, vieni in aiuto, vieni, o morte!» E l'altro, al quale sembrava di andare troppo lento, gridava: «Lano, le tue gambe non furono così agili alle giostre (battaglia) di Pieve del Toppo!» E poiché forse gli mancò il respiro, si nascose accanto a un cespuglio.

Dietro di loro la selva era piena di cagne nere, che correvano affamate come cani da caccia scatenati.

Esse azzannarono il dannato che si era nascosto e lo fecero a brandelli; poi portarono via le sue carni ancora doloranti.

Allora la mia guida mi prese per mano e mi condusse al cespuglio che piangeva, inutilmente, attraverso i rami rotti e sanguinanti.

Diceva: «O Iacopo da Sant'Andrea, a cosa ti è servito usarmi come scudo? che colpa ho io della tua vita peccaminosa?»

Quando il mio maestro si fu fermato sopra di lui, disse: «Chi sei stato in vita, tu che soffi parole dolorose e sangue attraverso tanti rami spezzati?»

E quello rispose: «O anime che siete giunte a vedere lo scempio disonesto che ha separato da me le mie fronde, raccoglietele al piede del triste cespuglio.

Io fui della città (Firenze) che mutò in san Giovanni Battista il primo protettore (Marte); e lui per questo la rattristerà sempre con la sua arte (la perseguiterà con guerre); e se non fosse che su un ponte dell'Arno rimane un frammento di una sua statua, quei cittadini che la ricostruirono sulle ceneri lasciate da Attila, avrebbero lavorato inutilmente. Io mi impiccai nella mia casa».

CANTO XIV

Dopo aver radunato le fronde intorno al cespuglio del suo concittadino, Dante giunge insieme a Virgilio, sul limitare del terzo girone. In questa parte del settimo cerchio una lenta, inesorabile pioggia di fiamme si riversa sopra una distesa di sabbia infuocata. Tre gruppi di anime soggiacciono a tre diversi tormenti: i bestemmiatori, violenti contro Dio, supini, espongono tutto il loro corpo al fuoco che cade; gli usurai, violenti contro l’arte, stanno seduti, i sodomiti, violenti contro natura, devono camminare senza tregua. I bestemmiatori sono i meno numerosi, ma i loro lamenti

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soverchíano quelli degli altri. Fra loro spicca una figura gigantesca, che sembra incurante del castigo divino. E’ Capaneo, uno dei sette re che assediarono Tebe, ucciso per la sua empietà dalla folgore di Giove. Egli non ha perduto la sua arroganza e sfida, deridendolo, il signore dell’Olimpo a colpirlo ancora una volta con le armi forgiate da Vulcano e dal Ciclopi, ma Virgilio lo redarguisce duramente.

I due poeti proseguono il loro cammino finché arrivano nel punto in cui dalla selva dei suicidi esce un fiumicello rosso e bollente. I fiumi infernali hanno la loro origine – spiega Virgilio – in terra. In mezzo al Mediterraneo c’è un’isola, un tempo ricca di vegetazione e felice, ora deserta: Creta. Ivi, in una grotta all’interno del monte Ida, c’è l’enorme statua di un vecchio, che volge le spalle all’Egitto e tiene lo sguardo fisso in direzione di Roma. La sua testa è d’oro, il petto d’argento, il ventre di rame, le gambe di ferro, il piede destro, sul quale il simulacro poggia, di terracotta. All’infuori del capo, ogni altra parte della statua presenta fessure dalle quali sgorgano lagrime. Il pianto di questa statua forma i fiumi infernali e lo stagno Cocito. Il canto si conclude con i chiarimenti che Virgilio dà al discepolo sull’ubicazione del Flegetonte, il fiume di sangue che occupa il primo girone e dal quale il fiumicello deriva, prendendone anche il nome, e del Letè, il fiume dell’oblio, le cui acque bagnano il paradiso terrestre, in cima al monte del purgatorio.

Canto XV RIASSUNTO

Per evitare la pioggia di fiamme, i due pellegrini avanzano su uno degli argini del fiumicello che attraversa il terzo girone e s’imbattono in una schiera di anime di dannati, uno dei quali afferra Dante per il lembo della veste e manifesta la propria meraviglia nel vederlo in quel luogo. Il Poeta lo riconosce, nonostante abbia il volto devastato dal fuoco: Brunetto Latini, il suo maestro, che esprime il desiderio di affiancarsi a lui nel cammino. Nessuno, infatti, dei violenti contro natura può interrompere il proprio andare: chi infrange questa legge è poi condannato a giacere cento anni sotto la pioggia di fuoco senza poter scuotere da sé le fiamme che lo colpiscono. Dante continua pertanto a camminare sull’argine e riceve da Brunetto la predizione della sorte che il futuro gli riserva: “Se rimani fedele ai principii che hanno fin qui ispirato le tue azioni, la tua opera ti darà la gloria “. Poi iI discorso cade su Firenze e la faziosità dei Fiorentini, in massima parte discendenti dai rozzi abitanti di Fiesole, avari, invidiosi, superbi. Sia l’uno sia l’altro Partito in cui la città è divisa – aggiunge Brunetto – cercherà di avere Dante in suo potere, ma non riuscirà in questo intento. Il Poeta a sua volta tesse l’elogio del suo maestro, dal quale ha appreso come l’uomo ottiene gloria fra i posteri, e dichiara che questa profezia, come quella di un altro spirito, Farinata degli Uberti, verrà sottoposta all’interpretazione di Beatrice. Per il resto si dice pronto a far fronte ai colpi del destino. Pregato dal Poeta, Brunetto nomina alcuni fra gli spiriti condannati alla sua stessa pena, quindi si accommiata, raccomandandogli la sua opera maggiore, il Tesoro, attraverso la quale sopravviverà nel ricordo degli uomini.

PARAFRASI

ra uno degli argini rocciosi ci porta lontani dalla selva; e il fumo del Flegetonte fa ombra di sopra, così che protegge dal fuoco l'acqua e gli argini stessi.

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Come i Fiamminghi fra Wissant e Bruges erigono dighe per tener lontana la marea, temendo che le onde si avventino contro di loro;

e come fanno i Padovani lungo il Brenta per difendere le loro città e i castelli prima che la Carinzia senta il caldo (si sciolgano le nevi):

così erano costruiti quegli argini, anche se il costruttore, chiunque fosse, non li aveva eretti così alti e grossi.

Ormai ci eravamo allontanati dalla selva tanto che non l'avrei più vista se anche mi fossi voltato, quando incontrammo una schiera di anime che veniva lungo l'argine e ognuna di esse ci guardava come si osserva qualcuno in una sera di novilunio; e strizzavano gli occhi verso di noi come fa il vecchio sarto per infilare l'ago nella cruna.

Mentre i dannati mi scrutavano in tal modo, fui riconosciuto da uno che mi prese per il lembo della veste e gridò: «Che meraviglia!»

E io, quando lui tese verso di me il suo braccio, fissai il suo volto così che non potei non riconoscerlo, benché fosse tutto bruciato, e avvicinando la mano al suo viso risposi: «Voi siete qui, ser Brunetto?»

E lui: «Figlio mio, non dispiacerti se Brunetto Latini torna un po' indietro con te e lascia proseguire la schiera (dei dannati)».

Io gli dissi: «Ve ne prego con tutte le mie forze; e se volete che io mi trattenga con voi lo farò, purché acconsenta costui che mi guida».

Lui disse: «Figliolo, se un dannato di questo gruppo si arresta un solo istante, poi deve giacere cent'anni senza potersi riparare quando il fuoco lo ferisce.

Perciò prosegui: io ti seguirò e poi raggiungerò la mia schiera, che va piangendo la sua dannazione eterna».

Io non osavo scendere dall'argine per andare insieme a lui; ma tenevo il capo chino, come un uomo che dimostra la sua deferenza.

Lui cominciò: «Quale fortuna o destino ti porta quaggiù prima della tua morte? e chi è costui che ti fa da guida?»

Io gli risposi: «Lassù, nella vita serena, mi sono smarrito in una valle prima che la mia vita raggiungesse il suo culmine.

Solo ieri mattina ne sono uscito: mi apparve costui (Virgilio), mentre ci stavo rientrando, e mi riporta a casa per questo cammino».

E lui a me: «Se tu segui la tua stella, non puoi non raggiungere i tuoi obiettivi letterari e politici, se

E lui a me: «Se tu segui la tua stella, non puoi non raggiungere i tuoi obiettivi letterari e politici, se

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