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Parte I – Maritar o monacar

1.3.3. Forza e paura

Quanto è stato qui recuperato del pensiero di Tarabotti si rivelerà utile a introdurre la sezione finale di questo capitolo, al termine del quale il panorama sulla complessità delle dinamiche che definiscono una sorta di casistica della monacazione forzata dovrebbe essere relativamente completo per i fini che questo studio si propone. A dire il vero, ciò che interessa particolarmente è stato volutamente lasciato in fondo all’argomentazione perché ne costituisse la conclusione. Si tratta di ciò di cui suor Arcangela tace o perlomeno parla con poca cognizione di causa. Nella Semplicità

ingannata, sempre arringando contro la solennità dei voti monastici, la benedettina inserisce un

ragionamento:

«Se nel sacramento del matrimonio, contratto nel Paradiso in istato d’innocenza, essequito e confirmato nelle persone di tanti Patriarchi e Profeti, corroborato dall’assistenza di Cristo, e autenticato dall’essempio della medesima beatissima Vergine, benché fuori della legge ordinaria, e senza offesa del suo candor virginale, con giuste cause si concede il divorzio; e tutto che sia nodo così santo e così stretto, può nondimeno in qualche maniera sciogliersi, o almeno per la morte di una delle parti finire; perché denno esser condennate le monache, con inappellabile decreto nel sacramento della loro proffessione, ad osservazioni eternamente irrefregabili?» (Ibidem, 212-3)

Già Francesca Medioli (1990, 124-5), poi seguita da Susanna Mantioni (2014, 89), ha motivato l’erroneo interrogativo posto da suor Arcangela con l’ignoranza diffusa tra le monache a proposito

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della reversibilità della propria condizione. A un lettore ben attento non sarà sfuggito che il caput XIX del De regularibus et monialibus prefigurava la possibilità di reclamare la nullità della professione entro cinque anni dalla stessa e concedeva se non altro un’opportunità a chi avesse emesso i voti controvoglia di tornare sui propri passi. Risulta strano che Tarabotti, lucida e informata com’era, non fosse a conoscenza del caput che fra tutti avrebbe dovuto starle più a cuore, considerando quanto denunciava e proponeva, anche perché sul resto della materia legislativa tridentina era ferratissima. Ancora nella Semplicità, occupandosi di confutare la possibile obiezione dei suoi immaginari interlocutori patriarcali sulla scusabilità del loro atto dispotico se mirato al rimpolpamento dei ranghi di soldati e spose di Cristo, l’autrice si richiama esplicitamente a tutti i capita del decretum tridentino spiegandoli e interpretandoli alla perfezione sino a quando:

«In confermazione di questa mia verità sappiasi che quando quei sacri porporati rissolsero di ridurre a clausura i monasteri, promulgarono un editto che quelle che volontarie non acconsentissero di chiudersi per sempre potessero liberamente partire, senza che loro fosse imputato ad errore o disonore veruno. Segno, anzi prova manifesta e autentica, che in questo sagrificio non si devono offerire a Dio corpi sforzati, ma cuori innamorati.» (Ibidem, 329)

Per tutto il resto dell’intera trilogia, silenzio assoluto. Non è possibile stabilire per quale ragione Tarabotti si dimostri così reticente in materia; è senz’altro possibile che ne avesse, come pare evidente dall’ultima citazione, solo un sentore astratto, che le permetteva di interpretare correttamente il nesso di complementarità legislativa tra libertà di vocazione e clausura stabilito a Trento, ma non le consentiva di riconoscere che la nullità di professione era un atto legislativo come tutti gli altri, regolamentato e temporalmente scandito, e non una licenza concessa indiscriminatamente dalla Chiesa a chiunque esprimesse il proprio disagio. A quanto affermano Mantioni e soprattutto Medioli negli studi citati, l’ignoranza di suor Arcangela era comune a molte delle di lei sfortunate consorelle, alle quali tanto le autorità civili, per i motivi che conosciamo, quanto quelle ecclesiastiche, per evitare spunti propagandistici da offrire ai propri avversari, tendevano a non rendere nota la procedura di annullamento. Il fatto senz’altro plausibile, ma è possibile altresì che Tarabotti decida di tacere o quasi sull’argomento perché lo ritiene opzione poco convincente; il che però sembra comunque improbabile, considerata la personalità della nostra benedettina, che non sembra il tipo da abbandonare armi favorevoli alle proprie tesi. Certo è che se si guarda nel dettaglio la prassi canonica di scioglimento dei voti vengono fuori dei paradossi evidenti: elementi che fanno brillare gli occhi a chi sta cercando di dimostrare un concetto, appunto paradossale, di tutela violenta.

In materia di reclami per l’annullamento di voti forzati è fondamentale il volume di Anne Jacobson Schutte, By force and fear. Taking and Breaking Monastic Vows in Early Modern Europe, Cornell University Press, Ithaca (NY), 2011. La studiosa americana prende in esame tutti i casi di petizione per

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restitutio ad integrum, l’abbandono dell’abito monastico, vagliati dalla Sacra Congregazione del

Concilio (SCC) tra il 1668 e il 1793, sarebbe a dire a partire da una data di circa un secolo posteriore all’emanazione dei provvedimenti conciliari e la creazione della magistratura deputata a vigilarne sull’applicazione e l’anno in cui si è soliti indicare la caduta definitiva dell’Ancien Régime, con l’esecuzione sulla ghigliottina di Luigi XVI e l’inizio del regime rivoluzionario del Terrore. Da questo lavoro emergono elementi e soprattutto numeri fondamentali per il discorso che si sta qui portando avanti. Innanzitutto, quali erano le modalità attraverso le quali si sporgeva reclamo? Come stabiliva il

caput XIX il religioso o la religiosa forzata doveva esporre reclamo entro cinque anni dal giorno in cui

era avvenuta l’emissione dei voti solenni, cioè la professione. Per fare ciò, egli o ella doveva rivolgersi a un avvocato, incaricarlo di scrivere una petizione, in lingua locale ed in terza persona, e spedirla direttamente al Sommo Pontefice, il quale la inoltrava alla giurisdizione della Sacra Congregazione Conciliare. Nel caso l’organo decidesse di procedere, veniva avviata un’indagine diocesana in cui il vescovo o un suo vicario erano tenuti a recarsi nel monastero in cui il reclamante risiedeva – questi non poteva uscirne sino al termine del procedimento –, interrogare la lista dei testimoni indicati dall’avvocato ricorrente e ascoltare la controparte nominata nel ricorso, generalmente dalla famiglia oppure dalla stessa istituzione conventuale. Una volta portata a termine l’investigazione, il verbale ritornava alla Sacra Congregazione che deliberava, in caso di verdetto favorevole ai forzati, la nullitas

professionis e la restitutio ad integrum. Generalmente le cause tendevano a denunciare motivazioni

che rendevano di fatto irregolare il cerimoniale di ingresso in monastero stabilito a Trento: età troppo bassa o infermità del professando ad esempio, in cui la questione della coercizione passava in secondo piano. Nel caso in cui il termine dei cinque anni fosse decorso, l’unica via percorribile per i forzati era un’instantia pro restitutione in integrum adversus lapsum quinquennii, da recapitare direttamente al papa, al quale era affidato questa volta il veto sull’inoltrare o meno il reclamo alla Sacra Congregazione. Tale procedura restò sostanzialmente inalterata sino al 1748, quando Benedetto XIV, al secolo Prospero Lambertini, che della Sacra Congregazione fu precedentemente membro e segretario, emanò la costituzione Si datam hominibus fidem in cui si occupava di ristabilire l’efficienza in materia di indagini sullo scioglimento dei voti. In Si datam si ri-stabiliva quindi che i cinque anni decorressero esattamente dal giorno della professione – dovevano evidentemente esser sorti dubbi in materia –; che l’indagine dovesse occuparsi esclusivamente dei punti sollevati dal rappresentante del reclamante; che dovessero essere ascoltati come testimoni i superiori delle istituzioni monastiche e i familiari del petizionario, ivi compresi i presunti forzatori; che i primi giudici in materia fossero i superiori diocesani, i quali avrebbero dovuto decidere se fosse il caso di rimandare l’affare alla decisione della Sacra Congregazione. Nondimeno, laddove la petizione fosse stata inoltrata in ritardo, si richiedeva l’attenzione e la dignità d’intervento del pontefice sulla questione, e Benedetto XIV dimostrò poi in carica particolare accoramento nella considerazione di

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queste pratiche. Durante tutto questo lasso di tempo, come per tutti gli altri provvedimenti tridentini, la giurisdizione ecclesiastica andava a scontrarsi contro le disposizioni che i poteri locali e nazionali avevano adottato per proteggere i loro interessi sui monasteri. A Venezia, ad esempio, vigeva già dal 1501 e persisteva anche all’epoca in cui scriveva Tarabotti una proibizione di inoltrare appelli a Roma a meno che non vi fosse un’esplicita autorizzazione governativa. Si è già detto quanto la politica della forzatura fosse parte fondante nelle serrate del patriziato cittadino, aggiungiamo qui che la Serenissima aveva poi sempre tradizionalmente interesse a mostrare una certa indipendenza dall’autorità romana. In Francia, quando la patria potestas veniva messa in discussione in ambito di scelta di prospetti matrimoniali o monastici per i figli, incombeva la possibilità di emissione su reclamo della lettre de cachet, l’ordine di imprigionamento emesso direttamente dal re, che era ovviamente forte incentivo all’obbedienza filiale62.

Quando non erano state riscontrate irregolarità rituali che invalidassero la professione, ci si concentrava sulla casistica attraverso la quale era avvenuta la costrizione a prendere l’abito. Si parlava di monacazione forzata nel caso in cui l’emissione dei voti fosse stata indotta per vim et

metum, attraverso forza e paura, della quale poi venivano definiti gradi e sottoinsiemi, sufficienti a

piegare la volontà di un vir costans, ossia un uomo fisicamente capace di opporre resistenza alla violenza subita o razionalmente in grado di scegliere volontariamente di evitare pericoli fisici maggiori assecondando la volontà – generalmente paterna – di chi ne obbligava le inclinazioni (Jacobson Schutte 2011, 144-5). Invitiamo chi legge a tenere a mente quest’ultimo principio perché stiamo per introdurre finalmente un po’ di numeri che, oltre a dimostrare che ad essere forzate non fossero solo le donne, ci aiutano ad introdurre la serie di paradossi da cui si vogliono ricavare le argomentazioni alla tesi che si sta portando avanti. Lo studio di Jacobson Schutte è magistrale in quanto si prende la briga di catalogare in comodissime tabelle i risultati delle indagini condotte dalla redattrice, illustrandone la suddivisione di genere (Ivi, 12). Ebbene, sul totale di 978 richieste di scioglimento dei voti esaminate dalla Sacra Congregazione Conciliare tra il 1668 e il 1793, 807 sono inoltrate da uomini e 171 da donne. Nel caso degli uomini, in 416 casi (51,5% del totale), la SCC ha deliberato, pronunciandosi positivamente in 153 occasioni (36,7% delle petizioni giudicate, 19% delle totali maschili) e negativamente in 258 (62% delle giudicate, 31,9% delle maschili). Per quanto concerne le donne, nelle 96 delibere totali (56,1% dei ricorsi presentati), la nullitas professionis fu garantita in 68 casi (70,8% dei verdetti, 39,8% delle petizioni totali), mentre la permanenza in convento fu ristabilita in 27 (28% delle sentenze, 15,8% delle richieste).

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Sulla prassi di scioglimento dei voti Mantioni 2014, 265-8; Jacobson Schutte 2011, 5-7; sulle riforme condotte da Benedetto XIV, Ivi, 112-5; sulla particolarità veneziana, Ibidem, 94-5, 203.

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Per fare un po’ d’ordine, è importante notare in primo luogo che le petizioni maschili furono molto più numerose di quelle femminili, le superano in rapporto di quattro a uno. Non c’è sostanziale differenza sul numero di petizioni considerate degne di essere trattate, c’è anzi un leggero vantaggio di quelle femminili (51 vs 56 %). Ciò in cui si riscontra invece un divario notevole è l’esito dei processi: su una media di dieci frati che facessero appello solo tre o quattro svestivano l’abito, mentre le monache restituite al secolo erano quasi il doppio. Questo dato non dovrebbe essere di difficile lettura se consideriamo quanto è stato esposto circa le qualità del vir constans: una donna era sicuramente considerata non in grado di contrapporre efficace resistenza fisica e, in base al pregiudizio misogino di matrice aristotelica contro il quale Tarabotti lanciava anatemi, razionalmente più debole, inerme, timorosa, in una parola assoggettabile all’altrui volontà. Ciò faceva sì che fosse

tutelata e fosse molto più facile provare la violenza esercitata dal padre di famiglia, anche attraverso

il solo sguardo come accade nei Promessi sposi, verso la figlia recalcitrante che la resistenza fisica di un ben più costans benché disobbediente maschio. Nondimeno, Tarabotti taceva e gli uomini ricorrevano molto di più delle donne e non ci sono indizi – nemmeno i numeri riportati da Jacobson Schutte lo sono – che i forzati contassero più ampia copia rispetto alle forzate nella società del tempo. Perché dunque le monache non inviavano anch’esse le loro petizioni se, oltretutto, avevano anche più possibilità di vincere la causa?

La cosa era più facile a dirsi che a farsi e per alcuni aspetti riguardava entrambi i sessi. Contro la forzatura il Concilio di Trento aveva stabilito, lo ricordiamo, una serie di provvedimenti volti a prevenire la forzatura e scoraggiare le famiglie a sacrificare i propri figli o le proprie figlie – introduzione dei limiti minimi di età, dell’esame episcopale sulla veridicità della vocazione, dell’anatema contro chi fosse responsabile dell’atto, i complici e persino i testimoni. Ora, se nonostante queste misure si fossero trovate applicate la costrizione si fosse verificata lo stesso, come tra l’altro continuava ad accadere regolarmente, era assai improbabile che violenze, minacce e altre forme di persuasione diretta o indiretta dimostratesi tanto efficaci svanissero da un momento all’altro nei cinque anni che succedevano alla professione. La prospettiva di un rientro nel focolare domestico non era esattamente allettante per i nostri e le nostre postulanti. Inoltre, nello stesso momento in cui veniva pronunciato il voto di povertà si finiva, lo abbiamo visto, per rinunciare a ogni forma di proprietà e di conseguenza alla propria porzione di eredità, il cui ammontare andava a finire nelle casse comunitarie del convento e per giunta con valore molto inferiore a quello che si sarebbe percepito nella collocazione mondana. Il voto di obbedienza obbligava poi, qualora si fosse stati intenzionati a esprimere pubblicamente la propria intenzione, a doversi confrontare con superiori spirituali ed ecclesiastici, i quali, spinti dalla volontà di non creare scandalo intorno alla vita nei monasteri, tentavano normalmente di dissuadere chi voleva reclamare. La tempistica delle

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procedure – contatti con un legale, redazione della petizione, inoltro pontificio alla Sacra Congregazione, indagine diocesana, nuovo esame della Sacra Congregazione e sentenza – era, com’è facile intuire, piuttosto lunga e complessa. Restava l’opportunità di fare appello presso il pontefice, ma il problema materiale che comunque persisteva era che gli avvocati dovevano essere anche loro retribuiti. Ora, immaginiamo come per un individuo contro il quale tutto l’apparato sociale, etico e religioso faceva levata di scudi per intralciarne la determinazione fosse pressoché impossibile sostenere da solo le spese della petizione o trovare protettori che gli prestassero del denaro. Si aggiungano poi a queste difficoltà che trascendono i confini di genere tutti i limiti imposti nel caso specifico delle donne. Come trovare un avvocato non potendo mettere piede fuori dal convento e, anche nel caso lo si trovasse, come spiegargli la propria situazione in maniera chiara e diretta trovandosi sempre accanto l’ascoltatrice al parlatorio? E come consegnargli e ricevere da lui missive dalle quali venire aggiornati sull’avanzamento della procedura se la badessa, cui spettava il controllo della corrispondenza conventuale, si fosse dichiarata contraria al reclamo? Tra l’altro, bisogna fare i conti con quanto l’esperienza di Tarabotti illumina per contrasto: suor Arcangela rappresenta un caso a sé nella storia dell’intero monachesimo femminile e anch’essa lamenta la carenza di un’istruzione adeguata, pur essendo tra le sue consorelle una delle più colte. Anche lei ignorava o comunque non mostrava interesse per lo scioglimento dei voti e c’è quindi da supporre che in tante non fossero nemmeno a conoscenza dello spiraglio legislativo che potevano sfruttare. Oltretutto, e qui veniamo al paradosso, essendo tutelate perché considerate prive di volontà nel momento in cui venivano forzate diventava poi complicato dimostrare di avere una volontà propria e opposta a quella indotta, manifestatasi al momento di decidere l’abbandono dell’abito. Doveva essere comprovata la presenza di un'altra volontà, naturalmente maschile, che avesse ricondizionato la volontà della forzata contro quella paterna, il che ovviamente rendeva nulla la petizione poiché si sarebbe trattato di una confessione in piena regola del fatto che i voti non fossero stati forzati e fossero poi stati anche trasgrediti. Altro punto cruciale questo, ci torneremo a breve. Tutto ciò naturalmente nei casi in cui si incorresse in violenza diretta e manifesta; tutta la schiera di coloro che accettavano silenziosamente il velo doveva poi fare i conti con il solito problema della collocazione sociale. Spesso non più in età da matrimonio, prive della possibilità di far fortuna in altri ambiti professionali come potevano invece i dirimpettai del sesso opposto, rose dal discredito etico o sociale diretto verso chi aveva abbandonato un matrimonio spirituale per ben più mondane speranze, nel mondo secolare che riabbracciavano si trovavano di nuovo, se tutto andava bene, straniere in casa propria, con un mare di difficoltà nel riacquisire i diritti civili a cui avevano rinunciato, impossibilitate al recuperare parte dell’eredità familiare perduta ed eventualmente una nuova dote nel caso volessero finalmente

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sposarsi. La ragione per cui non volevano uscire dal convento era la stessa per cui si erano rassegnate ad entrarvi63.

Perso per perso, tanto valeva rischiare la fortuna. In uno studio di Francesca Medioli (1994) si rintracciano gli sviluppi di quindici processi per nullitas professionis tra XIV e XVIII secolo64, la cui costante è rappresentata dal fatto che in una sola occasione la petizione è presentata dall’interno del convento. Le forzate preferivano infatti attuare un piano di fuga per poi intentare causa contro la propria famiglia da una posizione di forza, alloggiate com’è ovvio presso chi le avesse aiutate. Sebbene proprio nel caput XIX del De regularibus i petizionari erano esplicitamente fatti oggetto di obbligo di rimanere nel monastero e, nel caso delle donne, la violazione della clausura attiva costituisse un’aggravante che portava a richiedere l’intervento del braccio secolare nel riacciuffare la fuggitiva, era chiaro che la prospettiva di tornare ad essere rinchiuse come già lo erano prima di fuggire faceva sì che il gioco valesse la candela. Riportiamo e sottoscriviamo quanto sostiene Medioli, «grazie all’aperta ribellione di queste donne, è possibile affermare senza paura di anacronismi, che esse erano perfettamente consapevoli della violenza che soffrivano» (1994, 434). Perché proprio questo è il punto che dovrebbe risultare sufficientemente chiaro dopo quanto si è detto sinora nell’intera trattazione, a partire dalla propaganda protestante passando per De regularibus, Tarabotti e così via. La monacazione forzata era un fenomeno conosciuto nella cronaca, riconosciuto a livello socioeconomico, proibito e denunciato nella giurisdizione e tuttavia pertinacemente praticato per secoli. La coscienza profonda del fenomeno era condivisa da autorità civili ed ecclesiastiche, figli e

pater familias, uomini e donne, soprattutto, che interiorizzavano i dettami sociali del patriarcato, vi si

ribellavano apertamente o li utilizzavano a proprio vantaggio.

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Non si è ritenuto utile snocciolare una serie di rimandi bibliografici per una teoria ampiamente condivisa in tutti gli studi di riferimento. Per le difficoltà associate alla procedura di scioglimento dei voti, la condizione particolare delle donne e la difficoltosa ricollocazione al secolo, cfr. Mantioni 2014, 267-9; Jacobson Schutte 2011, 90-3; Choudhury 2004, 106; Reynes 1987, 42-5 . Lo studio di Susanna Mantioni è più volte citato in questa sezione proprio perché, pur attraverso itinerari disciplinari diversi e in ambito storiografico, presenta elementi di somiglianza molto evidenti a quanto in questa tesi si sosterrà a proposito del parallelo dominio letterario.

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Si coglie l’occasione per precisare che in epoca pretridentina la giurisdizione sugli affari in materia di scioglimento dei voti era di pertinenza dei due tribunali romani della Rota e della Sacra Congregazione sopra i Vescovi e i Regolari, come precisa anche in Mantioni 2014, 266.

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