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Parte I – Maritar o monacar

1.2.3. Dopo Trento

La legislazione tridentina, il cui fine ultimo – lo ribadiamo –, era quello di ristabilire l’autorità ecclesiastica laddove questa fosse venuta a scemare dopo secoli in cui la consuetudine e la rilassatezza avevano fatto man mano scivolare la giurisdizione sopra i monasteri femminili in mano ai potentati familiari, era destinata a scontrarsi con quegli stessi nuclei di interferenza laica che si mostrarono ovviamente riluttanti ad abbandonare il potere che avevano ottenuto e consolidato nel corso dei secoli. Per tale ragione, la diffusione e l’applicazione dei dettami tridentini avvenne barcollando e zoppicando a cavallo tra XVI e XVII secolo stabilizzandosi pienamente solo nel corso del pieno Seicento. Naturalmente ciò avveniva in forma particolare a seconda delle aree geografiche e delle realtà politiche esistenti in cui i vescovi attuavano la loro missione (contro)riformatrice. In tema di libertà di vocazione erano stati posti precisi vincoli e nondimeno il problema socioeconomico relativo alla gestione dotale del patrimonio persisteva e l’imposizione della clausura, se ebbe l’effetto di ridurre man mano il potere economico dei monasteri, non aveva scalfito il prestigio politico che l’ottenere cariche monastiche concedeva. La riduzione consistente dei privilegi legati allo status monastico non faceva che acuire il contrasto con le oligarchie locali, le quali non pensarono neanche un momento a rinunciare alla pratica di utilizzare i conventi come deposito di figlie e figli in esubero. Elisa Novi Chavarria documenta come nel Mezzogiorno italiano, la rete di tutorato e patronato laico sui monasteri stabilitasi prima della Riforma «continuò ad esercitare tutte le sue funzioni ancora a lungo negli anni a venire e almeno fino a tutto il XVII secolo.» (1997, 347) La situazione non doveva essere dissimile dagli altri stati regionali italiani, in cui la Controriforma si diffuse a macchia di leopardo e dove si vedevano nello stesso momento monasteri in cui la regola veniva applicata con rigidità ascetica ed altri monasteri rinomati per la loro mondanità(Rosa 1991, 220). Il punto era che le monache, allarmate di perdere i contatti con il mondo dal quale dovevano essere separate per sempre, mal si adattavano alla rinnovata autorità episcopale: la questione si risolse di fatto in un continuo conflitto sui casi particolari tra lo stile di vita praticato nei conventi, gli interessi politici

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familiari sopra di essi e le ingiunzioni vescovili33. Nel ducato di Milano, i vescovi erano addirittura esitanti ad esercitare il potere che detenevano perché consideravano scocciante se non pericoloso l’immischiarsi nelle lotte tra fazioni all’interno dei conventi, visitando i quali incontravano oltretutto una strenua resistenza monastica nell’accettare l’imposizione di chiavistelli e grate. Fu necessaria, in quel caso, la mediazione da parte del potere ducale per accontentare quelle famiglie che lamentavano la dissolutezza in cui vivevano le loro parenti nei conventi in cui il controllo ecclesiastico era latente34. Nella Venezia in cui visse Arcangela Tarabotti, dove il patriziato cittadino praticava periodicamente le sue serrate per preservare la linea maschile e la pratica della monacazione forzata era costume riconosciuto, il vescovo Antonio Grimani fu costretto addirittura ad inasprire i provvedimenti tridentini, portando l’età minima per la vestizione a 15 anni (Trento la poneva a 12, mentre a 16 anni era fissata quella per la professione) e l’obbligatorietà di due terzi dei voti in capitolo per l’accettazione in convento. Tuttavia queste disposizioni incontravano le resistenze pragmatiche delle autorità cittadine che si domandavano, nelle parole del patriarca Tiepolo puntualmente riportate da Mary Laven, «se duemille, e più nobili, che in questa città vivono rinserate

nei monasterii, come quasi in un publico deposito, havessero potuto, o voluto altramente disponere di loro stesse, che confusione! Che danno! Che disordine! Quai pericoli! Quai scandali, et qual male conseguenze si sariano vedute per le case e per la città.» (2004, 4235) Si avvertiva ancora la necessità di utilizzare i monasteri come magazzino per ragazze nubili per il mantenimento dell’ordine pubblico. A recidere i legami familiari presenti nei conventi era intervenuta, a Venezia come dappertutto – lo abbiamo già visto –, la legislazione tridentina, stabilendo l’ufficio della maestra delle putte, limitando l’ammissione di sorelle e nipoti e separando fisicamente le ali dei conventi in cui vivevano le professe e le educande, pur essendo quest’ultime costrette ad adottare lo stesso modus vivendi claustrale delle monache anziane. Sebbene raramente praticato, questo provvedimento era destinato a produrre un leggero cambiamento sociale nelle gerarchie conventuali. I clan che si disputavano il potere in capitolo si andarono man mano delineando non più su base familiare, come quando l’educazione delle fanciulle era affidate a zie e parenti, ma su base generazionale, sarebbe a dire che le dispute nascevano tra quante fra le educande rimanevano in convento crescendo insieme e le

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In questo contesto rientra la chiusura del convento di Sant’Arcangelo a Bajano del 1577, al centro dell’interesse dei racconti sulla monacazione forzata di Stendhal e Schifano. La chiusura, ordinata a causa di fatti misteriosi che evidenziarono una condotta disciplinare scandalosa, suscitò l’opposizione forte tanto dei nobili del Seggio di Montagna, dov’era collocato il monastero, quanto in quelli di Capuana e Nido, che rifiutarono di accogliere le monache scacciate da Bajano sotto la propria giurisdizione, cfr. Novi Chavarria 1997, 351-2.

34 Per la situazione specifica del Ducato di Milano, cfr. Mariani 1997, 220-1. Precisiamo il fatto che questo era

esattamente il contorno storico in cui di lì a qualche anno avverranno gli omicidi commessi da Marianna de Leyva e Gian Paolo Osio – Gertrude ed Egidio dei Promessi sposi.

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monache di lunga data36. Effetto, questo, che tardò a venire, o meglio non venne affatto, in Francia. Dopo il Concordato di Bologna del 1516, il conflitto di giurisdizione sui monasteri non avveniva oltralpe solo tra le gerarchie ecclesiastiche e le famiglie aristocratiche, ma vedeva coinvolta la stessa corona, in quanto il re di Francia aveva ottenuto il privilegio di nomina delle badesse nei monasteri posti sotto la sua giurisdizione. Una badessa nominata dal re, a differenza di quelle elette in capitolo, restava in carica a vita, e contrariamente a quanto rilevava Zarri sull’effetto della riforma dell’educandato in Italia, poteva tenere presso di sé una pupilla che svolgeva la funzione di prieure (“priora”), succedendole di norma alla guida del monastero. Fondato sul principio patriarcale della delegazione del potere da parte del re e dei superiori maschili, il badessato francese era caratterizzato dall’autorità suprema della mère-supérieure; sotto di lei stavano appunto la mère-

prieure e le monache da esse collocate nelle più importanti funzioni amministrative, le quali, come

tutte le altre, erano chiamate semplicemente sœurs. Ciò non toglie che il re, patriarca presiedente a tutto il sistema, potesse nominare o revocare a suo piacere il badessato, cosa che avveniva in base alle esigenze politiche della corte. Da parte sua, Roma «n’avait pas totalement renoncé à son droit de

regard sur les abbayes françaises et s’était réservé[è] de confirmer par des bulles le choix fait par le roi. En refusant parfois ces bulles, ou en retardant l’envoi, Rome montra parfois qu’elle n’entendait pas en faire toujours une ratification de pure forme.» (Reynes 1987, 8337) Sembrerebbe quindi che il convento riproducesse sia la configurazione della famiglia patriarcale, fatto universale, sia la struttura curiale e monarchica dello stato francese, che si avviava verso l’assolutismo. Nel Seicento inoltre, allorché la pratica della monacazione forzata non si era affatto esaurita tra l’aristocrazia che deteneva gran parte della ricchezza del paese e non aveva la minima intenzione di condividerla, era stato registrato un forte fenomeno di adesione a movimenti monastici quali ad esempio i Cappuccini, i Gesuiti o, in ambito femminile, le Orsoline, votati a una missione eucaristica improntata sulla reimposizione dell’austerità sui propri adepti a seguito del periodo di forte convulsione che il paese aveva vissuto con le guerre di religione del secolo precedente38. In tale contesto è da collocare l’adozione delle norme del De regularibus nella legislazione civile francese in materia di scioglimento dei voti, alla quale si aggiungeva di controcanto la condizione di mort civile per la religiosa che avesse emesso i voti solenni, fatto che comportava anche la rinuncia a tutte le eredità alle quali avrebbe avuto diritto restando nel secolo39. Questo dimostra ancora una volta che la volontà riformatrice del Concilio e del Regno di Francia in materia di monacazione coatta fosse indirizzata da un lato a

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Sulla regolamentazione dell’educandato e le conseguenze che ne derivarono, cfr. Zarri 2000, 178.

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All’interno di una più ampia trattazione sulla particolarità dei monasteri francesi nel capitolo V, “La bague e

la crosse”, pp. 77-102.

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A proposito dell’effetto delle guerre di religione sul monachesimo francese, cfr. Boggio Quallio 1978, 440.

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Per la legislazione civile francese sulla monacazione forzata e la morte civile per le professe Ejarque 2009, 34- 5; Reynes 1987, 71.

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regolamentare la capacità economica dei conventi con l’imposizione del rispetto dei voti di obbedienza, castità e povertà attraverso la clausura e dall’altro a far sì che dovessero attenersi a questi principi solo le ragazze che avessero scelto volontariamente di farlo. La linea tuttavia cozzava e continuava a cozzare con tutti i principi giuridici, sociali ed economici su cui la società di Ancien

Régime fondava la propria gerarchia aristocratica e patriarcale.

Tale sistema era destinato ad entrare in crisi solo nel XVIII secolo, quando diversi fattori economici e sociali si concentrarono insieme nel profondo mutamento che, a partire dall’età dei Lumi, avrebbe portato al taglio drastico messo poi in atto durante la Rivoluzione. Paradossalmente, nota Généviève Reynes «les vocations forcées se font déjà moins nombreuses. Au moment où la littérature s’empare

de ce thème, où la conscience de ce scandale envahit l’opinion publique, le fait lui-même, sans être exceptionnel, est moins fréquent qu’aux siècles précédents.» (Ivi, 53) Il clamore generato dalle

monacazioni forzate era dovuto ai soli due casi di reclame contre ses vœux registrati nel corso del secolo. In Francia era possibile ricorrere alla giurisdizione dei parlamenti locali, anche in caso di rifiuto da parte delle autorità ecclesiastiche, e uno dei due casi coinvolse direttamente il parlamento della capitale, balzando alle cronache nei salotti dell’epoca40 e arrivando alle orecchie sempre vigili dei philosophes41. Eppure ciò che aveva davvero colpito la vita monastica della Francia dei Lumi era in realtà un calo demografico. Fatto che preoccupava non poco i contemporanei, i quali, similmente ai Luterani cinquecenteschi, iniziarono a valutare quale impatto avesse il celibato monastico sulla popolazione francese. A ciò si aggiungeva anche la maturazione lenta ma definitiva degli effetti economici dovuti all’introduzione della clausura: i monasteri, maschili e femminili, iniziavano a mostrare un po’ dappertutto segni di povertà se non di degrado, tanto che nel corso del secolo cominciarono ad essere istituite commissioni – des Secours (1727-1788), operativa sui conventi femminili e des Réguliers (1766-80) per i conventi maschili – che ne ispezionassero lo stato e, laddove fosse necessario, li accorpassero tra loro o li sopprimessero. Nel 1768, per opera della stessa

Commission des réguliers veniva poi fissata, proprio per contrastare le forzature ma ancor più

probabilmente per arginare il calo demografico e rimpolpare le casse conventuali diminuendone il numero dei membri che vi attingevano, l’età minima per l’emissione dei voti a 18 anni. Al disagio della povertà e al calo di vocazioni che colpivano quindi tutti i monasteri si aggiungeva l’opinione pubblica, spinta dalla denuncia portata dai philosophes contro i padri-padroni: si stava sviluppando quel processo lento ma inesorabile che avrebbe sostituito all’etica aristocratica in ambito familiare, nella quale il valore assoluto da preservare era il lignaggio, l’etica borghese, in cui il legame tra gli

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Si tratta appunto dell’affaire Marguerite Delamarre, che sarà la fonte de La religieuse di Diderot.

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Per un’esposizione dettagliata dei due casi in questione, Cohué de Lusignan e Delamarre, si veda Choudhury 2004, 104-5.

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individui si fondava sull’affetto reciproco42. Tuttavia, sebbene alle nostre monache forzate l’aria che tirava dovesse apparire certamente favorevole, il nòcciolo del sistema era ancora duro da scalfire. Quando tra il 13 novembre 1789 e il 13 febbraio 1790, l’Assemblée nationale passò progressivamente dalla confisca dei beni monastici alla soppressione definitiva degli ordini religiosi maschili, lasciò agli ordini femminili la possibilità di sopravvivere per concedere loro l’opportunità di continuare a vivere in comunità dedite nella maggior parte dei casi all’assistenza dei malati. La clausura non costituiva più un obbligo e quante fossero state costrette a pronunciare i voti avrebbero potuto abbandonare immediatamente il convento. Tuttavia la reazione più diffusa non fu un esodo, ma piuttosto una dimostrazione di resistenza e attaccamento alle sante case. A tale manifestazione di zelo spirituale seguì la repressione violenta durante il regime del Terrore (1793-96): è stato reso celebre dal libretto di Francis Poulenc, il Dialogue des Carmelites, l’episodio del martirio delle sedici Carmelitane di Compiègne, finite alla ghigliottina il 17 luglio 1794 perché, nonostante avessero giurato fedeltà ai principi di libertà, uguaglianza e fratellanza, continuavano a vivere secondo la regola conventuale pre-rivoluzionaria. Sarebbe erroneo tuttavia leggere questi episodi di resistenza in un ambito di rinnovato fervore spirituale: alla base del fenomeno stavano le medesime motivazioni socioeconomiche che causavano le proteste delle religiose al momento dello scioglimento dei voti prospettato dalla Riforma Protestante. Che sono poi le stesse ragioni per cui l’Assemblée nationale preferì inizialmente lasciar sopravvivere gli ordini monastici dediti al lavoro invece di ricollocare le religiose nel secolo, dove probabilmente non avrebbero avuto di che sfamarsi. Sino a quando non si sarebbe prospettata per la donna l’opportunità di lavorare per mantenersi e di conseguenza non aver più bisogno della millenaria protezione maschile, la logica dell’aut maritus aut murus sarebbe stata destinata a perdurare. E perdurò ancora per qualche tempo, infatti43.

Anche in Italia, come documenta Anna Papagna, nel Settecento si era andato modificando il sistema di valori su cui poggiava la famiglia aristocratica. Prendendo sempre i Caracciolo come paradigma di una situazione generalizzata, si afferma che «in passato non sono mancati tensioni profonde e tentativi di resistenza [alle politiche familiari, NdR]; ma nel Settecento mutano la frequenza e l’intensità del fenomeno, per il quale si rivelano inadeguati i consueti sistemi di controllo informale e di ricomposizione dei conflitti tramite silenziose mediazioni di parenti e amici.» (2000, 716) Quello che accadeva, già nell’aristocrazia ma ancor più e a maggior ragione accadrà nella borghesia del secolo successivo, era il passaggio dalla primazia del lignaggio a quella della conservazione e

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Sul calo demografico e la preoccupazione sul celibato Reynes 1987, 139; a proposito dell'attività delle commissioni sui conventi Ivi, 15-16; e Ibidem, 41-42 sull'innalzamento dell'età per la pronuncia dei voti; in Choudhury 2004, 101, è spiegato il rinnovato ideale familiare del XVIII secolo.

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Per un resoconto delle misure rivoluzionare sui conventi Choudhury 2004, 156-7; Ivi, 176-9; Reynes 1987, 53- 5; in entrambi i riferimenti, così come in Evangelisti 2012, 213–215, è presente una discussione sulle ragioni storiche della resistenza monastica.

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l’incremento del patrimonio familiare. Inoltre, così come era accaduto in Francia, era stato registrato un progressivo calo delle professioni femminili e una perdita del ruolo simbolico e religioso che le comunità conventuali detenevano nella realtà cittadine. Dalla Francia poi si andava diffondendo l’attacco illuminista alle vocazioni forzate e sempre dalla Francia arrivava poi il provvedimento di soppressione dei conventi a seguito della seconda invasione napoleonica (1810-14). L’ingiunzione seguiva gli stessi principi del decreto dell’Assemblée nationale: restavano in vita solo le istituzioni che svolgevano un ruolo sociale attivo, ossia l’educazione delle fanciulle e l’assistenza ai malati. La stessa concessione veniva applicata del resto dal regime bonapartista in tutto l’Impero, dove gli istituti femminili riuscivano a ottenere facilmente permessi per svolgere attività di insegnamento44. A partire perciò dalla Restaurazione (1815) si sviluppò poi pienamente un nuovo incremento delle professioni monastiche, stavolta motivato da un’autentica spiritualità ritrovata, per cui «whereas women

religious had represented one third of the clergy in 1789, by 1877 they were a solid majority, constituting three-fifths of the clergy.» (Choudhury 2004, 181) Si esaurisce così nel corso del XIX

secolo la lunga parabola della forzatura monastica secondo le modalità attraverso le quali avveniva durante l’Ancien Régime. Ciò a causa dei rivolgimenti storici che caratterizzano l’Ottocento europeo per i quali si trovò ridimensionata se non del tutto svuotata di potere la classe presso la quale le motivazioni sociali ne costituivano le ragioni storiche. Mutava, con la seconda rivoluzione industriale, anche l’accesso della donna all’attività lavorativa, elemento che andrà man mano a corrodere il principio dell’aut maritus aut murus nel corso dei decenni. Cambiano poi soprattutto le fonti: il testimone passerà dai verbosi decreti conciliari e dai verbali processuali alla letteratura, che si occuperà di problematizzare gli episodi, pochi, dei secoli successivi nel contesto totalmente differenziatosi della società contemporanea.

Capitolo 3 – Non è possibile il maritarle tutte

1.3.1. Asilo per donne sole

Sebbene non sia stato notato esplicitamente, nelle pagine che precedono è stato dato per sottinteso il fatto che i provvedimenti che il Concilio pur aveva decretato in materia di libertà di vocazione non raggiunsero l’effetto desiderato nel limitare la pratica della forzatura. Soprattutto per quanto

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Sul declino dei conventi italiani nel Settecento e i provvedimenti napoleonici Zarri 2000, 142-3; è in Choudhury 2004, 181-213 la trattazione dell'analoga situazione francese sotto Bonaparte.

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riguarda il primo periodo in cui la legislazione tridentina entrò in vigore, l’autorità vescovile dovette fare i conti con nuclei di potere e giurisdizione secolare ed aristocratica assommatisi grazie alla prassi consolidata nei secoli. Ad aggiungersi alla triade di interessi familiari sui conventi – regolamentazione del mercato matrimoniale, prestigio delle cariche conventuali, favore politico dei familiari nei monasteri – deve essere in questa sede considerata la concezione comune del ruolo di pubblica utilità che nella modernità era associato alle istituzioni monastiche femminili. Sebbene con l’andar dei secoli fosse venuta a scemare quella convinzione che voleva che l’attività di preghiera delle religiose fosse necessaria per il benessere nazionale, come nel caso esaminato della Serenissima Repubblica, nondimeno i conventi continuavano ad adempiere alla finalità tutta civile di deposito non unicamente della prole considerata in eccesso ma più in generale di tutta la popolazione femminile che non poteva venire inquadrata nella configurazione giuridica d’Ancien Régime. Afferma Généviève Reynes che «pendant les deux siècles qui précèdent la Révolution (et au XIXème siècle

encore) les couvents vont surtout rendre d’immenses services en offrant un asile à celles qui, pour une raison ou pour une autre, se trouvent privées de la protection d’un mari. *…+ Les orphelines, les célibataires, les veuves, les femmes dont le mari est en voyage, retrouvent en louant un appartement à des religieuses, une liberté dont elles n’auraient pas joui si elles avaient dû rester dans le monde sous la tutelle de leur famille.» (1987, 229) Nei romanzi francesi del XVIII secolo la presenza dei

conventi è costante: la collocazione conventuale era l’unica destinazione possibile in una società che doveva garantire la protezione patriarcale sulla donna, fuori della quale essa veniva a perdere ogni qualità sociale, civile, giuridica e morale. In base a quanto è stato largamente spiegato sull’aut

maritus aut murus e la designazione della donna come sponsa viri aut Christi, dovrebbe essere

abbastanza semplice per chi legge dedurre che le monacazioni forzate non erano che il fenomeno manifesto di una concezione culturale che riguardava l’identità sociale di tutte le donne d’Ancien

Régime, religiose e laiche, aristocratiche o meno. Questo aspetto, che da mano maschile fu

modellato poi secondo le forme di civiltà che quel tipo di società produceva – la cultura, il diritto, la scala sociale stessa –, riguardava attraverso una forma di interiorizzazione le stesse donne. Prendiamo un esempio finzionale che nulla ha a che fare con le nostre mal monacate per precisare meglio la questione: nelle Liasons dangereuses (1782) di François Choderlos de Laclos, com’è noto,

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