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Parte I – Maritar o monacar

1.3.2. Più che Angela

Le vicende biografiche di Elena Cassandra Tarabotti ricalcano nella forma tante di quelle vite sfortunate destinate al chiostro a causa di una situazione più grande di loro. Nata il 24 febbraio 1624 nel sestriere di Castello a Venezia, la futura suor Arcangela ebbe quattro fratelli, di cui due probabilmente morirono in giovane età, ed era la prima di cinque sorelle di cui fu l’unica a prendere i voti. A giocare a suo sfavore in maniera determinante fu, oltre a una vistosa zoppìa, tara ereditaria consegnatale dal padre Stefano Tarabotti46, di professione chimico-alchimista, anche la primogenitura femminile, in quanto maritare le figlie minori, due delle quali restarono per altro zitelle, permise alla famiglia di ritardare di qualche anno l’esborso del rampante importo dotale della Serenissima. All’età di tredici anni, nel 161747, Elena Cassandra usciva di casa per non allontanarsi molto ed entrare come educanda nel monastero di Sant’Anna di Castello. Da quel momento in poi non ne sarebbe più uscita. Tre anni dopo, nel 1620, prese il velo, e dopo altri tre anni di noviziato emise finalmente i voti, che rinnovò definitivamente consacrandosi nel 1629. Nota giustamente Susanna Mantioni (2014, 100) che le tappe della monacazione di Suor Arcangela si svolgono tutte con un certo ritardo, ad esempio l’ingresso come educanda a tredici anni e poi i tre anni di noviziato – Trento, lo ricordiamo, ne ri-stabiliva la continuità di un anno –; il che starebbe a comprovare una certa resistenza da parte della nostra religieuse malgré elle. Certo è che Tarabotti mai si rassegnò ai voti che era stata costretta a pronunciare. Ne è prova la sua produzione letteraria, ma anche una generale superficialità nel rispetto della regola monastica o negli aggiustamenti mondani di capigliatura e abbigliamento (Tarabotti 2003, 10-1), sebbene mai la sua reputazione fu macchiata da scandali e trasgressioni quali quelli della quasi contemporanea Signora di Monza, Marianna de Leyva48. Se i rapporti con la famiglia – e ci mancherebbe altro – nelle lettere di suor Arcangela

46 Dettaglio evinto da una missiva in Tarabotti 2003, 110. 47

Sebbene la stessa Tarabotti riferisca che «d’undeci anni sono venuta ad abitare nei chiostri» (cfr. Tarabotti 2003, 158), l’ingresso è da datare comunque al primo settembre 1617: data del pagamento della prima retta da parte di Stefano Tarabotti, la cui delibera di accettazione figura nel registro delle camerlenghe di Sant’Anna.

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I dettagli biografici su Arcangela Tarabotti sono noti e si basano generalmente sulle citate Lettere familiari e

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risultano ridotti al lumicino, non altrettanto si può dire delle relazioni che la religiosa intrattenne per tutta la durata del suo soggiorno nel monastero di Castello. La passione che l’animò per tutta la vita fu quella della lettura e della scrittura e la sua determinazione fece sì che le stessero strette le sole letture pie autorizzate nei monasteri. Fortunatamente per lei, la disciplina applicata in materia a Sant’Anna dovette lasciare ampi spazi di libertà, perché essa riuscì a far circolare tra la sua cella e il secolo vari libri sacri e profani oltre a quelli che, seppur tra mille difficoltà, vergava di sua mano. E tuttavia non era immaginabile la possibilità di poter fare tutto da sola; c’era bisogno di contatti e protezione dall’esterno e a questo fine fu fondamentale il rapporto con gli Incogniti. Fondata dal potente patrizio veneziano Giovan Francesco Loredano nel 1630, nel trentennio contrassegnato dalla sua presenza in laguna, l’Accademia degl’Incogniti rappresentò il centro produttivo dell’attività letteraria della Repubblica. Tra i suoi membri, tutti animati da vena libertina, figuravano Giovanni Dandolo, Francesco Pona, Nicolò Crasso, Pier Paolo Bissari, Giovan Francesco Busenello, Giacomo Pighetti, Girolamo Brusoni, Ferrante Pallavicino ed Angelico Aprosio, i quali, con lo stesso Loredano, compaiono regolarmente tra i destinatari delle missive che la fu Elena Cassandra faceva loro pervenire dalle grate del parlatorio del convento di Castello. Con alcuni di loro, Pallavicino e Brusoni, suor Arcangela condivideva, fra l’altro, la forzatura all’abito monastico, che ambedue gli scrittori non mancarono di denunciare rispettivamente nel Corriero svaligiato (1640) e le Turbolenze delle vestali poi edito con il titolo Degli amori tragici (1658[-62]). Lo stesso Brusoni, con Aprosio e Pighetti, che di suor Arcangela era il cognato, cadde in disgrazia presso la religiosa a seguito della pubblicazione dell’Antisatira in risposta al lusso donnesco, satira menippea del signor Francesco Buoninsegni (1644), l’opera in cui la monaca rispondeva alle tesi misogine dell’autore senese, quella che le valse l’ingresso ufficiale nella vita letteraria del tempo. Aprosio e Brusoni, appoggiati da Pighetti, tentarono prima di dissuadere l’autrice dalla pubblicazione e, al rifiuto ostinato di questa, contrattaccarono con

La maschera scoperta e l’Antisatira satirizzata, il che mandò su tutte le furie la nostra professa, che si

adoperò con successo per bloccarne la pubblicazione, probabilmente anche grazie all'intervento dello stesso Loredano49. Anche se non sempre furono idilliaci, questi rapporti furono assolutamente necessari a suor Arcangela per permetterle di consultare testi profani o addirittura all’indice, aggiornarsi e partecipare alla vita letteraria dell’epoca, per quello che il chiostro permetteva. Furono proprio gli uomini, poi, che di tutta la produzione proto-femminista di suor Arcangela furono il bersaglio privilegiato, a permetterle di far circolare quelle che, tra tutte le opere di sua produzione, furono le più scottanti, la cosiddetta Trilogia monacale.

studi a cui si rimanda per una panoramica più esaustiva: Mantioni 2014, 95-111; Evangelisti 2012, 94-8; Bortot 2006, 23-9; Medioli 1990, 111.

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Sui rapporti travagliati tra Tarabotti e alcuni tra gli Incogniti, cfr. Mantioni 2014, 106-8; Bortot 2006, 112-26; Biga 1989.

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Con questo termine ci riferiamo ai tre libri che l’autrice dedica al tema, giocoforza per lei particolarmente sentito, della monacazione forzata50. Si tratta di «un caso anomalo *…+ che con i suoi scritti “politici” e civili si distacca dal cliché sulla donna letterata del Seicento, monaca autrice di scritti mistici e comunque religiosi.» (Rosa 1991, 233) L’eterodossia di Tarabotti, donna, scrittrice, istruitasi come autodidatta e solo nella misura in cui la realtà conventuale consentiva l’accesso ai libri profani in un secolo in cui il monopolio patriarcale sulla cultura era pressoché indiscusso, fu, com’è facile immaginare, alla radice di non pochi problemi editoriali. La semplicità ingannata, opera che fu probabilmente scritta per prima e che fa da corollario ideologico alle altre due, l’Inferno e il Paradiso

monacale, è di difficile datazione, ma fu sicuramente redatta prima del 1643, data di pubblicazione

del Paradiso, la meno problematica delle tre opere, dove sia il tipografo Guglielmo Oddoni nella presentazione sia la stessa autrice ne fanno menzione con il titolo di Tirannia paterna51. Entrambi annunciano l’imminente uscita del testo, ribadita poi dalla stessa Tarabotti nell’Antisatira un anno dopo52. Suor Arcangela in realtà stava portando avanti senza successo strenue trattative per la pubblicazione della sua Tirannia in ambienti veneziani o comunque italiani, al diniego dei quali si rivolse a Luigi de Matharel, Residente di Francia a Venezia, cui affidò il manoscritto e tutti i dettagli della pubblicazione che avrebbe dovuto essere portata a termine oltralpe. Dopo averne perse le tracce per circa un anno, suor Arcangela ricevette alcuni fogli dell’opera stampati su carta scadente e pieni d’errori, il che la convinse a desistere definitivamente. Nondimeno, la copia della Tirannia

paterna che l’autrice continuava a ritoccare nel frattempo prese a circolare manoscritta, perlomeno

nell’ambiente degli Incogniti, fino ad apparire nel 1654, postuma e firmata con il ben poco indecifrabile pseudonimo Galerana Baratotti, per opera dello stampatore Valvasense e probabilmente su iniziativa editoriale del solito Loredano. Questa editio princeps portava il nome di

Semplicità ingannata e nel cambio di titolo si è teso a vedere una mitigazione d’intenti da parte

dell’autrice per facilitarne la pubblicazione (Zanette 1960, 443). Nello stesso contesto dovrebbe rientrare il cambio di dedica: la Tirannia paterna era dedicata «Alla Serenissima Repubblica Veneta» (Tarabotti 1990, 2753), precisamente il bersaglio della critica tarabottiana nell’opera, in cui si tratta appunto del meccanismo dotale veneziano per cui le figlie venivano sacrificate alla Ragion di Stato secondo le modalità che sono state descritte nei precedenti paragrafi, mentre la Semplicità è aperta da una più metafisica quanto diplomatica apostrofe «a Dio» (Tarabotti 2007, 171). Sforzi che

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Le altre opere a noi giunte di Tarabotti sono il dittico femminista, l’Antisatira citata in precedenza e Che le

donne siano della spezie degli uomini (1651) e l’epistolario Lettere familiari e di complimento (1651), anch’esso

già citato come una delle principali fonti biografiche.

51 Guglielmo Oddoni in «A chi legge» e poi l’autrice in Tarabotti 1663, 39. 52

Per un’edizione moderna si veda Buoninsegni e Tarabotti 1998.

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Per ragioni sconosciute, l’apertura originale della Tirannia paterna è collocata in capo al manoscritto dell’Inferno monacale.

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sarebbero stati vani, ad ogni modo, perché il libro finì all’indice appena sei anni dopo54. Aggiungiamo qui a titolo di anticipazione di quanto verrà poi esposto a proposito dei temi trattati dalla trilogia l’interessante rilettura dell’operazione da parte di Simona Bortot: nelle modifiche dev’essere individuato quel passaggio dalla trattazione della problematica specifica della monacazione forzata al coinvolgimento del fenomeno nella generale incarnazione dell’«io femminile in più modi oppresso nella sua libertà, depotenziato nella sua dignità e identità, tarpato nelle sue aspirazioni e potenzialità,

ingannato nella sua semplicità *corsivo dell’autrice, NdR].» (2006, 79) La stessa solerzia nel

promuovere la propria opera non si registra per quanto riguarda l’Inferno monacale, che come la

Tirannia paterna circolò manoscritto negli ambienti veneziani o comunque tra coloro che venivano

regolarmente in contatto con gli Incogniti. L’editio princeps dell’opera altri non è che quella curata da Francesca Medioli nel 1990 di cui si è già parlato più volte. La ragione di questo lungo oblio è ovviamente da ricercare nella natura fortemente polemica del testo, che descrive con tono asprissimo la condizione delle forzate all’interno dei conventi, tanto più che, com’era naturalmente ben noto ai pochi lettori dell’opera, la prospettiva era quella di una testimone diretta, che è poi, ironia della sorte, ciò che ha fatto la fortuna dell’autrice negli ultimi vent’anni. Unico giallo legato invece al Paradiso monacale, la meno scabrosa delle tre opere, è la datazione dell’edizione originale, stampata dall’Oddoni e precedentemente citata in qualità di fonte per la datazione della Semplicità. Secondo quanto riporta Susanna Mantioni, la data indicata nel frontespizio, 1663, non sarebbe altro che un errore di stampa poiché la dedica a Federico Conaro che apre l’opera riporta la data 1643, che coincide poi con tutti gli altri riferimenti in materia nell’epistolario tarabottiano.

In uno studio come questo, in cui si tratta dello sviluppo del tema della monacazione forzata nel corso di vari secoli, è importante, al fine di delimitare un corpus di opere che rientrino nei parametri scelti a stabilirne una continuità, determinare una genealogia dei testi che presentino tra loro alcune affinità se non rapporti intertestuali veri e propri. Per tale ragione diventa fondamentale concentrarsi su quanti e quali testi abbiano avuto una circolazione tale da influenzarne la produzione letteraria nel corso del tempo. Arcangela Tarabotti, purtroppo, deve essere quindi esclusa da un discorso di questo tipo in quanto risulta difficile stabilire una continuità tra la sua trattazione della monacazione forzata e quella di quanti la seguirono nei secoli successivi, sebbene vi sia, come avremo modo di vedere, qualche eccezione significativa. C’è poi da aggiungere una nota riguardo a ciò che scrisse Tarabotti: è difficile ascrivere la sua produzione, soprattutto quella che ci interessa da vicino, nei canoni di distinzione che oggi adottiamo; sarebbe del resto inutile, in quanto essa stessa, come i suoi contemporanei, non concepiva e percepiva la separazione dei generi letterari che adottiamo oggi.

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L’intera vicenda editoriale relativa alla Semplicità è desumibile da Tarabotti 2003. Studi che la trattano in forma esaustiva sono Mantioni 2014, 120-3; Bortot 2006, 75-8; Medioli 1990, 150-1.

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Donna di lettere, quale volle essere e fu, suor Arcangela si cimentò in quelle che oggi chiameremmo pamphlettistica e trattatistica politica. Ci riuscirebbe difficile inserire i suoi scritti nel panorama delle opere che verranno poi trattate, le quali, finzionali o fattuali, condividono tutte l’aspetto comune della narratività55. E tuttavia è interessante inserire il suo pensiero in questa sezione poiché a partire dal 1990, anno in cui Francesca Medioli, come è stato fatto notare, curò l’edizione dell’Inferno

monacale, esso è divenuto un punto di riferimento essenziale per gli odierni studi sulla monacazione

forzata come paradigma della più ampia problematica relativa all’identità femminile nel corso dei secoli e, per quanto riguarda questo studio, un importante riferimento concettuale per l’analisi testuale delle opere che verranno prese in considerazione in seguito.

Riprendiamo quindi a questo scopo l’argomentazione dal punto in cui era stata interrotta. La pubblicazione del Paradiso risultò per suor Arcangela molto meno difficoltosa rispetto a tutte le altre, essendo, fra le altre cose, anche la prima. L’Antisatira che la rese poi parzialmente nota anche al di fuori della Serenissima risale all’anno successivo, il 1644. È chiaro che, per titolo e contenuti, l’ultimo capitolo della Trilogia fosse quello che agli occhi dei censori più corrispondeva al canone di scrittura femminile e monastica del tempo. Eppure sarebbe un errore considerare quest’ultimo testo come un’opera a sé in quanto l’intera produzione di Tarabotti è segnata da una profonda linearità e omogeneità, tanto a livello di produzione che di contenuti. Secondo chi aveva trattato la scrittrice prima della sua riscoperta, sostanzialmente Benedetto Croce ed il biografo Emilio Zanette, bisognava leggere la differenza tra le tre opere attraverso una differenziazione delle fasi ideologiche dell’autrice, nella quale sarebbe subentrato una certa qual sorta di pentimento tra il secondo ed il terzo capitolo della trilogia. Sulla scorta della ricostruzione effettuata sul periodo di composizione delle opere da Francesca Medioli (1990, 151-5) diviene oggi impossibile sostenere la vecchia tesi, non fosse altro che per i richiami che i testi mostrano in successione. Nel finale della Semplicità si legge:

«Se non ho concetti scelti, li ho almeno reali e sinceri, che in altro mio Libro, che fra poco si farà vedere alla luce del mondo, compariranno con la stessa loro natìa semplicità a dimostrarti che ne’ luoghi fabricati dall’interessata tua fraude, regnano tutte le pene d’inferno *…+» (Tarabotti 2007, 391-3)

E poi nell’Inferno, nella stessa posizione e a chiosa:

«Ben nell’ultima parte di questo mio sconcertato parto, a cui da me sarà dato titolo di Paradiso monachale, abastanza sono per provarvi che, se ben i venerandi corpi delle religiose habitan in terra, non dimeno le lor menti rapite in Celo godon tutte le glorie di beati *…+» (Tarabotti 1990, 100)

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L’unica opera di Tarabotti che ha un aspetto (pseudo)narrativo è L’inferno monacale, nel quale, ispirandosi alla Commedia, l’autrice cerca di introdurre il lettore all’interno del convento facendo passare un’ipotetica mal monacata tra le varie tappe della presa del velo. Questa impostazione tuttavia resta forte e percepibile solo nel primo dei tre libri totali perdendosi via via tra le digressioni dell’autrice. Per una prospettiva ulteriore dell’utilizzo che suor Arcangela fece del testo dantesco, cfr. Robarts 2013.

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Si aggiunge poi a comprovare l’unità tematica relativa al livello strutturale della trilogia l’intento dichiarato, ma mai portato a termine, in una lettera del 1644 «di edificare in breve sui fondamenti delle rifferitimi infelicità di queste misere, il Purgatorio delle mal maritate*…+» (Tarabotti 2003, 43) che avrebbe appunto chiuso la problematica non solo conventuale, ma propriamente e “dantescamente” femminile.

A corroborare quindi l’asserzione che vuole le date di pubblicazione non indicative si aggiunge che i tre libri presentano una stessa struttura ripartita in tre capitoli preceduti da una dedica e, dal punto di vista contenutistico, un approccio ideologico e argomentativo complementare e unitario. Ciò che Tarabotti volle raccontare fu lo status monastico nella sua completezza: la Semplicità ingannata si concentra su «ciò che sta a monte dell’ingresso in monastero» (Bortot 2006, 44), andando a dipanare la matassa di interessi economici e sociali, i rapporti umani taciti e conclamati che portavano al malcostume della forzatura; l’Inferno e il Paradiso schiudono le porte del convento e indagano le dinamiche intime, morali e psicologiche in cui le religiose si trovavano avviluppate, seguendo una prospettiva di dannazione o beatitudine a seconda, questo il tema rivoluzionario, di quanto la scelta dell’abito monastico fosse dettata da libera volontà.

Né deve ingannare il fatto che Tarabotti fosse lei stessa monaca e forzata: la sua scrittura, è vero, tende in alcuni momenti a oscillare verso la testimonianza personale ma l’intenzione autoriale che risulta lampante già a una prima lettura è quella di prendere ad esempio delle proprie argomentazioni il profilo di una qualunque donna che si trovasse ad affrontare le dinamiche del suo secolo56. Affrontiamo questo discorso sugli elementi di autobiografismo soffermandoci sui passaggi che di solito gli studi hanno evidenziato nel corso degli anni. Nel Libro I della Semplicità ingannata suor Arcangela sta trattando delle motivazioni che spingono i padri, avidi e menzogneri, a relegare le proprie figlie in convento e tra quest’ultime:

«Non danno per ispose a Giesù le più belle e virtuose, ma le più sozze e defformi, e se nella lor famiglia si rittrovano zoppe, gobbe, sciancate o scempie, quasi ch’il diffetto di natura sia diffetto d’esse, vengono condannate a starsi in prigione tutto il tempo della lor vita. In somma a questi enormissimi scelerati, che con venti contrari alla lor salute solcano il mondano mare, i monasteri servono di sentina di nave, nella quale gittano ogni lor immondizia *…+» (Tarabotti 2007, 228)

È facile leggere un’allusione alla propria claudicazione in questo passaggio, ma in generale il riferimento è inserito, come sempre avviene per la monaca lagunare, in un’argomentazione generale in cui l’io di chi scrive si discioglie nella moltitudine di individui vittime dello stesso destino. Di controcanto, è doveroso considerare quanto la ricezione del testo influisse sull’identità disvelata di suor Arcangela. Elemento, questo, che doveva condizionare, come si è visto, la diffusione degli scritti

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e il riconoscimento dell’autrice. Il problema dell’autobiografismo, ancora una volta secondo Francesca Medioli, era precisamente alla radice della non pubblicazione dell’Inferno, in cui l’istanza narratoriale si cela per tutto il testo sotto un “loro” di copertura. Nella presentazione però esso si presenta e poi si firma:

«Io, più che Angela in quanto al nome e serva indegna di Sua Divina Maestà, inspirata da Lui con motivi di verità, vi predico i fulmini del suo sdegno. *…+

Scandalizzata sempre,

Più che Angela della Madre della Donzella.» (Tarabotti 1990, 29)

È chiaro che il gioco di parafrasare il proprio nome, vezzo convenzionale tutto barocco tra l’altro, non doveva ingannare i lettori del tempo. Essi dovevano poi ravvisare, come noi del resto, un’autentica confidenza intima in passaggi come quello che, sul finale dello stesso Inferno, ci viene detto:

«O quanto mai è noioso il rittrovarsi sempre ad una tavola con l’istesse vivande! O quanto mai tormentoso il coricarsi ogni sera in un medemo letto, respirar sempre la medema aria, pratticare sempre le medeme conversazioni e veder sempre le medeme faccie!» (Ivi, 101)

Ora, abbiamo inserito questi esempi nell’argomentazione per dare un’idea di come lo stile tarabottiano tenda ad oscillare, specie nei momenti più livorosi, tra la generalizzazione di un fenomeno e l’argomentazione genuina di un’esperienza che doveva essere necessariamente autentica per denunciare lo stesso fenomeno con efficacia57. Il cerchio ristretto di lettori di suor Arcangela, seppur la conosceva come autrice femminista e tendeva a leggere ciò che scriveva come una difesa del sesso femminile, era ben consapevole del suo status e la stimava, o denigrava pure la maggior parte delle volte, anche in base a questo; sarebbe a dire che sulla condizione personale di monaca forzata si fondava la sua auctoritas in materia di libertà di vocazione. Elena Cassandra dovette vivere perciò un costante conflitto tra la voglia di figurare come membro della società

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