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L’analisi delle principali “questioni” abruzzesi e il programma riformistico di Galant

Par. 3.1. – Il programma riformatore nelle opere di Galanti e nella problematica situazione della giustizia nel Regno di Napoli

Quando si parla della costruzione dello Stato moderno napoletano, come già è stato rilevato, non si può non far riferimento alla Descrizione geografica e politica delle Sicilie di

Galanti, ma anche e soprattutto a Le lezioni di commercio1 dell’abate Genovesi, opere particolarmente note e utilizzate dalla cultura italiana meridionalistica.

Genovesi e Galanti rappresentano l’uno gli inizi del riformismo borbonico, l’altro il declino della stagione delle riforme e, come spiega Franco Venturi,2 la scintilla del

cambiamento ha origine proprio dalla circolazione delle opere di Genovesi e dalla diffusione delle sue idee espresse durante le lezioni di Economia politica presso l’Ateneo napoletano.

Ḕ soltanto con Galanti, a ben quarant’anni di distanza, che si giunge ad una visione complessiva e globale delle problematiche relative ai settori più importanti dello Stato napoletano: la politica, l’economia, le istituzioni, le finanze, i ceti sociali, il rapporto tra centro e periferia, perché è solo con Galanti e con la sua Descrizione che l’Illuminismo napoletano avrà il suo primo manifesto e nelle nuove scienze dello Stato sarà introdotta la più matura opera tecnica del Regno di Napoli.

Il maestro Genovesi, muovendo da constatazioni empiriche, ma non ancora tecniche, traccia sicuramente il percorso attraverso cui il movimento riformatore napoletano muoverà i primi passi; Galanti ne tratteggia e ne coglie gli elementi essenziali e grazie agli importanti incarichi governativi che si trova a ricoprire, consulta e studia un’enorme mole di fonti documentarie che fanno capo agli organismi centrali dello Stato napoletano.

1A. GENOVESI, Delle lezioni di commercio, cit.; ID., Scritti economici, a cura di Maria Luisa Perna, Napoli,

Istituto italiano per gli studi filosofici, 1984, 2 voll. e L. DE ROSA, Economisti meridionali, Napoli, nella sede dell’Istituto, 1995 e il saggio di G. CACCIATORE, Antonio Genovesi economista e riformatore, in «Rassegna Storica Salernitana», 30 (1998), pp. 103-116.

La posizione di apertura e tolleranza alle nuove idee di riforma è alla base del suo rapporto con i maggiori intellettuali dell’Illuminismo europeo e meridionale; posizione di apertura che gli fa affermare appena trentenne, nella lettera al Voltaire del 26 settembre del 1773, nel suo Elogio del Genovesi:

Permettete, o Signore, che uno de’ vostri più grandi ammiratori abbia l’onore di sottomettere a’ vostri lumi L’elogio storico dell’abate Genovesi, il quale per le critiche e per le persecuzioni che ha qui sofferto dalla parte de’ teologi, e di questo cardinale arcivescovo, può meritare i riguardi di un uomo della condizione vostra […] Voi qui come altrove avete una folla di lettori e di adoratori, i quali senza dubbio vedranno con un estremo compiacimento l’omaggio che da me si rende a colui che per più di un titolo merita di esser chiamato il benefattore del genere umano.3

Galanti, avendo abbracciato le ideologie della cultura inglese del Settecento orientata allo studio dell’uomo «concreto» oltre agli insegnamenti del maestro Genovesi che lo aveva indirizzato fin dagli anni giovanili a votare la propria forza interiore all’impegno civile e politico, non poteva che approvare le posizioni avverse a quegli ecclesiastici «avvezzi ad accusare d’irreligione tutti coloro che hanno il coraggio di essere ragionevoli».

Ed è proprio su questo terreno che viene ad innestarsi il riformismo borbonico ancora impregnato delle idee del Tanucci e della tradizione regalista che tuttavia, anche se tra numerose polemiche, conferisce a Galanti notevole visibilità tra letterati e riformatori, rendendo quanto mai chiaro quanto il decennio 1770-17804 sia stato importante per la sua

formazione culturale e civile.5

3 Il testo della lettera al Voltaire si può consultare in F. VENTURI, Giuseppe Maria Galanti, in Illuministi

italiani, cit., pp. 1021 e segg.

4 P. VILLANI, L’amaro declino di un riformatore napoletano, Giuseppe Maria Galanti in «Studi storici», 1, 48,

gen.-mar. 2007, pp. 107-125.

5 Partendo dal presupposto imprescindibile dell’innata superiorità dell’Inghilterra quale madre dei migliori

storici moderni del calibro di Hume, Gibbon, Bolingbroke e in primis Robertson, promotore del modello storiografico machiavelliano, Martelli sottolinea quanto ricca fosse la bibliografia galantiana che spazia tra i maggiori autori del Settecento italiano e straniero, tra cui: Montesquieu, Voltaire, Giannone, Muratori, Maffei, Denina, Cesarotti, D’Alembert, Raynal, Millot, Condillac, Condorcet, Pauw, Le Beau, Rollin, Barthélemy. Cfr. S. MARTELLI, Introduzione, in G.M. GALANTI, Scritti giovanili, cit.

L’interessante saggio di Giuseppe Cirillo dal titolo Regno di Napoli e Spagna. Genovesi,

Galanti, gli apparati statali e le riforme settecentesche6 chiarisce i rapporti tra l’opera di

Galanti e quella del maestro Genovesi, affermando che quest’ultimo non può essere considerato propriamente un «tecnico dello Stato moderno» a differenza dei suoi allievi, ma sicuramente il primo autore con il quale la «filosofia passa al servizio dei governi».7

Cirillo individua e sottolinea come l’opera di Genovesi sancisca lo stretto legame tra economia e politica economica, tra produzione, commercio e ruolo dello Stato, in un’Europa in piena rivoluzione industriale e agraria nella quale viene valorizzato il ruolo sociale delle scienze come divulgatrici di conoscenze tecniche, agricole, economiche e agronomiche.8

I nuclei tematici seguiti dalla monarchia meridionale per avviare le riforme del Regno che coincidono con le proposte di rinnovamento sostenute da Carlo di Borbone, trovano infatti propulsione e sostegno proprio nel programma pedagogico portato avanti dall’abate salernitano, a favore della diffusione di scienze utili soprattutto alla formazione della «nazione dei coltivatori».

Il riformatore Genovesi propende verso la libertà di commercio, a partire da quella del grano e auspica una redistribuzione delle terre ecclesiastiche ai contadini, in modo da allargare la produzione dei ceti proprietari, ma è chiaro che l’azione di riforma deve essere sempre affiancata dalla diffusione della cultura e dell’istruzione agraria nelle campagne e l’agricoltura deve essere considerata come un negozio.9 Non è ancora possibile parlare comunque di «legge agraria» con Genovesi, ma è certo che egli si batte sul fronte della critica serrata alla proprietà fondiaria soprattutto ecclesiastica, che impedisce occasioni di lavoro per i ceti subalterni.

Il problema della produttività dell’agricoltura napoletana è dovuto allo spopolamento e alle frequenti carestie oltre che alla rozzezza e impreparazione degli agricoltori, “capitale umano” incapace di gestire e portare a sviluppo la terra, “capitale naturale” che andrebbe

6Si tratta di un saggio in corso di stampa a cui si è precedentemente accennato.

7 Espressione utilizzata da Gaetano Filangieri, ma riferita al titolo del volume di G. GALASSO, La filosofia in

soccorso, cit.

8 A. GENOVESI, Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze, a cura di Nicola D’Antuono, Bologna,

Millennium, 2010. Cfr. anche ID., Lezioni di commercio, cit. e F. VENTURI, Settecento riformatore. Da

Muratori a Beccaria, Torino, Einaudi, 1969; ID., Illuministi italiani, cit.

censuato e livellato in modo che i fondi non siano nelle mani di coloro che non possono o non devono coltivare.10

Da qui la mancanza di sviluppo economico del Mezzogiorno che diventa un vero e proprio problema sociale e politico11 e viene ad intrecciarsi con i programmi di ammodernamento dello Stato proposti dalla monarchia borbonica e con le prese di posizione dei due principali strumenti delle nuove politiche governative: la Camera della Sommaria e la Camera di S. Chiara.12

C’è da dire però che Galanti, a differenza di Genovesi, si serve di una serie di fonti documentarie afferenti ad organismi centrali dello Stato napoletano; ciò fa sì che il materiale primario utilizzato dal riformatore molisano venga a costituire un prezioso bacino di dati empirici e statistici sui quali costruire l’ossatura del nostro discorso critico sui problemi del Regno di Napoli e in particolar modo dell’Abruzzo. E se da una parte Genovesi fa uso di dati e descrizioni empiriche nei suoi testi, Galanti va oltre e giunge ad analisi che utilizzano strumenti statistici estremamente precisi, articolando il suo metodo, come già è stato detto, in decine di relazioni sullo stato delle province e dei tribunali che vengono inviate alla Segreteria di Grazia e Giustizia o alla Segreteria di Azienda, oltre che ad altri istituti centrali dello Stato napoletano.13

Il vero divario tra programma illuministico e politica di governo si apre invece con gli intellettuali della seconda generazione spesso osteggiati dai Tribunali regi e dalle Segreterie di Stato, figli di un riformismo intriso di giusnaturalismo e capace di ispirare le decisiones e le consulte14 della Camera della Sommaria e della Camera di Santa Chiara.

La Sommaria accorda favori agli enti locali, si pronuncia sulle riforme e guida le politiche fisiocratiche della monarchia conducendo lo Stato alla modernizzazione, ed è

10 G. GALASSO, La filosofia in soccorso de’ governi. La cultura napoletana nel Settecento, Napoli, Guida,

1989, p. 414.

11 Questi concetti vengono ampiamente sviluppati in A. GENOVESI, Lettere accademiche su la questione se

sieno più felici gl’ignoranti, che gli scienziati, Napoli, Stamperia Simoniana, 1764 e ID., Logica per gli giovanetti, Nella stamperia di Bassano, a spese Remondini, con la licenza de’ superiore e privilegio, 1766, in cui

l’illuminista propende per un’azione di governo volta alla libertà di commercio e alla creazione di occasioni di lavoro per i ceti subalterni,

12 Per un ulteriore approfondimento Cfr. G. CIRILLO, Spazi contesi, cit., t. I, Università e feudi; tomo II,

Evoluzione del sistema amministrativo e governi cittadini, Milano 2011.

13 A. M. RAO, L’ ‘amaro della feudalità’, cit.

14 Si tratta di pareri o consulenze, atti noti con il nome di “consulte” con i quali la Regia Camera esplica le sue

funzioni di organo consultivo del governo in materia finanziaria. Le decisiones sono invece le sentenze emesse da organismi regnicoli come il Sacro Regio Consiglio.

sempre il supremo tribunale della Sommaria ad ispirare le prammatiche15 settecentesche dopo il 1734 e ad occuparsi dei corpi demaniali alienati oltre che di altri compiti che rientrano nel «real patrimonio» come: gli uffici venali, gli arrendamenti, la natura giuridica dei feudi e le loro giurisdizioni.

Numerose sono le decisiones della Sommaria in merito a questi corpi statali di emanazione regia che possono essere comprati se lo Stato è costretto ad alienarli per gravi casi di necessità, o vengono usurpati finché i detentori non producono i titoli originali di possesso. Il vero tribunale regio è comunque la Camera di Santa Chiara che diventa uno dei maggiori strumenti di attuazione delle riforme, venendo a sostituire il Consiglio Collaterale16

nelle sue molte funzioni e attribuzioni.

Tra gli anni‘50 e gli anni‘70 del Settecento il sovrano è l’unica fonte del diritto e il suo strumento normativo è proprio il tribunale della Camera di S. Chiara, tanto che le Segreterie di Stato ricorrono alle consulte della suddetta Camera in merito alle materie oggetto della trasformazione riformistica; consulte che poi provengono da magistrati scelti dalla monarchia e dalle Segreterie di Stato e che sono trasformate in reali dispacci, sostituendo le prammatiche, retaggio del tradizionale diritto regio.17 Il tribunale si propone, sulla scorta del

programma riformatore di Genovesi, di recuperare arrendamenti, uffici, comparti demaniali, feudi, corpi dello Stato alienati arbitrariamente.

Per comprendere meglio a questo punto l’operato di Genovesi e il percorso riformista perseguito da Galanti, non si può prescindere dalle vicende che caratterizzano lo stato moderno napoletano in quello scorcio di secolo che va dalla metà degli anni ‘50 del Settecento in poi.

15 Le Prammatiche sono leggi di emanazione regia determinate generalmente dalla consuetudine. Si trattava

nello specifico di provvedimenti per la migliore applicazione delle norme giuridiche contenute nelle costituzioni.

16 Gli arrendamenti erano le concessioni dell’appalto della riscossione delle imposte ad appaltatori privati

chiamati arrendatori. I fiscali, introdotti nel 1443 da Alfonso d’Aragona, costituivano una sorta di imposta comunale che ogni famiglia era tenuta a corrispondere in ragione di un ducato per ogni nucleo familiare. Le adoe nacquero, invece, nel 1564 dall’abolizione dei tributi in denaro dovuti dai feudatari in sostituzione del servizio militare e consistevano in un donativo perpetuo biennale di cui parte a carico dei baroni.

17 G. CIRILLO, Alle origini della Minerva trionfante, 8, Virtù cavalleresca e antichità di lignaggio. La Real

Camera di S. Chiara e le nobiltà del Regno di Napoli nell’età moderna, Roma, Ministero per i Beni e le Attività

culturali, Direzione generale per gli Archivi, 2012, pp. 18 e segg. Gli storici del diritto medievale consideravano “positivo” tutto il diritto già scritto e solo da interpretare, mentre giudicavano un arbitrio tutto ciò che rappresentava innovazione; con Carlo di Borbone e successivamente con Ferdinando IV, il giusnaturalismo inizia ad influenzare le dottrine dei fiscali della Camera della Sommaria e nasce una nuova concezione dello Stato.

I tribunali regi a Napoli assumono un ruolo nuovo e così le Segreterie di Stato, mentre si diffonde ovunque il modello fisiocratico e la politica mercantilistica e la formazione della nobiltà di servizio e della classe dirigente portano ad una nuova visione dello Stato.

Cirillo sottolinea come la Descrizione di Galanti fornisca una chiave di lettura chiara e precisa di quanto la battaglia illuministica iniziata da Genovesi abbia profondamente inciso sulla modernizzazione dello Stato, e come, nonostante l’istituzione della Cassa sacra (organo governativo sorto in Calabria nel 1784 allo scopo di amministrare i beni ecclesiastici),18 si

fosse ancora lontani dalla prospettiva di una reale modernizzazione agraria.

L’opera esprime tra l’altro uno spaccato dei principali settori delle nuove materie statali del Regno di Napoli: dalla politica all’economia e alle istituzioni, dal diritto pubblico alla società e all’assistenza, costituendo il vero manifesto dell’Illuminismo meridionale tra gli anni‘80 e gli inizi anni‘90 del Settecento in un momento intenso di riforme.

Galanti non prescinde nella sua opera dalla storia e dall’osservazione dei grandi cambiamenti politici che si sono avuti dall’antichità fino agli anni ‘90 del Settecento.

Lo dimostra il fatto che l’illuminista molisano tracci una dettagliata descrizione delle vicende storico-politiche del Regno a partire dalla repressiva conquista romana, dalle invasioni barbariche che conducono al predominio feudale ed ecclesiastico e a forme di anarchia, ignoranza e superstizione, dalla costruzione del Regno da parte dei normanni e di Federico II di Svevia che tenta di riordinare giuridicamente lo Stato, al rovesciamento dello Stato stesso da parte di papi e baroni usurpatori e al Regno che diventa provincia ad opera del dispotismo degli Asburgo, fino a giungere alla riacquisizione di lustro, vigore ed energia con Carlo III e Ferdinando IV di Borbone.

Ed è proprio ai Borbone che Galanti riconosce il merito di aver ripristinato una monarchia naturale nel Regno di Napoli, che egli identifica con gli eredi diretti di Federico II, unico sovrano che ha contribuito a dare forma all’identità del Regno con le sue Costituzioni, a differenza degli Angioni, degli Asburgo e degli Austriaci, portatori di decadenza e oscurantismo, oltre che di disordine e corruttela.

Il punto di partenza della denuncia di Galanti assume così le forme di un anticurialismo militante che riconosce ai Borbone il merito di aver intrapreso una politica di riforme per abbattere i privilegi della Chiesa e del baronaggio nel tentativo di rivitalizzare l’economia attraverso politiche fisiocratiche e mercantilistiche, concedendo larghe attribuzioni agli enti

locali e alla nuova classe dirigente in crescita numerica e qualitativa, l’unica in grado di limitare il potere forense corrotto e di cambiare finalmente volto alle istituzioni.

Per riscattarsi dalla cattiva influenza papalina che già al tempo degli Svevi aveva determinato invasioni, guerre civili e scontri armati, è necessario per Galanti abbracciare una politica che abbia un impatto ideologico sulla società civile, grazie anche al ruolo partecipativo dei filosofi e degli intellettuali riformatori che come lui si battono per scardinare le «ferali pestilenze» introdotte dai papi, dagli arrendamenti, dai viceré, dalle cattive leggi e dal malgoverno della capitale.

Da qui la scelta della monarchia spagnola di appoggiarsi alla feudalità, data la fragilità delle comunità cittadine meridionali e la tendenza ad una politica di compromesso con il baronaggio locale, prospettiva capovolta dai recenti studi di Vitolo che hanno superato la definizione di dicotomia storica tra Centro-Nord a forte connotazione urbana e Mezzogiorno feudale.19 Prospettiva sostenuta invece da Di Falco che parla nei suoi scritti del Regno di

Napoli come di uno Stato “costruito dal centro” fin dal Quattrocento-Cinquecento, evidenziandone il carattere di dualismo costituzionale incarnato dal principe, espressione del potere accentrato e dai ceti portatori di interessi particolari.

Da una parte quindi la “concentrazione” del potere e dall’altra la “partecipazione” al potere dal parte del ceto feudale; di contro l’affermazione dell’unico ceto sociale capace di contrastare il potere della nobiltà, il ceto burocratico e forense.20

Le basi dell’organizzazione del potere accentrato e assolutistico degli Stati europei vengono quindi gettate nei due secoli di dominazione spagnola, mentre iniziano a delinearsi i due grandi limiti dello Stato moderno nel Mezzogiorno d’Italia: da una parte la presa di coscienza che il Regno di Napoli provenga da forze straniere e non da energie politiche e sociali indigene, dall’altra il compromesso tra monarchia e aristocrazia feudale, individuato da Galasso come uno dei momenti caratterizzanti la via napoletana allo Stato moderno.21 Compromesso in cui si realizza una dialettica di potere al confine tra privato e pubblico e in cui mancano ancora quei corpi intermedi in grado mediare il potere con la periferia.

19 G. VITOLO (a cura di), Città e contado nel Mezzogiorno tra Medioevo ed età moderna (Atti di un seminario

tenuto a Napoli nel 2003), Salerno, Laveglia, 2005.

20 G. GALASSO, Alla periferia dell’Impero. Il regno di Napoli nel periodo spagnolo (secoli XVI-XVII), Torino,

Einaudi, 1994.

È da qui che nasce la necessità di creare una nuova élite che possa gestire le città di casali a cavallo tra Cinquecento e Seicento ed è sempre da qui che inizia il fatale compromesso con il baronaggio locale a cui vengono destinati ruoli di governo periferico, come governatori o erari o di partecipazione al ricco indotto giurisdizionale.

Parlando di governo locale del Sud Italia non si può dunque prescindere dalla constatazione della forte presenza di un “notabiliato feudale” e di un “notabiliato comunale”, unici veri organismi di mediazione tra sovrano e popolo insieme alla miriade di fori e di giurisdizioni separate.22

De Falco sottolinea come fosse difficile la costruzione dello Stato moderno nel Regno di Napoli e come la politica degli Asburgo fosse volta al coinvolgimento dei baroni nell’organizzazione dello stesso, rendendo il feudo un elemento costitutivo, integrativo e funzionale dell’apparato ministeriale e della struttura stessa del Regno; struttura verticistica nella mani di un numero ristretto di grandi vassalli con estesi poteri giurisdizionali, compatibili e complementari al programma centripeto del governo. Tanto più che l’utilizzo dei poteri giurisdizionali è conferito non per un mero utilizzo funzionale all’interesse del singolo feudatario, ma a vantaggio degli interessi specifici della Corona e ciò che si mette in discussione non è la titolarità dei poteri giurisdizionali del feudatario, ma l’esercizio privato degli stessi poteri.

La critica di Galanti alla feudalità, le cui fondamenta poggiano sull’atavica incompatibilità tra sistema feudale e monarchia, non è però una critica etico-giuridica o moralistica, ma piuttosto una critica a quegli abusi che scoraggiano la naturale evoluzione produttiva e demografica del Meridione.23

Per comprendere il senso di quanto detto bisogna partire certamente dal “desiderio di modernità” e dalla “gradualità” e “realismo” utilizzati da Galanti riformatore empirico nell’analisi dei problemi dello sviluppo del Meridione, considerando che sono proprio questi gli elementi che lo portano a discostarsi da quel riformismo astratto che non tiene conto dei prerequisiti storici e ambientali del territorio, spingendolo a proporre un “uso migliore” dei beni dello Stato, che parta innanzitutto dalla trasformazione dei feudi in allodi, perché:

22 A. MUSI, Mezzogiorno spagnolo. La via napoletana allo Stato moderno, Napoli, Guida, 1991. 23 G.M. GALANTI, Scritti sulla Calabria, cit., pp. 50-61.

Non vi ha cosa nella nostra economia che abbia bisogno di tale uso quanto i feudi (Testamento forense, t. II, 8).24

E ancora:

I progressi che hanno fatto in Europa le cognizioni e la vita sociale non rendono più sopportabile il sistema feudale; un Re che non provvede a simile inconveniente tradisce i suoi interessi e quelli della sua nazione, e si espone a gran pericoli. Ce ne somministra un esempio funesto l’età nostra (Testamento

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